Mancata citazione dei testimoni ammessi, quali conseguenze?

01 Agosto 2016

Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, l'omessa citazione dei testimoni già ammessi non determina la decadenza dalla prova ma il giudice può revocarne l'ammissione se si rivelasse superflua. Un diverso orientamento sostiene che la parte che non cita i testimoni decade dalla prova, perché il termine per la citazione ha natura perentoria.
Abstract

Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, l'omessa citazione dei testimoni già ammessi non determina la decadenza dalla prova ma il giudice può revocarne l'ammissione se si rivelasse superflua. Un diverso orientamento sostiene che la parte che non cita i testimoni decade dalla prova, perché il termine per la citazione ha natura perentoria, essendo inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi per garantire la ragionevole durata del processo.

L'omessa citazione dei testimoni ammessi: l'indirizzo giurisprudenziale prevalente

Con una recente decisione (Cass. pen., Sez. II, n. 13694/2016), la Corte di cassazione ha ribadito che, in tema di prova testimoniale, la mancata citazione del teste per l'udienza fissata per la loro escussione non comporta la decadenza della parte richiedente dalla prova. Nella vicenda oggetto del giudizio, il pubblico ministero, per due udienze, non aveva provveduto alla citazione dei testimoni ammessi. Il giudicante aveva assolto gli imputati dai reati loro ascritti ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p., non essendo stata raggiunta la prova della sussistenza del fatto o della colpevolezza di costoro. La suprema Corte, aderendo all'orientamento che appare prevalente in giurisprudenza, ha escluso che all'omessa citazione del teste consegua la sanzione della decadenza dal diritto alla prova, non essendo prevista da alcuna norma processuale. L'art. 173 c.p.p., infatti, stabilisce che i termini si considerano a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge (Cass. pen., Sez. III, n. 44448/2015).

Quest'indirizzo, invero, riconosce che l'onere di citare i testimoni incombe sulla parte e che il suo mancato adempimento non può essere privo di conseguenze, perché, altrimenti, si farebbe dipendere la celebrazione del processo da un impegno rimesso esclusivamente alla parte. A quest'ultima si attribuirebbe la facoltà di determinare i tempi del processo che, invece, devono essere regolati dal giudice (Cass. pen., Sez. III, n. 32343/2007), generando ritardi nella decisione.

Per questa ragione è prospettato il ricorso a due rimedi.

In primo luogo, sebbene non determini decadenza, l'inerzia della parte può essere valutata dal giudice come comportamento significativo della volontà di rinunciare alla prova già ammessa (Cass. pen., Sez. II, n. 13694/2016; Cass. pen., Sez. III n. 2103/2008). L'esame dei testi, infatti, è un mezzo di prova rimesso alla disponibilità della parte. Quest'ultima, provvedendo alla citazione, manifesta il suo interesse all'effettiva assunzione della prova che è stata ammessa dal giudice. In caso contrario, invece, emerge un comportamento concludente di rinuncia alla testimonianza, che rende superfluo anche un provvedimento formale di revoca (Cass. pen., Sez. III, n. 44448/2015).

In secondo luogo, il giudice può ritenere la prova superflua, nel caso in cui tenda a dimostrare circostanze già palesemente accertate, provvedendo motivatamente a revocarla (Cass. pen., Sez. III, n. 45450/2008).

L'indirizzo difforme: la sanzione della decadenza

Un diverso orientamento giurisprudenziale, in senso diametralmente opposto rispetto al precedente, sostiene che la mancata citazione dei testimoni, già ammessi dal giudice, comporta la decadenza della parte dalla prova (Cass. pen., Sez. VI, n. 2324/2015).

Nel caso di specie, il giudice aveva fissato un calendario di udienze dedicate all'esame dei testi indicati, rispettivamente, dall'accusa e dalla difesa. Quest'ultima non aveva provveduto alla citazione dei testimoni da essa indicati per l'udienza determinata. Il collegio, ritenendo che la parte fosse incorsa in una decadenza, aveva revocato l'ammissione dei testi non citati, senza che nulla fosse stato eccepito nell'immediatezza di tale provvedimento. La suprema Corte ha ritenuto corretto l'operato del collegio giudicante, ancorando la legittimità del provvedimento adottato all'esercizio del potere organizzativo della gestione delle udienze.Siffatto potere, quando la complessità del processo rende già dal suo inizio prevedibile l'impossibilità di concluderne la trattazione in giornata, trova specifica fonte normativa negli artt. 468, comma 2, 495 e 496 c.p.p. ed è del tutto coerente con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e con le caratteristiche strutturali essenziali del processo di merito di primo grado (oralità ed immediatezza dell'assunzione delle prove), che sarebbero del tutto vanificate se la concreta gestione di tale assunzione venisse lasciata al sostanziale ed insindacabile arbitrio delle parti del processo.

Attribuire conseguenze specifiche, e sistematicamente coerenti, all'omessa citazione per un'udienza tempestivamente indicata e concordata dei testi introdotti dalla parte, inoltre, non si porrebbe in alcun modo essere in contrasto con esigenze di tutela di prerogative individuali riconducibili ai principi del processo giusto (art. 111 Cost.) o equo (art. 6 Cedu).

Per poter apprezzare la portata di questo indirizzo, peraltro, appare necessario precisare che, nel caso concreto, la Corte ha rilevato anche che il collegio giudicante aveva motivato pure sulle ragioni della superfluità dei temi probatori cui afferivano i testi non citati, sicché ne ha ritenuto legittima la revoca anche sotto questo diverso profilo.

In ogni caso, per sostenere la decadenza dal diritto di assumere la testimonianza è stato aggiunto che il termine stabilito dal giudice del dibattimento per la citazione dei testimoni (nonché di periti e consulenti tecnici e dei soggetti indicati dall'art. 210 c.p.p.) è inserito in una sequenza procedimentale chiara ed univoca, che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti (se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o forza maggiore, secondo la previsione dell'art. 175 c.p.p.). Esso, pertanto, ha natura perentoria, sebbene non sia esplicitamente prevista la sanzione della decadenza per la sua inosservanza (Cass. pen., Sez. II, n. 14439/2013). Vi sarebbero, infatti, anche nel codice di rito vigente ipotesi di decadenza che consegue al mancato rispetto di un termine perentorio “implicito” stabilito da una norma per il compimento di una determinata attività. All'obiezione secondo cui opinando in tal senso si lederebbe il diritto di difesa, si replica affermando che tale diritto è salvaguardato dalla previsione dell'art. 507 c.p.p. che, a tutela della regola secondo cui il processo penale deve tendere all'accertamento della verità, consente al giudice di assumere d'ufficio le prove che risultino assolutamente necessarie.

E' stato precisato, peraltro, che l'omessa citazione dei testimoni ad opera della parte che ha richiesto la loro ammissione comporta la decadenza dalla relativa prova soltanto se sia stata indicata la data dell'udienza per l'esame dei testi. Qualora il giudice non abbia fissato detta data, deve necessariamente rinviare il dibattimento per consentire la citazione, salvo che revochi l'ammissione dei testimoni reputandoli superflui (Cass. pen., Sez. VI, n. 24254/2009). Il rigetto dell'istanza di rinvio del dibattimento per l'escussione dei testimoni, non citati e non presenti, al contrario, è legittimo, essendo onere della difesa, dopo aver ottenuto l'autorizzazione del giudice, provvedere alla loro citazione (Cass. pen., Sez. III, n. 28136/2012).

Una tesi “mediana”

È emersa, peraltro, anche una tesi intermedia che mira a garantire i tempi del processo, senza affrontare il nodo interpretativo sulla configurabilità della sanzione della decadenza. Secondo questa prospettiva, l'inadempimento dell'onere di citare i testi, pur non equivalendo a rinuncia alla prova e pur non dando luogo all'inammissibilità della prova stessa, prevista solo per l'omessa presentazione della lista testi, impedisce alla parte di chiedere il rinvio del dibattimento per l'escussione dei propri testi, non presenti, né citati. La parte negligente riacquisterà il diritto di fare escutere i propri testimoni solo nell'eventualità che l'istruzione probatoria venga rinviata dal giudice ad altra udienza (Cass. pen., Sez. III, n. 32343/2007).

In questo modo, pur senza invocare la decadenza, si perviene al medesimo risultato di paralizzare manovre dilatorie di una delle parti del processo.

Un eco di questa prospettiva si ravvisa nell'indirizzo che precisa che una nuova autorizzazione alla citazione per un'udienza successiva è legittima solo se non comporta il ritardo della decisione (Cass. pen., Sez. II, n. 13694/2016; Cass. pen., Sez. V, n. 29562/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 13507/2010).

La rinuncia al teste ammesso

È noto che, ai sensi dell'art. 495, comma 4-bis, c.p.p., nel corso dell'istruzione dibattimentale ciascuna parte può rinunciare all'assunzione delle prove ammesse ma con il consenso dell'altra parte. Una volta introdotto un teste nella dinamica dibattimentale per mezzo della sua inclusione nella lista testi depositata tempestivamente ed approvata dal presidente del tribunale nelle forme di rito, infatti, la sua esclusione non è più rimessa esclusivamente alla volontà della parte che lo ha richiesto. La rinuncia, pertanto, fa salvo il diritto dell'altra parte di procedere all'esame. L'opposizione della controparte rende la rinuncia inefficace, con la conseguenza che l'onere di provvedere alla citazione permane a carico di chi aveva originariamente richiesto l'ammissione del testimone (Cass. pen, Sez. VI, n. 26541/2015).

In ogni caso, sembra necessaria un'espressa ed inequivoca dichiarazione di rinuncia, dal momento che l'atto abdicativo è subordinato nella sua efficacia all'assenso delle controparti.

La giurisprudenza, invece, sostiene che la rinuncia alla prova possa essere anche implicita. Si ritiene che abbiano tale valenza taluni comportamenti concludenti del difensore, tra i quali, come si è visto, proprio l'omessa citazione del teste. Ad esempio, è stato affermato che non determina alcuna nullità del procedimento la mancata decisione del giudice sulla richiesta di ammissione alla prova contraria: è reputato equivalente ad una rinuncia implicita alla prova, infatti, il comportamento del difensore che, dopo aver chiesto l'ammissione di un teste a controprova su circostanze processualmente rilevanti, a fronte della mancata decisione del giudice – che si era riservato di provvedere all'esito del dibattimento – aveva omesso di reiterare la richiesta prima che questi si ritirasse in camera di consiglio per decidere (Cass. pen., Sez. III, n. 46325/2011).

La rinuncia a un teste già ammesso, comunque, è fattispecie diversa dalla mancata richiesta di ammissione di un teste, in precedenza indicato in lista. Il dissenso di una delle parti, in questo secondo caso, non è idoneo a paralizzare la decisione dell'altra che è libera di chiedere le prove testimoniali ritenute rilevanti, non essendo vincolata a quelle indicate nella lista depositata ex art. 468 c.p.p. (o art. 555, comma 1, c.p.p. nel caso di rito monocratico). Ne deriva che, se una parte intende ascoltare determinati testimoni, deve indicarli nella lista, essendo altrimenti esposta alla decisione dell'altra parte che, pur avendoli indicati, potrebbe non chiederne l'ammissione. In questi casi, tuttavia, un meccanismo di recupero potrebbe essere rappresentato dalla richiesta della testimonianza a prova contraria, ai sensi dell'art. 468, comma 4,c.p.p. (oltre che dalla richiesta al giudice di esercizio di poteri integrativi di cui all'art. 507 c.p.p.).

Occorre, dunque, distinguere le situazioni che si possono verificare:

  1. teste indicato in lista da una parte, che poi non ne chiede l'ammissione al momento della richiesta di prove (art. 493 c.p.p.);
  2. teste compreso nella lista, ma la cui deposizione non è stata ammessa dal giudice, nonostante la richiesta della parte;
  3. teste ammesso ma non esaminato a causa della successiva ordinanza di revoca del giudice (art. 495, comma 4, c.p.p.).

Nel caso specifico della testimonianza indiretta, inoltre, l'indirizzo giurisprudenziale consolidato reputa utilizzabili le dichiarazioni “

de relato, anche al di fuori dei casi specifici di cui all'art. 195, comma 3, c.p.p., se le parti rinunciano al potere di richiedere l'audizione del testimone di riferimento (Cass. pen., Sez. I, n. 35016/2009; Cass. pen., Sez. III, n. 2001/2007

La revoca del teste ammesso

Il potere di revoca della prova ammessa, previsto dall'art. 495, comma 4, c.p.p., va esercitato sulla base delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale. Esso, di conseguenza, è più ampio di quello che è attribuito al giudice all'inizio del dibattimento, all'atto dell'ammissione delle prove. In quest'ultimo momento, infatti, il giudicante presenta una “verginità conoscitiva” rispetto all'oggetto della decisione, sicché egli deve evitare di ammettere le sole prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti. Nel corso dell'istruttoria, invece, è in grado di svolgere un esame più pregnante sulla rilevanza della prova, escludendo quella superflua.

Il provvedimento di revoca deve essere motivato, nel senso che deve essere compiuto un raffronto tra il materiale probatorio raccolto e valutato e quello che intendeva ottenere con la prova che si è revocata.

L'esercizio del potere di revoca presuppone il contraddittorio tra le parti, che devono essere chiamate ad interloquire. Non è reputato necessario, a tale scopo, un interpello formale, ma occorre sentire le parti sull'andamento e sullo sviluppo della fase dibattimentale in corso. Qualora le parti siano invitate a rassegnare le proprie conclusioni ed esse non esprimano alcuna riserva sulla completezza dell'istruttoria, per esempio, di fatto hanno manifestato la propria opinione sullo sviluppo del dibattimento, reputandolo implicitamente completo.

La revoca del teste precedentemente ammesso in assenza di contraddittorio determina una nullità a regime intermedio, da dedursi nel termine di cui all'art. 182, comma 2, c.p.p. La medesima nullità si produce nel caso in cui la revoca consegua alla mancata citazione a cura della parte per l'udienza dibattimentale fissata. Dalla natura della nullità deriva che, qualora essa si verifichi in presenza della parte che aveva interesse a dedurla, il silenzio di quest'ultima equivale a rinuncia, con conseguente sanatoria ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), c.p.p. (Cass. pen., Sez. n. 24302/2010).

In conclusione

Sulle conseguenze della mancata citazione del teste ammesso per l'udienza fissata, dunque, si registra un certo contrasto in giurisprudenza. Sebbene appaia prevalente la tesi che esclude che possa invocarsi la sanzione della decadenza, si ravvisa anche l'indirizzo opposto, che appare ispirato dalla necessità di garantire la ragionevole durata del processo. L'orientamento rigoroso, però, per applicazione la sanzione della decadenza, qualifica come perentorio il termine per la citazione del teste, sebbene tale natura non sia prevista esplicitamente dalla norma. Si fa riferimento, allora, ad un termine implicitamente perentorio, mentre l'art. 173, comma 1, c.p.p. dispone che i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza solo nei casi previsti dalla legge.

Il contrasto giurisprudenziale, tuttavia, a ben vedere, è più apparente che reale.

Le decisioni che reputano legittima la sanzione della decadenza concludono per la revoca della prova, contenendo anche un riferimento alla sua superfluità. Si tratta, invero, di una motivazione aggiuntiva, la quale peraltro sarebbe pienamente sufficiente a giustificare la revoca dell'ordinanza ammissiva della testimonianza. Quest'ultimo provvedimento è proprio lo strumento che l'orientamento contrario alla decadenza ritiene di impiegare per contrastare l'inerzia della parte. Il giudice, infatti, se la parte non cita il teste ammesso, può revocare la prova “superflua”.

Sembra allora potersi concludere che, in entrambi i casi, una volta ammessa una prova pertinente e rilevante, non possa essere revocata e debba essere comunque acquisita anche nel caso di comportamento inerte della parte, che non procede alla sua citazione.

Suscita perplessità, infine, l'indirizzo che considera l'inerzia della parte come comportamento significativo della volontà di rinunciare alla prova già ammessa. Sulla rinuncia, infatti, occorre acquisire anche il consenso della controparte.

Anche in questo caso, però, i dubbi si superano facilmente, se si considera che la parte deve eccepire immediatamente la nullità a regime intermedio che si determina per l'omissione del contraddittorio, sicché in caso di mancata tempestiva eccezione, cioè se non si contesta la decisione del giudicante di ritenere come rinunciato il mezzo di prova, il vizio si deve ritenere sanato.

Guida all'approfondimento

CHIAVARIO, Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale, in Cass. pen. 1996, 2009;

DE CARO, Ammissione e formazione della prova nel dibattimento, in Gaito (diretto da), La prova penale, II, Le dinamiche probatorie e gli strumenti per l'accertamento giudiziale, Torino, 2008;

ILLUMINATI, Ammissione ed acquisizione della prova nell'istruzione dibattimentale, in Ferrua - Grifantini - Illuminati - Orlandi, La prova nel dibattimento penale, Torino 2005;

POTETTI, Brevi note in tema di rinuncia alla prova, in Cass. pen., 1995, 3577;

SANTALUCIA, Gli atti preliminari al dibattimento, in Spangher - Marandola - Garuti - Kalb (diretto da), Procedura penale, Teoria e pratica del processo, Vol. II, Milano, 2015, 1070; SILVESTRI, L'ammissione delle prove, in Aprile - Silvestri, Il giudizio dibattimentale, Milano, 2006;

TONINI, La prova penale, Padova, 2000.

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