Dopo la Corte Edu De Tommaso c. Italia: le misure di prevenzione al vaglio delle Sezioni unite

Sergio Beltrani
27 Marzo 2017

All'udienza 27 aprile 2017, le Sezioni unite esamineranno la seguente questione: se il reato di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che punisce la condotta di chi violi le prescrizioni “di vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, imposte con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale ...
Abstract

All'udienza 27 aprile 2017, le Sezioni unite esamineranno la seguente questione:

se il reato di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che punisce la condotta di chi violi le prescrizioni “di vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, imposte con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. cit., sia coerente con i principi di precisione, determinatezza e tassatività delle norme penali, anche alla luce della sentenza della Corte Edu del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.

La questione è stata rimessa alle Sezioni unite d'ufficio, ai sensi dell'art. 610, comma 3, c.p.p., sul presupposto della sua «speciale importanza», oltre che al fine di prevenire possibili contrasti interni in seno alla giurisprudenza di legittimità, su segnalazione dell'Ufficio esame preliminare dei ricorsi penali della I Sezione della Corte di cassazione.

La decisione della Corte Edu

1. Adita nel lontano 2009 (attenzione a dolersi – come tanti ormai fanno senza neppure sapere perché – dei tempi della giustizia penale italiana: il tempo di durata medio di un processo penale in Cassazione, nonostante le 55.000 e passa sopravvenienze all'anno, è pari, secondo i dati più aggiornati, a circa sei mesi) da un soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la Corte Edu, Grande Chambre, con sentenza del 23 febbraio 2017, ha rilevato, all'unanimità, violazione:

Quest'ultimo profilo appare privo di rilievo pratico, avendo la Corte costituzionale italiana (sentenza n. 93 del 2010) già riconosciuto, nell'ambito del procedimento di prevenzione, il diritto degli interessati di chiedere la pubblica udienza davanti ai tribunali (giudici di prima istanza) ed alle Corti di appello (giudici di seconda istanza ma competenti al riesame anche delle questioni di fatto, se non addirittura essi stessi all'assunzione o riassunzione di prove), ed essendo tale misura già stata ritenuta sufficiente a garantire la conformità del nostro ordinamento alla Convenzione Edu (come interpretata dalla Corte Edu a partire dalla sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia), senza che occorra estendere il suddetto diritto al giudizio davanti alla Corte di cassazione (Corte cost., sentenza n. 80 del 2011). La citata pronuncia della Grande Chambre riguarda fatti risalenti ad un periodo antecedente rispetto alle citate decisioni (non a caso, il Governo italiano aveva in parte qua manifestato l'intenzione di addivenire ad un règlement amiable).

Notevole rilievo va, invece, riconosciuto all'ulteriore decisione assunta.

Il caso

Il caso esaminato dai giudici di Strasburgo riguardava l'applicazione della misura della sorveglianza speciale, disposta in data 11 aprile 2008 dal tribunale di Bari ma già annullata per carenza dei presupposti (in particolare, per difetto di pericolosità attuale, oltre che per essere stati erroneamente valorizzati a carico del prevenuto elementi in realtà riguardanti un suo omonimo) in data 28 gennaio dalla Corte di appello di Bari (§ 20 della motivazione).

Il ricorrente, con il ricorso alla Corte Edu, lamentava di essere stato ingiustamente sottoposto a pesanti restrizioni della libertà personale dal 4 luglio 2008 al 4 febbraio 2009 (periodo di effettiva applicazione della misura di prevenzione conclusivamente annullata) e che la lunghezza di tale periodo era dipesa dal fatto che la Corte di appello non aveva rispettato il termine di trenta giorni per la decisione (§ 96 della motivazione).

Le questioni

Le violazioni rilevate dalla Corte Edu. La Grande Chambre ha ravvisato violazioni dell'art. 2 del protocollo n. 4 alla Convenzione Edu sia quanto ai presupposti per l'applicazione della misura de qua, sia quanto a quattro prescrizioni che ne sono conseguite.

Quanto al primo profilo, la Grande Chambre, nel riconoscere che le restrizioni oggetto di doglianza avevano una base legale, ha ritenuto che l'art. 4 della l. 1423 del 1956 (medio tempore quasi integralmente trasfuso negli artt. 1 ss. d.lgs. 159 del 2011) non contenga una chiara e precisa indicazione degli elementi di fatto e degli specifici comportamenti sintomatici della necessaria pericolosità sociale e valorizzabili ai fini dell'applicazione della misura, finendo col rimettere il relativo apprezzamento alla discrezionalità del giudice, senza indicare le finalità e le modalità di esercizio di tale discrezionalità; in tal modo, le conclusive decisioni non erano prevedibili, non essendo ex ante chiaro a quali soggetti, ed in ragione di quali comportamenti, la misura de qua potesse essere applicata; difettavano, inoltre, adeguate garanzie da eventuali abusi (§§ 117-118 della motivazione, di seguito riportati, per la loro chiarezza).

Pur se le predette considerazioni risultano di portata chiaramente generale, riguardando la normativa interna, in particolare quanto all'indicazione dei requisiti di c.d. pericolosità generica che devono ricorrere ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione de qua, non mutato all'indomani dell'entrata in vigore del codice delle leggi antimafia, la stessa Grande Chambre sembra conclusivamente riconoscere (§ 119 della motivazione) che, in concreto, il tribunale (si badi: non anche la Corte d'appello) aveva indebitamente valorizzato, ai fini dell'applicazione, una generica ed indeterminata «tendance à la dèlinquance», non conformandosi ai principi da epoca risalente affermati dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 177 del 1980), a parere della quale, in particolare va ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione – in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale – è necessariamente subordinata all'osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sent. n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perchè la mancanza dell'uno vanifica l'altro, rendendolo meramente illusorio. Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai casi previsti dalla legge, lo si ancori all'art. 13 ovvero all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità, previste – descritte - dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata. Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale. (…) Al proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni. Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all'avvenire. Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.

Nel caso in esame, peraltro, è stata la stessa Corte di appello interna ad annullare la misura: appare allora evidente che si discute di una misura della quale l'ordinamento interno, se correttamente interpretato, non avrebbe consentito l'applicazione, e quindi non (o, quanto meno, non soltanto) di un deficit di sistema, ma di una applicazione distorta (lo conferma il fatto che, diversamente dal solito, questa volta la decisione della Corte Edu non comporta per lo Stato italiano alcun problema di esecuzione, poiché la misura che si asserisce illegittimamente applicata era già stata puntualmente revocata in accoglimento dell'appello del prevenuto, ma solo un onere risarcitorio).

Ed appare francamente misterioso come, in presenza di una siffatta situazione, ed in particolare a fronte di una motivazione tanto ondivaga (all'evidenza frutto di discussioni e, verosimilmente, compromessi non del tutto riusciti tra le plurime anime della Corte Edu, come il tempo necessario per la sua stesura e le plurime opinioni separate e/o dissenzienti documentano), che da un lato stigmatizza l'imprecisione della normativa di prevenzione italiana, dall'altro non può non ammettere che essa sia stata nel caso esaminato applicata discostandosi dall'interpretazione adeguatrice ritenuta necessaria, e quindi imposta, dalla Corte costituzionale, si possa disinvoltamente ritenere tout court desumibile l'illegittimità dell'intero sistema di prevenzione italiano.

Quanto al secondo profilo, il dictum della Grande Chambre (§§ 119-127) riguarda le prescrizioni di:

  • non dare ragione di sospetti;
  • vivere onestamente e rispettare le leggi;
  • non partecipare a pubbliche riunioni.

Le questioni riguardanti la prima hanno perso concreta rilevanza, atteso che la prescrizione non è più menzionata dall'art. 8 d.lgs. 159 del 2011 tra quelle applicabili.

In ordine alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, la Corte costituzionale (sentenza n. 282 del 2010), aveva ritenuto che:

  • la prima, se valutata in modo isolato, appare di per sé generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati, quindi non qualificabile come uno specifico obbligo penalmente sanzionato. Tuttavia, se essa è collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dall'art. 5 della legge 1423 del 1956 e successive modificazioni e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso soltanto da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, la prescrizione assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di vivere onestamente si concreta e si individualizza;
  • l'altra, non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale. Né vale addurre che questo è un obbligo generale, riguardante tutta la collettività, perché il carattere generale dell'obbligo, da un lato, non ne rende generico il contenuto e, dall'altro, conferma la sottolineata esigenza di prescriverne il rispetto a persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il suddetto giudizio di grave pericolosità sociale.

Pur nella dichiarata consapevolezza di tale arresto della giurisprudenza costituzionale, la Grande Chambre ha ugualmente ritenuto che il contenuto delle predette prescrizioni non sia normativamente definito con chiarezza: da ciò consegue, secondo i Giudici di Strasburgo, che la misura che ne comporta l'applicazione interferisca illegalmente sulla libertà di circolazione del prevenuto.

La Grande Chambre ha, infine, osservato che la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni è di per sé illegittima, comprimendo illimitatamente il diritto di riunione del prevenuto; né potrebbe ammettersi che la fissazione di limiti spaziali e temporali sia rimessa alla discrezionalità del giudice, in difetto di parametri normativi che delimitino e guidino l'esercizio di tale discrezionalità.

Le possibili soluzioni giuridiche

Le ravvisate violazioni dell'art. 2 del protocollo n. 4 alla Convenzione Edu pongono il problema di stabilire la legittimità della normativa interna sia quanto ai presupposti per l'applicazione della misura di prevenzione de qua, sia quanto ad alcune delle prescrizioni che possono conseguirne.

Dal dictum della Corte di Strasburgo potrebbe conseguire, inoltre, la possibile incostituzionalità per difetto di tassatività o determinatezza, dell'art. 75 d.lgs. 159 del 2011, che prevede e punisce come reato la violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza, e quindi anche l'inosservanza delle predette prescrizioni: è questa, infatti, la specifica questione posta al vaglio delle Sezioni unite.

In riferimento ai casi di contrasto tra la normativa interna e la Convenzione Edu, come interpretata dalla Corte Edu, la giurisprudenza costituzionale, nel sottolineare la differenza tra le norme della Convenzione Edu e quelle comunitarie, ha evidenziato che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudizi nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto (Corte cost., n. 348/2007).

Ne consegue che la disapplicazione della disposizione di legge da parte del giudice che reputasse una determinata disciplina non conforme alle previsioni della Convenzione Edu, sarebbe illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della predetta Convenzione deve, invece, assegnarsi il rango di fonti interposte, destinate ad integrare il parametro di cui all'art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al Legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi: le norme della Convenzione Edu vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea; la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall'art. 117, 1° co., Cost.) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione (Corte cost., n. 348/2007).

Pertanto, in materia di rapporti tra l'art. 117, comma 1, della Costituzione e le norme della Convenzione Edu, tenuto conto della ricostruzione ermeneutica della Corte Edu e della giurisprudenza costituzionale, ormai consolidata (cfr., da ultimo, Corte cost., n. 303/2011 e n. 264/2012), deve conclusivamente ritenersi che, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della Convenzione Edu non possa essere risolto in via interpretativa, deve escludersi che possa essere direttamente applicata la norma convenzionale interposta obliterando il contrario disposto di una norma interna (Cass. pen., Sez. unite, n. 27620/2016; conformi, Cass. pen., Sez. unite, n. 34472/2012 e n. 41694/2012): in questo caso, dovrà essere sollevato l'incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell'indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell'interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell'ordinamento costituzionale italiano.

Il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Convenzione Edu subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione Edu. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento (Corte cost., n. 49/2015).

La Corte costituzionale, se non può prescindere dall'interpretazione data delle disposizioni della Convenzione Edu dalla Corte di Strasburgo (ai sensi dell'art. 32, § 1, della Convenzione, infatti, la competenza della predetta Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa), può, nondimeno, a sua volta interpretare la Convenzione, purché nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenze n. 311/2009 e n. 236/2011), verificando se la norma della Convenzione Edu, nell'interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione (sentenza n. 311 del 2009), ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato (sentenza n. 113/2011), ovvero valutando come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 317/2009).

In conclusione

Secondo la ormai consolidata giurisprudenza costituzionale (a partire dalle sentenze n. 27 del 1959 e n. 23 del 1964), le misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423 sono fondate sul principio secondo il quale l'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito non soltanto dal sistema di norme repressive di fatti illeciti ma anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del verificarsi dei fatti illeciti stessi; tale sistema corrisponde ad una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta negli artt. 13, 16 e 17 Cost. Di conseguenza l'adozione delle misure di prevenzione può essere collegata non al verificarsi di fatti singolarmente determinati ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una condotta assunta dal Legislatore come indice di pericolosità sociale.

Il Legislatore deve perciò procedere normalmente con criteri diversi da quelli usati per la determinazione delle figure criminose e può riferirsi anche ad elementi presuntivi ma sempre corrispondenti a comportamenti identificabili obiettivamente

Le possibili conseguenze delle ravvisate violazioni dell'art. 2 del protocollo n. 4 alla Convenzione Edu quanto ai presupposti per l'applicazione della misura di prevenzione de qua sembrerebbero, almeno allo stato, destinate a rimanere incerte.

Invero, esulando la questione dall'ambito di quelle suscettibili di assumere rilievo ai fini della decisione nel processo rimesso alle Sezioni unite (trattasi, lo si ripete, di un processo penale riguardante il reato di cui all'art. 75 cit.), il supremo Collegio potrebbe al più, in via meramente incidentale (ma seguendo un solco di recente già abbondantemente arato), esprimere una opinione eventualmente conservativa, non certo affermare l'illegittimità del sistema di prevenzione italiano (come da taluni incautamente auspicato), poiché questo potere compete, come illustrato, alla sola Corte costituzionale, la quale, se in ipotesi adita, non potrebbe che dichiarare la manifesta inammissibilità delle questione per trasparente difetto di rilevanza. A meno di non voler sconfessare il tradizionale ed iper-consolidato orientamento per il quale, nel procedimento penale per violazione degli obblighi imposti con il decreto applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, è preclusa la deduzione, anche in via incidentale – e, quindi, anche il rilievo d'ufficio –, di questioni relative alla legittimità del suddetto provvedimento (Cass. pen., Sez. I, n. 10963/2011; Cass. pen., Sez. I n. 9388/1977 e Cass. pen., Sez. I, n. 4466/1973), e passare ad esaminare di ufficio la legittimità dell'imposizione della misura che ha imposto l'osservanza delle prescrizioni che si assumono violate.

Diversamente, dovranno necessariamente essere risolte le possibili conseguenze delle ravvisate violazioni dell'art. 2 del protocollo n. 4 alla Convenzione Edu quanto alle predette prescrizioni che possono conseguire all'applicazione della misura di prevenzione de qua.

E se, con riguardo al concreto ambito del divieto di partecipare a pubbliche riunioni, il dictum della Corte di Strasburgo (in virtù del quale non basterebbe a rendere legittimo il divieto affidarne la delimitazione al giudice, la cui discrezionalità, in difetto di “paletti” di origine normativa, sarebbe inammissibilmente illimitata) potrebbe pur tuttavia essere aggirato da un diritto vivente di origine giurisprudenziale che indichi al giudice i parametri da seguire nella relativa disamina, diversamente, quanto alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi il contrasto con quanto in passato ritenuto dalla Corte costituzionale è evidente ed ineludibile.

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