I reati culturalmente motivati

Alessandro Negri
28 Luglio 2017

Che sia un effetto della globalizzazione o una fase di quello scontro di civiltà teorizzato da Huntington nel lontano 1996, l'immigrazione massiccia registrata negli ultimi vent'anni ha profondamente modificato la fisionomia etnico-culturale delle società europee, chiamate a confrontarsi con tradizioni profondamente diverse e talora incompatibili con i valori e le consuetudini occidentali. Il radicamento di consistenti minoranze etniche nel Vecchio Continente ha dimostrato che ...
Abstract

Che sia un effetto della globalizzazione o una fase di quello scontro di civiltà teorizzato da Huntington nel lontano 1996, l'immigrazione massiccia registrata negli ultimi vent'anni ha profondamente modificato la fisionomia etnico-culturale delle società europee, chiamate a confrontarsi con tradizioni profondamente diverse e talora incompatibili con i valori e le consuetudini occidentali.

I reati culturalmente motivati: un dibattito sempre attuale

Il radicamento di consistenti minoranze etniche nel Vecchio Continente ha dimostrato che non esistono più paesi lontani (Victor Segalen) e inevitabilmente ha costretto il diritto penale – che notoriamente è espressione della cultura maggioritaria – a confrontarsi con i concetti di cultural defense e reato culturalmente motivato.

L'aumento dei reati (e quindi dei procedimenti penali), cui fa da sfondo l'adesione a codici culturali che tollerano, autorizzano o impongono il comportamento vietato dalla legge penale, ha suscitato nel dibattito penalistico prese di posizione divergenti, che riflettono più generali opzioni politiche di fondo sulla latitudine del riconoscimento da accordare alla diversità culturale.

Si registrano dunque orientamenti diversi, che oscillano tra i poli opposti del modello assimilazionista, improntato ad una asettica neutralità dello Stato di fronte alle differenze culturali (che in caso di mancato adeguamento alla cultura del sistema di accoglienza può persino assumere cadenze discriminatorie) e un modello multiculturalista, incline a considerare le specificità identitarie delle minoranze e, quindi, a tollerare (beninteso, nei limiti del possibile) le condotte culturalmente motivate che contrastino con i costumi dominanti (BASILE, Società).

Sul piano strettamente politico-criminale, l'adesione al modello multiculturalista porta a valorizzare la matrice etnica di appartenenza dell'individuo, attraverso l'introduzione di esimenti che, almeno rispetto ai reati bagatellari, elidano l'antigiuridicità di pratiche tradizionali contrastanti con i divieti penali. Viceversa, la scelta in favore del modello assimilazionista tende a escludere che la risposta penale possa diversamente modularsi in base all'appartenenza culturale del reo.

Detto altrimenti: la motivazione culturale che ha orientato la condotta potrà essere valutata in favore del reo, portando a escluderne la responsabilità penale o comunque mitigando la sanzione; oppure verrà considerata del tutto irrilevante o, laddove prevalga il timore di legittimare pratiche culturali disumane, persino elevata al rango di vera e propria circostanza aggravante.

L'esperienza delle legislazioni straniere più avanzate dimostra, ad ogni modo, come all'interno dello stesso sistema penale le due opzioni di fondo tendano per lo più a coesistere e sovrapporsi, delineando architetture legislative complesse e contraddittorie, che risentono dei mutamenti politici e, prima ancora, della crescente generale sensazione di insicurezza che i flussi immigratori provocano nella collettività.

Quanto al nostro ordinamento, non esistono norme di parte generale che riconoscano specifico rilievo al fattore culturale.

Questa lacuna, tuttavia, non deve stupire. Norme del genere, infatti, sono assenti anche nelle legislazioni di Paesi storicamente più interessati dal “multiculturalismo”, quali gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito.

Ciò porta a concludere che, almeno in linea di massima, siano le aule di giustizia i luoghi deputati alla risoluzione dei conflitti multiculturali ed è proprio in questo scenario che si collocano due recenti pronunce di legittimità che, nel decidere sulla rilevanza penale del fattore culturale, sono approdate a conclusioni opposte, rivelando un comprensibile disorientamento della giurisprudenza di fronte a fenomeni nuovi di straordinaria complessità.

Due recenti sentenze della Cassazione di segno opposto

Sentenza n. 24048 del 31 marzo 2017. In primo luogo, occorre considerare la sentenza, che tanto eco mediatica ha suscitato (si vedano MARZIALETTI; MELZI D'ERIL - G. E. VIGEVANI; SACCHETTONI), con cui la Cassazione ha confermato la condanna per il reato di porto d'armi ex art. 4, comma 2, della legge 110/1975 inflitta dal tribunale di Mantova a un indiano di religione Sikh che portava con sé il kirpan, il pugnale rituale simbolo di quel culto.

Fermato per strada dalla polizia locale perché teneva alla cintura un coltello rituale lungo quasi 20 cm e pertanto astrattamente idoneo all'offesa, l'imputato si era rifiutato di consegnarlo alle Forze dell'ordine, sostenendo che portare l'arma alla cintola gli fosse imposto dai precetti della sua religione.

Il giudice di primo grado lo aveva condannato, ritenendo che le usanze religiose fossero mere consuetudini, di cui è nota l'inattitudine a svolgere una funzione abrogatrice della norma penale. L'imputato aveva, a quel punto, proposto ricorso per Cassazione, invocando l'esercizio del diritto sancito dall'art. 19 Cost. di professare liberamente la propria fede religiosa.

Nel confermare la condanna, la Cassazione ha, però, sviluppato un iter motivazionale che – come si diceva – ha suscitato grande clamore mediatico.

La sentenza ha, in particolare, richiamato l'obbligo per l'immigrato «di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale», facendo ricorso ad una formula che appare tanto evocativa (anche alla luce del dibattito su contenuto e limiti dei valori occidentali, suscitato dallo scontro ormai continuo con le frange più estremiste del mondo islamico), quanto vaga e indefinita.

Secondo i giudici di legittimità, sarebbe intollerabile, all'interno di una pur necessaria società multietnica, la formazione di «arcipelaghi culturali configgenti», ai quali si contrapporrebbe «l'unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese», che annovera tra i beni giuridici da tutelare anche quello della sicurezza pubblica, minacciata dal kirpan dell'imputato.

La sentenza ha suscitato forti reazioni polemiche proprio per la discutibile impostazione assiologica della decisione, ascrivibile più a valutazioni di ordine etico che strettamente giuridiche (NICO). Per di più, ha destato perplessità il generico richiamo ai valori occidentali per giustificare una scelta lato sensu politica, che ha portato a privilegiare la sicurezza e l'ordine pubblico a scapito di quel pluralismo culturale e religioso, che costituisce senza dubbio un valore tipicamente “occidentale”, come del resto è riconosciuto sia a livello nazionale (la Costituzione, al riguardo, è chiarissima. Si veda Corte cost. 203/1989) sia sul piano internazionale (Cedu, Handyside, 7 dicembre 1975, par. 49).

Quel che preme rilevare è che se quest'opzione ricostruttiva fosse accreditata anche da altri arresti giurisprudenziali, fino a consolidarsi in maniera inequivoca, nei giudici italiani potrebbe finire col prevalere un atteggiamento di tipo assimilazionista, cioè di sostanziale indifferenza nei confronti del fattore culturale, che appare in controtendenza rispetto all'evoluzione in senso multiculturale vissuta dalla società italiana negli ultimi due decenni.

È, infatti, del tutto evidente come ipotizzare l'esistenza di un obbligo di conformarsi ai valori occidentali (al fine di impedire l'emersione di isole culturali diverse) equivalga a soffocare sul nascere qualsiasi riflessione sul ruolo da assegnare (in sede penale) al fattore etnico-culturale, ridotto a mero ostacolo alla «unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese».

L'elemento culturale sarebbe, insomma, espulso dalle aule di giustizia, con buona pace dell'intenso dibattito penalistico cui si faceva cenno poc'anzi (NEGRI).

Sentenza 22708 del 17 marzo 2017. Va detto, però, che appena pochi giorni prima la Cassazione aveva diversamente valutato il fattore culturale sotteso alla condotta degli imputati, riconoscendo la legittimità della decisione di merito che aveva accordato le attenuanti generiche ad alcuni cittadini Rom colpevoli di omicidio, valorizzandone la "subcultura" quale elemento fondamentale per valutarne la personalità.

La Corte d'assise d'appello di Catanzaro aveva ritenuto sussistenti gli estremi dell'omicidio volontario aggravato dai futili motivi nella condotta degli imputati, che avevano dato ordine di uccidere chi ne aveva aiutato la figlia a lasciare la Calabria con il fidanzato.

La Cassazione aveva annullato la sentenza rilevando la necessità di una diversa qualificazione dell'elemento soggettivo e, adeguandosi alle indicazioni ricevute, il giudice del rinvio aveva ritenuto sussistente il dolo eventuale, rideterminato al pena e riconosciuto le attenuanti generiche.

Nel respingere il ricorso del procuratore generale contro il riconoscimento delle attenuanti, la Cassazione aveva, tra le altre cose, sottolineato come la personalità degli imputati fosse stata correttamente valutata dal giudice di merito in considerazione di una subcultura condivisa, improntata ad un «insano senso di tutela dell'ordine familiare».

Come si vede, in tale circostanza la Cassazione aveva debitamente tenuto conto delle motivazioni culturali sottese al reato, ritenendo che la risposta penale dell'ordinamento non dovesse ignorare gli “insani” codici “subculturali” che, imponendo la vendetta, avevano alimentato i propositi omicidi degli imputati.

Una soluzione, questa, che appare diametralmente opposta a quella del kirpan e che rivela un'apprezzabile volontà di comprendere realtà culturalmente lontane non per legittimare comportamenti contrari alla legge ma allo scopo di calibrare la reazione dell'ordinamento attraverso un'interpretazione culturalmente sensibile degli istituti che appaiono permeabili al fattore culturale e dunque idonei a consentire un'adeguata valutazione del conflitto normativo sotteso al reato culturalmente motivato.

Nel caso di specie, si è ricostruito il movente culturale che era all'origine della condotta, individuando quei fondamentali elementi di prova teorizzati dalla migliore dottrina, e cioè:

  1. la riconducibilità della causa psichica soggettiva della condotta al bagaglio culturale di cui il reo è portatore;
  2. la coincidenza di reazione, ovvero la convergenza tra la motivazione individuale e la regola culturale osservata dal gruppo etnico di appartenenza;
  3. il divario tra culture, ovvero la differenza tra la cultura del gruppo etnico dell'imputato, cristallizzata nella norma culturale che ha motivato la condotta (“la vendetta familiare”), e la cultura maggioritaria della società di accoglienza (DE MAGLIE, 146).

I tre elementi testé ricordati forniscono, allo stesso tempo, una definizione quanto mai calzante del reato culturalmente orientato: un comportamento che costituisce reato per l'ordinamento giuridico ma che, viceversa, è conforme ad una norma culturale del gruppo etnico di appartenenza (BASILE, Società).

In questa categoria molto ampia rientrano casi del tutto eterogenei, che sono in linea di massima riconducibili alle seguenti sotto-categorie di reati (BASILE, Immigrazione, 146-158):

  • violenze in famiglia;
  • reati a difesa dell'onore (categoria in cui rientra a pieno titolo il citato caso della vendetta posta in essere dai membri di una famiglia di etnia Rom);
  • reati di riduzione in schiavitù a danno di minori;
  • reati contro la libertà sessuale;
  • mutilazioni genitali femminili e circoncisioni maschili imposte dalle regole religiose, sociali o tribali del gruppo culturale d'origine;
  • reati in materia di sostanze stupefacenti;
  • fatti consistenti nel rifiuto di mandare i figli a scuola;
  • reati concernenti l'abbigliamento rituale (tra cui il caso del porto del kirpan prima descritto).

Poiché l'interazione tra reati di questo genere e fattore culturale è sempre più forte, sarebbe opportuno che i giudici fossero dotati di strumenti per valutare se e in che misura accordare rilievo alla cultural defense (BASILE, Immigrazione,165-250; PARISI, 103-120; CROCCO, DI BLASIO).

In quest'ottica, potrebbero forse fornire un contributo i test culturali elaborati dalle Corti e dalla dottrina nordamericane, che assolvono alla specifica funzione di procedimentalizzare l'iter argomentativo del giudice in una serie di passaggi logici che gli consentano, a fronte di conflitti multiculturali, di poter esprimersi con un maggiore grado di certezza, organizzandone e indirizzandone il ragionamento verso decisioni meno aleatorie (RUGGIU).

Il primo test culturale, denominato Integral to a Distinctive Culture Test, è stato elaborato non a caso dalla Corte Suprema canadese (R v Van der Peet, [1996] 2 S.C.R. 507), cioè in un Paese che considera tanto fondamentale il multiculturalismo da averlo voluto formalizzare a livello costituzionale (Canadian Charter of Rights and Freedoms, art. 27).

Il test, ideato per definire i diritti riconosciuti dalla stessa Costituzione ai nativi (Canadian Charter of Rights and Freedoms, art. 35), si colloca in un contesto peculiare (imparagonabile a quello italiano, dove il pluralismo culturale non è frutto dell'assorbimento di minoranze autoctone ma di recenti ondate migratorie) che, tuttavia, merita ugualmente di essere citato quale primo esempio della volontà di stabilire una procedura costante di trattamento dei conflitti multiculturali.

A questo primo esperimento hanno fatto seguito approfonditi studi giuridici nordamericani (RENTELN; EISENBERG), da cui la dottrina italiana ha preso spunto per elaborare recentemente un suo autonomo test culturale.

Incorporando alcuni concetti antropologici nel processo penale, il test aspira a rendere certa la sequenza di passaggi logico-argomentativi che ogni giudice dovrebbe seguire prima di pronunciarsi su un reato culturalmente motivato (RUGGIU).

Di seguito i suoi tredici punti:

  1. La categoria “cultura” è utilizzabile?
  2. Descrivere la pratica culturale e le caratteristiche del gruppo.
  3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale da cui proviene.
  4. La pratica è essenziale alla sopravvivenza del gruppo, obbligatoria o facoltativa?
  5. Quanto la pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
  6. Come si comporterebbe l'agente modello di quella cultura?
  7. Quanto è sincero e coerente il soggetto che rivendica la pratica?
  8. Il gruppo è discriminato dalla società?
  9. Esiste un'equivalente culturale nella cultura della maggioranza?
  10. La pratica arreca un danno?
  11. La pratica perpetua il patriarcato?
  12. Che impatto ha l'altrui pratica sulla cultura ospite?
  13. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica?

Come si vede, il test si divide nettamente in due parti: la prima, costituita da sei passaggi, non può prescindere dalla consulenza di un antropologo.

Difficilmente, infatti, un giudice sarebbe in grado di collocare una pratica culturale nel più ampio contesto da cui deriva, oppure di stabilire il suo grado di vincolatività all'interno del gruppo d'origine. Un tribunale potrebbe trovarsi in difficoltà nel comprendere i cambiamenti e le evoluzioni delle culture di minoranza e, pertanto, potrebbe non riuscire a cogliere eventuali diversità di vedute maturate all'interno del gruppo etnico sulla legittimità stessa della pratica che l'ordinamento, viceversa, giudica reato.

Se è vero, poi, che tali questioni appaiono di più agevole soluzione allorché si tratti di comportamenti o pratiche rituali di gruppi storicamente presenti sul nostro territorio (si pensi al caso della circoncisione praticata dalla minoranza ebraica), la prospettiva cambia radicalmente quando le culture di riferimento siano tanto lontane da apparire ai nostri occhi (e a quelli del giudice) totalmente incomprensibili.

Il ricorso al supporto antropologico nelle aule di giustizia italiane è, però, ancora piuttosto raro: al di là di un certo resistente pregiudizio in favore delle scienze naturali a discapito di quelle sociali (RUGGIU), il nostro codice di rito non ammette perizie per stabilire il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220, comma 2, c.p.p.). Questo divieto parrebbe giustificare la scelta di non avvalersi di antropologi, benché la dottrina abbia ormai chiarito come la perizia antropologica non abbia ad oggetto le qualità personali o psichiche dell'individuo, bensì l'esistenza di un gruppo contraddistinto da una specifica cultura: non si tratterebbe, quindi, di un giudizio sulla personalità dell'imputato e sulle sue tendenze, ma solo sull'eventuale valenza culturale del fatto da lui commesso (DE MAGLIE, 157).

La seconda parte del test, formata dalle ultime sette domande, assolverebbe invece la funzione di ricondurre il percorso del giudice all'interno di una sfera più strettamente giuridica, indirizzandone il ragionamento lungo direttrici prescrittive e non meramente descrittive, quali sono quelle dell'antropologia. Ciò, com'è facile intuire, proprio allo scopo di evitare l'adesione ad uno schema ricostruttivo di marca totalmente relativista, che è indispensabile per l'antropologo ma esiziale per il giudice, chiamato piuttosto «a delineare i nuovi valori della convivenza in un contesto multiculturale» (RUGGIU, 230).

In conclusione

In attesa che le corti nazionali valutino se prendere o meno in considerazione un test tanto complesso quanto affascinante (chi lo ha elaborato suggerisce che esso non debba essere introdotto per legge ma reso operativo tramite linee guida fornite ai giudici dalla Corte di cassazione o dal C.S.M. o incorporato sistematicamente dalla Suprema Corte nei suoi giudizi così da imporlo come indirizzo giurisprudenziale consolidato; v. RUGGIU, 232), va comunque riconosciuta ad una parte della giurisprudenza italiana la capacità di non essersi tirata indietro di fronte al problema dei reati culturalmente orientati, affrontandone le implicazioni sociali e giuridiche valorizzando, soprattutto, il livello di offensività del fatto, la natura e la vincolatività della norma culturale seguita e la biografia dell'imputato: variabili, queste, che sono state, ad esempio, opportunamente apprezzate in due sentenze che hanno assolto gli imputati rispettivamente dall'accusa di mutilazioni genitali femminili (Corte appello, Venezia, 23 novembre 2012, n. 1485, nota di BASILE) e di concorso in esercizio abusivo della professione (Cass. pen, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 43646, nota di PUSATERI).

Proprio questi tre elementi potrebbero, a ben vedere, costituire l'embrione di un test futuro, tracciando il solco della giurisprudenza a venire su un tema tanto complesso quanto stimolante.

Guida all'approfondimento

BASILE,Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista online, ottobre 2007;
BASILE, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell'art. 583 bis c.p., in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista online, 1 luglio 2013, nota a Corte d'appello Venezia, 23 novembre 2012 (dep. 21 febbraio 2013), n. 1485;

CROCCO, Sistema penale e dinamiche interculturali: le implicazioni del movente culturale nella commissione del reato e rilevanza delle cultural defences, in Giurisprudenza Penale, rivista online, 25 aprile 2015;

DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010;

DI BLASIO, La rilevanza della scriminante culturale nel sistema penale italiano, in Giurisprudenza Penale, rivista online, 18 aprile 2016;

EISENBERG, Reasons of identity. A normative guide to the political and legal assessment of identity claims, Oxford University Press, Oxford, 2009;

MARZIALETTI, Cassazione: i migranti devono rispettare i nostri valori, Sole 24 Ore, 16 maggio 2017;
MELZI D'ERIL, VIGEVANI Se un pugnale compromette i valori occidentali, Sole 24 Ore, 19 maggio 2017;
NEGRI, Sikh condannato per porto del kirpan: una discutibile sentenza della Cassazione su immigrazione e “valori del mondo occidentale”, in Diritto Penale Contemporaneo;
NICO, Ordine pubblico e libertà di religione in una società multiculturale (Osservazioni a margine di una recente sentenza della Cassazione sul kirpan), in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2017, 14 giugno 2017, p. 4;
PARISI, Cultura dell'”altro” e diritto penale, Torino, 2010;

PUSATERI, La circoncisione maschile non integra – se eseguita per motivi culturali che determinano l'ignoranza inevitabile della legge penale – il reato di esercizio abusivo della professione, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista online, 22 marzo 2012, nota a Cass. pen, Sez. VI, 22 giugno 2011 (dep. 24 novembre 2011), Pres. Agrò, Est. Milo, n. 43646;

RENTELN, The cultural defense, Oxford University Press, Oxford, 2004;

RUGGIU, Il giudice antropologo e il test culturale, in Questione Giustizia, rivista online, n. 1, 2017;

SACCHETTONI, Cassazione: i migranti devono conformarsi a nostri valori, Corriere della Sera, 16 maggio 2017.

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