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Consenso dell’avente diritto

17 Gennaio 2018

Il consenso dell'avente diritto costituisce, ai sensi dell'art. 50 c.p., causa di giustificazione (o scriminante, o esimente), il cui fondamento viene generalmente individuato nella rinunzia alla tutela del bene da parte del suo titolare in favore di un terzo, che fa venir meno l'interesse alla repressione dei comportamenti lesivi ...
Inquadramento

Il consenso dell'avente diritto costituisce, ai sensi dell'art. 50 c.p., causa di giustificazione (o scriminante, o esimente), il cui fondamento viene generalmente individuato nella rinunzia alla tutela del bene da parte del suo titolare in favore di un terzo, che fa venir meno l'interesse alla repressione dei comportamenti lesivi del predetto bene posti in essere dal terzo stesso.

Natura giuridica

La dottrina in atto dominante ritiene che il consenso scriminante abbia natura giuridica di mero atto giuridico in senso stretto.

Legittimazione

Per avere efficacia scriminante, il consenso deve, sotto il profilo soggettivo, essere prestato, ad un tempo:

  • validamente, cioè volontariamente, ovvero per libera scelta non condizionata da errore, violenza o dolo;
  • da soggetto legittimato, cioè dal titolare del bene tutelato dalla norma penale, che in difetto sarebbe soggetto passivo del reato. Il consenso può essere espresso anche dal rappresentante legale o volontario del soggetto legittimato, se la rappresentanza risulti in concreto compatibile con la natura dell'atto cui si consente (ad es., non sarebbe valido il consenso espresso dal rappresentante in proprio favore); se più sono i titolari del bene, la condotta dell'agente risulta scriminata soltanto in presenza del consenso di tutti gli aventi diritto;
  • da soggetto capace. In generale, è sufficiente la mera capacità naturale, ovvero di intendere e di volere (art. 428 c.c.), che va riconosciuta ad ogni soggetto che non versi in situazione di minorazione psichica accertata da preventivo provvedimento di interdizione. Peraltro, con riferimento ai diritti di natura patrimoniale, la dottrina ritiene necessaria la capacità di agire (ex art. 2 c.c.).
Oggetto

Per avere efficacia scriminante, il consenso deve anche, sotto il profilo oggettivo:

  • essere prestato lecitamente, cioè non per ragioni turpi o contrarie a norme imperative od al buon costume;
  • avere ad oggetto un diritto disponibile. Preso atto dell'impossibilità di individuare un criterio che consenta in assoluto di individuare quali siano i diritti disponibili e quali quelli indisponibili, l'orientamento preferibile ritiene necessaria una disamina caso per caso.

Sono generalmente considerati disponibili:

  • i diritti patrimoniali;
  • i diritti inerenti alla sfera della personalità (onore, libertà personale), salvo che la loro lesione non violi norme a tutela dell'ordine pubblico o del buon costume: ad es., sarebbe valido il solo consenso ad offese episodiche, e certamente invalido quello ad un sequestro di persona a tempo indeterminato.

Sono sempre indisponibili i diritti appartenenti alla collettività (ad es., il diritto all'ambiente salubre) ed i diritti individuali tutelati in quanto di interesse pubblico (ad es., il diritto alla salute).

Rientrano tra i diritti indisponibili anche gli interessi dello Stato-amministrazione, considerati dalle norme a tutela della P.A., dell'amministrazione della giustizia e della fede pubblica, e gli interessi della collettività dei consociati, considerati dalle norme a tutela del sentimento religioso, dell'ordine pubblico, dell'incolumità pubblica, del buon costume, dell'economia pubblica, della famiglia.

In evidenza

Con riguardo alla disponibilità o meno dell'integrità fisica del consenziente, un limite è posto dall'art. 5 c.c., a norma del quale « gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordinamento pubblico o al buon costume ». La norma non pone alcun problema nei casi in cui l'atto di disposizione del proprio corpo sia espressamente consentito dalla legge (ad es., in materia di trapianti, l. 235 del 1957 e n. 458 del 1967).

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il divieto posto dall'art. 5 c.c. operi anche ai fini penali (per tutte, Cass. pen., Sez. V, n. 5544/1992, per la quale, ai fini della configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale, il consenso prestato ad una iniezione di eroina che abbia provocato effetti letali, si pone indubbiamente contro il buon costume e comunque contro la legge, posto che le iniezioni per endovena sono praticabili solo da personale sanitario qualificato, ed è quindi un consenso non valido e non atto a scriminare il reato). Il consenso dell'avente diritto può avere efficacia scriminante anche rispetto alle percosse e alle lesioni se viene prestato volontariamente nella piena consapevolezza delle conseguenze lesive all'integrità personale, sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che, incidendo negativamente sul valore sociale della persona umana, elide la rilevanza del consenso prestato (Cass. pen., Sez. I, n. 9326/1998: fattispecie concernente pratiche erotiche sadomasochistiche).

In evidenza

Il bene della vita è assolutamente indisponibile: di conseguenza, l'art. 579 c.p. non considera scriminato l'omicidio del consenziente, limitandosi a punirlo meno severamente rispetto all'omicidio (art. 575 c.p.).

Proprio in considerazione dell'assoluta indisponibilità del diritto alla vita ed all'integrità personale, la giurisprudenza ha negato l'efficacia scriminante del consenso prestato da uno stunt-man, successivamente rimasto vittima di un investimento verificatosi nel corso di una ripresa cinematografica, a che si girasse una scena rischiosa per la sua vita e per la sua incolumità personale (Cass. pen., Sez. IV, n. 8611/1981).

Con riguardo all'omicidio del consenziente, la giurisprudenza ha anche recentemente ribadito che il consenso è elemento costitutivo del reato, sicchè ove il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell'art. 47 c.p., in base al quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario (Cass. pen., Sez. I, n. 12928/2016: in motivazione, la S.C. ha precisato che il consenso previsto quale scriminante dall'art. 50 c.p. non corrisponde al consenso richiesto dall'art. 579 c.p., atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicità del fatto e non costituisce mera causa di giustificazione).

Disciplina

Il consenso, per avere efficacia scriminante, deve essere manifestato prima della commissione del reato (Cass. pen., Sez. II, n. 6287/1973), ovvero, al più tardi, nel momento del fatto lesivo, non ex post: la ratifica successiva dell'operato dell'agente sarebbe, pertanto, improduttiva di effetti scriminanti.

Con riguardo ad attività tendenzialmente destinate a protrarsi per un lasso di tempo apprezzabile, il consenso dell'avente diritto ha efficacia scriminante soltanto se permanente.

Il consenso è sempre revocabile da parte del soggetto legittimato prima della commissione della condotta consentita (Cass. civ., Sez. I, n. 2077/1977), sempre che la situazione di fatto determinatasi a seguito dell'originario consenso lo permetta: ad es., nel corso dell'intervento di chirurgia estetica (non necessario, e perciò praticabile soltanto previo consenso dell'interessato, perché altrimenti lesivo dell'altrui integrità fisica), il consenso non potrebbe esser revocato.

Nel caso in cui l'agente non si sia reso conto dell'intervenuta revoca del consenso, potrà, ricorrendone le condizioni, invocare la disciplina dettata dall'art. 59 c.p.

Ai fini della prestazione del consenso scriminante (così come della sua revoca) non è imposta alcuna forma predeterminata, ma naturalmente può acquistare efficacia la sola manifestazione di volontà che sia stata esternata, anche attraverso un comportamento tacito, ed abbia rivelato in maniera precisa ed inequivocabile il proprio proposito, risultando percepibile dai terzi (c.d. consenso tacito); diversamente, a nulla varrebbe la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se richiesto (c.d. consenso presunto), poiché, ai fini della applicabilità dell'art. 50, è necessario il requisito della effettività (Cass. pen., Sez. VI, n. 3125/1982).

In evidenza

In proposito, la giurisprudenza (Cass. II, n. 3675/1988) ha precisato che la convinzione di impossessarsi della cosa altrui con il consenso dell'avente diritto fa venir meno il dolo del reato di furto (art. 624 ss. c.p.), per la cui sussistenza è necessaria la coscienza di agire contro o senza la volontà del titolare: tale consenso deve ritenersi effettivo, quando vi sia stata l'espressa autorizzazione alla sottrazione, oppure tacito, se esso venga desunto da un inequivocabile comportamento del detentore, ovvero presunto, nel caso in cui colui che sottrae la cosa ritenga in buona fede di averne il permesso, in assenza o nell'impossibilità materiale di acconsentire alla sottrazione da parte di chi la detiene. In quest'ultimo caso, l'agente deve potere ragionevolmente presumere, in base a fatti sicuri, nel momento stesso in cui agisce, che l'avente diritto, se avesse potuto, avrebbe dato il suo consenso: non è, quindi, sufficiente la mera supposizione della ipotetica prestazione del consenso de quo.

In evidenza

La giurisprudenza (Cass. pen., Sez. V, n. 4743/1977, e Cass. pen., Sez. IV, n. 671/1979) è ferma nell'escludere la compatibilità tra il consenso dell'avente diritto ed i reati colposi, per due ordini di ragioni:

a) si richiama, in primo luogo, l'inefficacia del consenso in relazione agli atti di disposizione del proprio corpo eccedenti quelli consentiti dall'art. 5 c.c.;

b) si osserva, inoltre, che la prestazione del consenso, che presupporrebbe la volontarietà della lesione cui si consente, mal si concilierebbe con l'involontarietà del reato colposo.

In senso contrario, la dottrina (FIANDACA e MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2007, 520) osserva:

a) quanto al primo rilievo, che <<l'argomento (…) non vale a dimostrare una sorta di inconciliabilità di principio tra esimente del consenso e reato colposo: dimostra soltanto che la tesi della compatibilità ha una portata pratica assai limitata, considerato lo scarso numero di reati colposi posti a tutela di interessi disponibili>>;

b)quanto al secondo rilievo, che <<si può consentire ad un'attività pericolosa, senza per questo volere l'effettiva verificazione dell'evento lesivo: così, la volontaria assunzione del rischio da parte del titolare del bene varrà certamente a scagionare l'agente tutte le volte in cui la lesione che di fatto si verifichi rientri nell'area di disponibilità riconosciuta dall'art. 5 c.c. Per fare un esempio: se tre giovani salgono sulla motocicletta di un amico pur consapevoli che la strada sconnessa può provocare una caduta, e la caduta poi si verifica cagionando loro lievi escoriazioni, nessun dubbio che il conduttore della moto potrà beneficiare dell'esimente preveduta dall'art. 50>>.

Il consenso alle lesioni riportate durante una competizione sportiva

Nel caso di lesioni provocate senza violazione della disciplina sportiva, difetta la tipicità del fatto doloso o colposo: il responsabile dell'evento lesivo che abbia rispettato le regole del gioco, il dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e l'integrità fisica di costui, non è, pertanto, penalmente perseguibile, per difetto di tipicità della condotta, a meno che non abbia travalicato i limiti di ciò che è consentito (si pensi al calciatore che, senza alcuna necessità, abbia sferrato un calcio fortissimo al pallone colpendo intenzionalmente un avversario che si trovi in posizione di pericolo).

Con riferimento alle lesioni provocate per effetto di condotte volontarie, poste in essere in violazione delle regole del gioco ma per finalità miranti al conseguimento del risultato sportivo, si ritiene che il fatto-reato (questa volta corrispondente a quello tipico) sia scriminato dall'esercizio dell'attività sportiva.

Detta scriminante (formalmente non prevista dall'ordinamento) è talora desunta dalla combinazione tra l'affermazione del diritto ex art. 51 c.p. dell'agente ad esercitare l'attività sportiva (considerata socialmente utile, e come tale autorizzata), e del consenso dell'avversario ex art. 50 (che può ritenersi espresso per il solo fatto della sua partecipazione all'attività, e sempre con il limite del rispetto delle regole del gioco). La giustificazione di questa impostazione fonda sul principio del c.d. rischio consentito: «chi partecipa ad una competizione sportiva - che prevede come normale il contatto fisico tra i contendenti - sa, e accetta, che questo contatto possa avvenire anche in forme violente e anche contravvenendo alle regole del gioco. Acconsente dunque ai rischi che provengono sia dal contatto fisico normale sia da quello che deriva dalla violazione delle regole disciplinari. Non può invece rientrare nel rischio consentito, e quindi essere coperta dall'esimente, ciò a cui il giocatore non ha espressamente o tacitamente consentito: in particolare il fatto lesivo volontario a meno che quel particolare tipo di attività sportiva non preveda che il contendente colpisca volontariamente l'avversario (per es. nel pugilato, attività sportiva nella quale, peraltro, si pongono analoghi problemi nel caso di colpi "proibiti")» (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010). Si precisa che l'area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente il cui comportamento può essere - pur nel travalicamento di quelle regole - la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco (Cass. pen., Sez. IV, n. 9559/2016: fattispecie nella quale la S.C., escludendo la configurabilità di un'aggressione fisica per ragioni avulse dalla dinamica sportiva, ha ritenuto applicabile la scriminante del rischio consentito nella condotta del giocatore che, in un incontro di calcio di particolare rilevanza agonistica, durante un'azione volta a interrompere il contropiede della squadra avversaria, aveva colpito uno degli avversari con un calcio, causandogli una frattura, pur intendendo intervenire sulla palla).

Per quanto riguarda le lesioni provocate con condotte contrarie o estranee alle finalità del gioco, si ritiene che la cosciente violazione della regola sportiva di comportamento finalizzata al conseguimento del risultato sportivo non va però confusa con la condotta violenta coscientemente diretta a colpire l'avversario ma non finalizzata al conseguimento del predetto risultato: «se la violazione è diretta esclusivamente ad impedire l'azione dell'avversario non potrà essere ritenuto volontario l'atto lesivo (per rimanere agli esempi nello sport del calcio: chi colpisce volontariamente l'avversario con una gomitata al volto risponde per dolo; non è così per chi contrasta irregolarmente l'avversario alle spalle per impedire lo sviluppo dell'azione di gioco anche se il contrasto è stato da lui voluto). Insomma è la finalizzazione allo sviluppo del gioco che contraddistingue l'atto lesivo doloso da quello in cui è voluto soltanto il contrasto, sia pure irregolare, dell'avversario» (Cass. pen., Sez. IV, n. 20595/2010, per la quale, inoltre, è estranea alla copertura del rischio consentito « la condotta di gioco che si manifesti come assolutamente sproporzionata - per es. il difensore per fermare l'avversario lo travolge violentemente incurante delle conseguenze che possono derivare dall'impatto - o che appaia, sia pure ad una superficiale valutazione ex ante, idonea a ledere l'integrità fisica dell'avversario - per es. lo sgambetto volontario di un giocatore in corsa -. In questi casi non si rientra più nell'azione sportiva, pur dannosa, ma in una fattispecie nella quale non esiste la giustificazione dell'atto che si rivela esorbitante rispetto alle finalità del gioco e l'agente deve essere chiamato a rispondere delle conseguenze della sua azione sotto il profilo colposo (nel caso di violenza sproporzionata rispetto alle finalità del gioco ed estranea a principi di lealtà e correttezza)».

Ad esempio, è stata esclusa la configurabilità dei presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito nell'ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l'avversario: la condotta lesiva è, infatti, penalmente irrilevante soltanto quando sia finalisticamente inserita nel contesto dell'attività sportiva, mentre ricorre l'ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l'occasione dell'azione violenta mirata alla persona dell'antagonista (Cass. pen., Sez. V, n. 33275/2017).

L'operatività del consenso scriminante presuppone che il rischio di subire lesioni (colpose) nel corso della competizione sportiva sia stato preventivato ed accettato dal partecipante: è stata, pertanto, esclusa la configurabilità della scriminante nei casi in cui le caratteristiche amichevoli od amatoriali della competizione rendano non prevedibile il verificarsi di lesioni gravi, in quanto tali eccedenti l'entità delle lesioni normalmente accettabili nel predetto contesto (Cass. pen., Sez. V, n. 44306/2008, in fattispecie di lesioni gravi con effetti permanenti, derivate da uno “sgambetto” durante una partita di calcio tra compagni di scuola). Ed anche successivamente, la giurisprudenza ha ribadito che la cd. scriminante del rischio consentito opera soltanto nell'ambito delle competizioni sportive, che si svolgono secondo regole stabilite dagli organismi di categoria - se ed in quanto quelle regole vengono rispettate - e ricevono protezione statuale in considerazione dei benefici che la pratica sportiva è suscettibile di arrecare a coloro che la praticano; essa non opera invece nell'ambito di manifestazioni, più o meno folkloristiche, imperniate su comportamenti violenti che mettono a rischio l'incolumità dei partecipanti e degli spettatori (Cass. pen., Sez. V, n. 15170/2016: in applicazione del principio, la S.C. ha negato la sussistenza della scriminante in una fattispecie di "tradizionale" partita di calcio svolta in orario notturno, all'interno di piazza cittadina, sfornita di qualsiasi regola di gioco e di riguardo nei confronti dei giocatori e degli spettatori; conforme Cass. pen., Sez. IV, n. 34977/2016, riguardante mere esibizioni non competitive).

Casistica

Con riguardo al gioco del calcio, si è inizialmente ritenuto che «il mero illecito sportivo ricorre quando la condotta lesiva, quale quella del diretto controllo del tiro del pallone, del tentativo di impossessarsene o di contenderlo all'avversario ovvero di introdursi nell'azione di gioco, sia finalisticamente inserita nel contesto di un'attività sportiva. In tema di lesioni cagionate nel corso di quest'ultima, allorquando venga posta a repentaglio coscientemente l'incolumità del giocatore – che legittimamente si attende dall'avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l'altrui integrità fisica – si verifica il superamento del cosiddetto rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o per colpa. Il fatto è doloso ove la gara sia solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, è colposo se innestato nello svolgimento dell'attività agonistica e dipendente dalla violazione di norme regolamentari. L'accertamento del rischio consentito è questione di fatto, da risolvere caso per caso, in relazione al tipo di pratica sportiva nonché, nell'ambito di questa, al tipo di attività agonistica» (Cass. pen., Sez. V, n. 9627/1992, che ha escluso il dolo in una fattispecie verificatasi durante un incontro tra dilettanti, nella quale il fatto lesivo si era verificato nel corso di un'azione di gioco tesa ad impedire che l'avversario si proiettasse col pallone verso la rete avversaria, ma ha ritenuto la colpa, poiché il difensore aveva commesso fallo con un violento calcio). È stata esclusa l'applicabilità della scriminante del “rischio consentito” in materia sportiva, in un caso nel quale, durante un incontro di calcio, l'imputato aveva colpito l'avversario con un pugno al di fuori di un'azione ordinaria di gioco, «trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l'azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area et c.) e non può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell'incontro» (Cass. pen., Sez. V, n. 42114/2011).

Rigore ancor maggiore si impone in relazione al gioco del calcetto, al cui contenuto regolamentare è assolutamente estranea la violenza fisica (Cass. pen., Sez. V, n. 5589/1993).

Con riguardo al basket, si è ritenuto che non potesse ritenersi scriminato il comportamento del giocatore che aveva sferrato un pugno ad un avversario, attingendone la mandibola destra (Cass. pen., Sez. V, n. 1951/2000).

È stata anche esaminata, con specifico riferimento al karate, la possibile rilevanza della diversità tra le competizioni ufficiali e gli incontri di allenamento: « l'esercizio di attività sportiva nella forma di un incontro di esibizione-allenamento è caratterizzata da una minore carica agonistica rispetto alle competizioni vere e proprie e richiede, pertanto, da parte dei contendenti, particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio fisico dell'avversario, e quindi un maggior controllo dell'ardore agonistico, della forza e velocità dei colpi, sempre in relazione alla capacità di esperienza dell'avversario ed ai mezzi di protezione in concreto utilizzati » (Cass. pen., Sez. IV, n. 2765/2000, relativa a lesioni personali colpose cagionate da un « calcio circolare » con cui un atleta aveva colpito l'avversario durante un allenamento).

È stata rigettata la domanda di risarcimento proposta dal soggetto che, in una contesa amichevole di braccio di ferro, aveva riportato lesioni al braccio, per il rilievo che l'incontro si era svolto correttamente, e le lesioni erano state procurate dall'azione sul braccio delle forze muscolari contrapposte, caratteristica ineluttabile dello svolgimento di quel tipo di attività sportiva (Cass. civ., Sez. III, n. 20597/2004; in motivazione, le S.C. ha anche osservato che, qualora i praticanti di un'attività sportiva si siano costituiti in federazione sportiva ed all'interno di essa si siano dati delle regole per lo svolgimento delle competizioni ufficiali, ciò non preclude la possibilità di svolgere legittimamente tale attività in forma amichevole e senza il rispetto delle regole dettate per le competizioni ufficiali, qualora non si tratti, come nel caso di specie, di attività intrinsecamente pericolosa; né il mancato rispetto in quel contesto delle regole fissate per le competizioni ufficiali diviene autonoma fonte di responsabilità in capo ai partecipanti alla gara, dovendo invece il parametro valutativo della responsabilità per le lesioni riportate da uno dei contendenti essere costituito dall'aver seguito o meno le regole della normale prudenza).

Applicazioni

Atti di “nonnismo”. La giurisprudenza ha ritenuto che, con riguardo agli atti di “nonnismo” in ambiente militare, non è ipotizzabile la sussistenza della scriminante del consenso dell'avente diritto, neanche quando il soggetto passivo abbia accettato di sottoporsi a prove di iniziazione, in quanto la manifestazione di volontà della recluta non può mai ritenersi libera da condizionamenti, in considerazione della forzata convivenza e del clima di intimidazione creato dai militari più anziani nei confronti dei più giovani (Cass. pen., I, n. 23599/2002, in fattispecie riguardante la condotta violenta denominata “sbrago”).

Peculato. La giurisprudenza ha negato l'efficacia scriminante del consenso dell'avente diritto in relazione al peculato (art. 314 c.p.), poiché i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla P.A. (Cass. pen., Sez. unite, n. 19054/2013, in fattispecie relativa all'utilizzo di utenze cellulari per fini personali).

Reati contro la fede pubblica. La giurisprudenza è ferma nel ritenere l'inefficacia scriminante del consenso in relazione ai reati contro la fede pubblica, attraverso i quali il legislatore intende tutelare il bene-interesse della fede pubblica documentale, costituente preminente interesse sociale, e come tale tipicamente indisponibile da parte dei singoli consociati (Cass. pen., Sez. V, n. 83/1976 e Cass. pen., Sez. V, n. 16328/2009. Si è, pertanto, affermato che persino la commissione di un falso in scrittura privata (art. 485 c.p.) con il consenso del privato avente diritto non risulta scriminata: in tale fattispecie, la tutela penale ha per oggetto non solo l'interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, compromessa nel momento in cui l'agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sè un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; ed anche l'erroneo convincimento sull'effetto scriminante del consenso si risolverebbe in una inescusabile ignoranza della legge penale (Cass. pen., Sez. II, n. 42790/2003). Naturalmente, nei reati procedibili a querela dell'interessato (è proprio il caso dell'art. 485 c.p.) il difetto di querela del soggetto che abbia inteso consentire alla falsità potrà rendere comunque improcedibile l'azione penale.

Aspetti processuali

L'art. 530, comma 3, c.p.p. dispone che Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1.

La giurisprudenza (per tutte, Cass. pen., Sez. I, n. 20171/2013) evidenzia che, nell'ordinamento processuale penale, non è previsto un onere probatorio a carico dell'imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l'imputato è tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione (oltre al caso fortuito, alla forza maggiore, al costringimento fisico ed all'errore di fatto).

Casistica

La disciplina

Perché ricorrano gli estremi dell'esimente di cui all'art. 50 c.p., occorre necessariamente che il consenso dell'avente diritto sia manifestato prima della commissione del reato. Cass. pen., Sez. II, n. 553/1973.

Ai fini dell'applicabilità dell'art. 50 cod. pen. è necessario il requisito della effettività e a nulla vale la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se richiesto. Cass. pen., Sez. VI, n. 3125/1982.

Putatività del consenso e vizio di mente

La putatività di una esimente non va valutata in rapporto al vizio mentale dell'imputato, la cui infermità sia accertata solo nella sfera volitiva, in quanto l'errore di valutazione su circostanze determinanti un supposto pericolo attiene alla sfera della capacità di intendere. — Cass. pen., Sez. I, n. 5066/1984.

Applicazioni

Il consenso alla pubblicazione di una foto non vale come scriminante del delitto di diffamazione se l'immagine sia riprodotta in un contesto diverso da quello per cui il consenso sia prestato che implichi valutazioni peculiari, anche negative sulla persona effigiata (Cass. Pen., Sez. V, n. 30664/2008: in applicazione di questo principio la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità del direttore di un quotidiano, ex art. 57 e 595 c.p., per avere pubblicato sulla prima pagina del giornale un articolo dal titolo «Terapeuti a quattro zampe» corredato della foto di una minore in compagnia di un gatto, lasciando intendere che la bimba fosse sottoposta a trattamento terapeutico per autismo o handicap psicomotorio).

In tema di arbitraria occupazione del demanio marittimo, sono irrilevanti sia l'acquiescenza degli organi preposti alla sua tutela, sia il preteso consenso dell'avente diritto. (Cass. pen., Sez. III, n. 23214/2004).

Aspetti processuali

Nell'ordinamento processuale penale, non è previsto un onere probatorio a carico dell'imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l'imputato è tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione, il caso fortuito, la forza maggiore, il costringimento fisico e l'errore di fatto (Cass. pen., Sez. II, n. 20171/2014: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte di appello che aveva respinto la richiesta di considerare il fatto ascritto cagionato da costringimento fisico per assenza di allegazione di elementi significativi a sostegno).

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