Consenso dell’avente dirittoFonte: Cod. Pen Articolo 50
17 Gennaio 2018
Inquadramento
Il consenso dell'avente diritto costituisce, ai sensi dell'art. 50 c.p., causa di giustificazione (o scriminante, o esimente), il cui fondamento viene generalmente individuato nella rinunzia alla tutela del bene da parte del suo titolare in favore di un terzo, che fa venir meno l'interesse alla repressione dei comportamenti lesivi del predetto bene posti in essere dal terzo stesso. Natura giuridica
La dottrina in atto dominante ritiene che il consenso scriminante abbia natura giuridica di mero atto giuridico in senso stretto. Legittimazione
Per avere efficacia scriminante, il consenso deve, sotto il profilo soggettivo, essere prestato, ad un tempo:
Oggetto
Per avere efficacia scriminante, il consenso deve anche, sotto il profilo oggettivo:
Sono generalmente considerati disponibili:
Sono sempre indisponibili i diritti appartenenti alla collettività (ad es., il diritto all'ambiente salubre) ed i diritti individuali tutelati in quanto di interesse pubblico (ad es., il diritto alla salute). Rientrano tra i diritti indisponibili anche gli interessi dello Stato-amministrazione, considerati dalle norme a tutela della P.A., dell'amministrazione della giustizia e della fede pubblica, e gli interessi della collettività dei consociati, considerati dalle norme a tutela del sentimento religioso, dell'ordine pubblico, dell'incolumità pubblica, del buon costume, dell'economia pubblica, della famiglia.
La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il divieto posto dall'art. 5 c.c. operi anche ai fini penali (per tutte, Cass. pen., Sez. V, n. 5544/1992, per la quale, ai fini della configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale, il consenso prestato ad una iniezione di eroina che abbia provocato effetti letali, si pone indubbiamente contro il buon costume e comunque contro la legge, posto che le iniezioni per endovena sono praticabili solo da personale sanitario qualificato, ed è quindi un consenso non valido e non atto a scriminare il reato). Il consenso dell'avente diritto può avere efficacia scriminante anche rispetto alle percosse e alle lesioni se viene prestato volontariamente nella piena consapevolezza delle conseguenze lesive all'integrità personale, sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che, incidendo negativamente sul valore sociale della persona umana, elide la rilevanza del consenso prestato (Cass. pen., Sez. I, n. 9326/1998: fattispecie concernente pratiche erotiche sadomasochistiche).
Disciplina
Il consenso, per avere efficacia scriminante, deve essere manifestato prima della commissione del reato (Cass. pen., Sez. II, n. 6287/1973), ovvero, al più tardi, nel momento del fatto lesivo, non ex post: la ratifica successiva dell'operato dell'agente sarebbe, pertanto, improduttiva di effetti scriminanti. Con riguardo ad attività tendenzialmente destinate a protrarsi per un lasso di tempo apprezzabile, il consenso dell'avente diritto ha efficacia scriminante soltanto se permanente. Il consenso è sempre revocabile da parte del soggetto legittimato prima della commissione della condotta consentita (Cass. civ., Sez. I, n. 2077/1977), sempre che la situazione di fatto determinatasi a seguito dell'originario consenso lo permetta: ad es., nel corso dell'intervento di chirurgia estetica (non necessario, e perciò praticabile soltanto previo consenso dell'interessato, perché altrimenti lesivo dell'altrui integrità fisica), il consenso non potrebbe esser revocato. Nel caso in cui l'agente non si sia reso conto dell'intervenuta revoca del consenso, potrà, ricorrendone le condizioni, invocare la disciplina dettata dall'art. 59 c.p. Ai fini della prestazione del consenso scriminante (così come della sua revoca) non è imposta alcuna forma predeterminata, ma naturalmente può acquistare efficacia la sola manifestazione di volontà che sia stata esternata, anche attraverso un comportamento tacito, ed abbia rivelato in maniera precisa ed inequivocabile il proprio proposito, risultando percepibile dai terzi (c.d. consenso tacito); diversamente, a nulla varrebbe la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se richiesto (c.d. consenso presunto), poiché, ai fini della applicabilità dell'art. 50, è necessario il requisito della effettività (Cass. pen., Sez. VI, n. 3125/1982).
Il consenso alle lesioni riportate durante una competizione sportiva
Nel caso di lesioni provocate senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo: il responsabile dell'evento lesivo che abbia rispettato le regole del gioco, il dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e l'integrità fisica di costui, non è, pertanto, penalmente perseguibile, per difetto di tipicità della condotta, a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (si pensi al calciatore che, senza alcuna necessità, abbia sferrato un calcio fortissimo al pallone colpendo intenzionalmente un avversario che si trovi in posizione di pericolo). Con riferimento alle lesioni provocate per effetto di condotte volontarie, poste in essere in violazione delle regole del gioco ma per finalità miranti al conseguimento del risultato sportivo, si ritiene che il fatto-reato (questa volta corrispondente a quello tipico) sia scriminato dall'esercizio dell'attività sportiva. Detta scriminante (formalmente non prevista dall'ordinamento) è talora desunta dalla combinazione tra l'affermazione del diritto ex art. 51 c.p. dell'agente ad esercitare l'attività sportiva (considerata socialmente utile, e come tale autorizzata), e del consenso dell'avversario ex art. 50 (che può ritenersi espresso per il solo fatto della sua partecipazione all'attività, e sempre con il limite del rispetto delle regole del gioco). La giustificazione di questa impostazione fonda sul principio del c.d. rischio consentito: «chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti - sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari. Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperta dall'esimente, ciò a cui il giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono analoghi problemi nel caso di colpi "proibiti")» (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010). Si precisa che l'area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente il cui comportamento può essere - pur nel travalicamento di quelle regole - la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco (Cass. pen., Sez. IV, n. 9559/2016: fattispecie nella quale la S.C., escludendo la configurabilità di un'aggressione fisica per ragioni avulse dalla dinamica sportiva, ha ritenuto applicabile la scriminante del rischio consentito nella condotta del giocatore che, in un incontro di calcio di particolare rilevanza agonistica, durante un'azione volta a interrompere il contropiede della squadra avversaria, aveva colpito uno degli avversari con un calcio, causandogli una frattura, pur intendendo intervenire sulla palla). Per quanto riguarda le lesioni provocate con condotte contrarie o estranee alle finalità del gioco, si ritiene che la cosciente violazione della regola sportiva di comportamento finalizzata al conseguimento del risultato sportivo non va però confusa con la condotta violenta coscientemente diretta a colpire l'avversario ma non finalizzata al conseguimento del predetto risultato: «se la violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo; non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto). Insomma è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario» (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010, per la quale, inoltre, è estranea alla copertura del rischio consentito « la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata - per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto - o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario - per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa -. In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza)». Ad esempio, è stata esclusa la configurabilità dei presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito nell'ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l'avversario: la condotta lesiva è, infatti, penalmente irrilevante soltanto quando sia finalisticamente inserita nel contesto dell'attività sportiva, mentre ricorre l'ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l'occasione dell'azione violenta mirata alla persona dell'antagonista (Cass. pen., Sez. V, n. 33275/2017). L'operatività del consenso scriminante presuppone che il rischio di subire lesioni (colpose) nel corso della competizione sportiva sia stato preventivato ed accettato dal partecipante: è stata, pertanto, esclusa la configurabilità della scriminante nei casi in cui le caratteristiche amichevoli od amatoriali della competizione rendano non prevedibile il verificarsi di lesioni gravi, in quanto tali eccedenti l'entità delle lesioni normalmente accettabili nel predetto contesto (Cass. pen., Sez. V, n. 44306/2008, in fattispecie di lesioni gravi con effetti permanenti, derivate da uno “sgambetto” durante una partita di calcio tra compagni di scuola). Ed anche successivamente, la giurisprudenza ha ribadito che la cd. scriminante del rischio consentito opera soltanto nell'ambito delle competizioni sportive, che si svolgono secondo regole stabilite dagli organismi di categoria - se ed in quanto quelle regole vengono rispettate - e ricevono protezione statuale in considerazione dei benefici che la pratica sportiva è suscettibile di arrecare a coloro che la praticano; essa non opera invece nell'ambito di manifestazioni, più o meno folkloristiche, imperniate su comportamenti violenti che mettono a rischio l'incolumità dei partecipanti e degli spettatori (Cass. pen., Sez. V, n. 15170/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha negato la sussistenza della scriminante in una fattispecie di "tradizionale" partita di calcio svolta in orario notturno, all'interno di piazza cittadina, sfornita di qualsiasi regola di gioco e di riguardo nei confronti dei giocatori e degli spettatori; conforme Cass. pen., Sez. IV, n. 34977/2016, riguardante mere esibizioni non competitive).
Applicazioni
Atti di “nonnismo”. La giurisprudenza ha ritenuto che, con riguardo agli atti di “nonnismo” in ambiente militare, non è ipotizzabile la sussistenza della scriminante del consenso dell'avente diritto, neanche quando il soggetto passivo abbia accettato di sottoporsi a prove di iniziazione, in quanto la manifestazione di volontà della recluta non può mai ritenersi libera da condizionamenti, in considerazione della forzata convivenza e del clima di intimidazione creato dai militari più anziani nei confronti dei più giovani (Cass. pen., I, n. 23599/2002, in fattispecie riguardante la condotta violenta denominata “sbrago”). Peculato. La giurisprudenza ha negato l'efficacia scriminante del consenso dell'avente diritto in relazione al peculato (art. 314 c.p.), poiché i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla P.A. (Cass. pen., Sez. unite, n. 19054/2013, in fattispecie relativa all'utilizzo di utenze cellulari per fini personali). Reati contro la fede pubblica. La giurisprudenza è ferma nel ritenere l'inefficacia scriminante del consenso in relazione ai reati contro la fede pubblica, attraverso i quali il legislatore intende tutelare il bene-interesse della fede pubblica documentale, costituente preminente interesse sociale, e come tale tipicamente indisponibile da parte dei singoli consociati (Cass. pen., Sez. V, n. 83/1976 e Cass. pen., Sez. V, n. 16328/2009. Si è, pertanto, affermato che persino la commissione di un falso in scrittura privata (art. 485 c.p.) con il consenso del privato avente diritto non risulta scriminata: in tale fattispecie, la tutela penale ha per oggetto non solo l'interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, compromessa nel momento in cui l'agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sè un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; ed anche l'erroneo convincimento sull'effetto scriminante del consenso si risolverebbe in una inescusabile ignoranza della legge penale (Cass. pen., Sez. II, n. 42790/2003). Naturalmente, nei reati procedibili a querela dell'interessato (è proprio il caso dell'art. 485 c.p.) il difetto di querela del soggetto che abbia inteso consentire alla falsità potrà rendere comunque improcedibile l'azione penale. Aspetti processuali
L'art. 530, comma 3, c.p.p. dispone che Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1. La giurisprudenza (per tutte, Cass. pen., Sez. I, n. 20171/2013) evidenzia che, nell'ordinamento processuale penale, non è previsto un onere probatorio a carico dell'imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l'imputato è tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione (oltre al caso fortuito, alla forza maggiore, al costringimento fisico ed all'errore di fatto). Casistica
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