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Reati ambientali

Mario Gebbia
03 Settembre 2015

La legge 22 maggio 2015, n. 68 ha introdotto nel codice penale nuove fattispecie delittuose in materia ambientale. L'introduzione dei “delitti ambientali” all'interno del codice penale è un'iniziativa da tempo preannunciata nell'ambito del panorama normativo italiano: dal 1997, infatti, si sono susseguite diverse proposte di riforma con contenuti simili a quelli che oggi caratterizzano la legge 68/2015.
Inquadramento

In fase di aggiornamento autorale

La legge 22 maggio 2015, n. 68 ha introdotto nel codice penale nuove fattispecie delittuose in materia ambientale. L'introduzione dei “delitti ambientali” all'interno del codice penale è un'iniziativa da tempo preannunciata nell'ambito del panorama normativo italiano: dal 1997, infatti, si sono susseguite diverse proposte di riforma con contenuti simili a quelli che oggi caratterizzano la legge 68/2015.

L'entrata in vigore della riforma si colloca, inoltre, nell'obbligo di attuazione delle indicazioni contenute nella direttiva 2008/99/CE, con la quale il legislatore europeo richiedeva agli Stati membri l'applicazione di “sanzioni maggiormente dissuasive per le attività che danneggiano l'ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell'aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell'acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie”.

Sia la riforma italiana sia le indicazioni a livello europeo rendono evidente l'evoluzione che il diritto ambientale ha avuto nel corso degli anni.

Infatti, i trattati europei indicano, con un ordine non casuale, i principi che devono essere rispettati per normare la materia ambientale, ovvero:

  • il principio della precauzione;
  • il principio dell'azione preventiva;
  • il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente;
  • il principio “chi inquina paga”;

Evidentemente il principio “chi inquina paga” era considerato l'extrema ratio del diritto ambientale, preferendo sempre la prevenzione del danno ambientale, piuttosto che la riduzione successiva degli effetti.

Invece, negli ultimi anni, amaramente i legislatori hanno riconsiderato quest'ultimo principio, prendendo atto della necessità della dissuasione attraverso la repressione.

E, in effetti, la riforma introdotta con la legge 68 spinge proprio nel senso del “chi inquina paga”.

Non solo per il drastico aggravamento dell'apparato sanzionatorio conseguente all'introduzione delle nuove fattispecie, ma anche per la previsione di una serie di istituti che mirano a concretizzare ed a rendere immediatamente percepibile la responsabilizzazione, a livello comportamentale ed economico, del soggetto inquinatore. Su questa scia si collocano:

  • il ravvedimento operoso (art. 452-decies c.p.);
  • l'obbligo del ripristino in seguito a pronuncia di condanna (art. 452-duodecies c.p.);
  • la confisca, anche per equivalente, e la destinazione dei proventi della confisca alla bonifica dei luoghi;
  • la nuova disciplina per i reati contravvenzionali previsti in materia ambientale, che in qualche modo contempera l'esigenza della correzione dei danni alla fonte con il principio “chi inquina paga” (la nuova Parte Sesta-bis del d.lgs. 152/2006);
  • l'estensione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ad alcune delle nuove ipotesi di reato.

Sotto il profilo dell'inquadramento generale e limitando l'analisi alle sole nuove ipotesi delittuose, è significativo l'inserimento delle stesse dopo il Titolo VI riguardante i “Delitti contro l'incolumità pubblica”, ovvero quei delitti che minacciano l'esplicazione della convivenza sociale ed all'interno dei quali, sino a ieri, venivano ricondotti i fatti più gravi a danno dell'ambiente. Questa collocazione si traduce in un forte messaggio circa la riqualificazione del bene ambiente e la stigmatizzazione delle condotte che lo danneggiano.

Inquinamento ambientale. (Art. 452-bis)

Non possono esservi dubbi sul fatto che questa fattispecie costituisca la novità di maggior rilievo – sia in termini diretti che indiretti - dell'intera riforma, per la sua intrinseca valenza penale e per le implicazioni “a cascata” sugli altri aspetti della novella legislativa che la stessa è destinata ad assumere.

In primo luogo, si tratta della fattispecie che presenta il maggior numero di potenziali sovrapposizioni con altre ipotesi di reato già previste dal sistema di tutela dell'ambiente, sia di natura penale che amministrativa, e che verosimilmente potrà essere applicata con maggiore frequenza in termini statistici.

È chiaro che il reato di cui all'

art. 452

-

bis

c.p.

è norma “aperta” che pone in relazione un'amplissima gamma di illeciti già previsti dal

d.lgs. 152/

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con eventi ulteriori; una norma che, quindi, sembra quasi indifferente alle modalità con cui l'aggressione al bene ambiente potrà essere posta in essere.

La condotta è costituita dal “cagionare abusivamente”. Particolare rilevanza assume, evidentemente, l'analisi del concetto di abusività che è ripreso, quale elemento oggettivo, anche dal nuovo delitto di Disastro ambientale, dalle altre fattispecie plasmate sull'Inquinamento e sul Disastro (Morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale e Delitti colposi contro l'ambiente) ed è, ancora, elemento costitutivo del delitto di Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività.

In prima battuta, occorre rilevare come analogo concetto fosse già presente nella normativa posta a tutela dell'ambiente nell'ambito della fattispecie di cui all'

art. 260

,

d.l

g

s. 152/

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(Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti). La copiosa giurisprudenza intervenuta su tale fattispecie ha ritenuto che il concetto di abusività dalla stessa espresso non potesse che essere rapportato alle condotte descritte nel precedente art. 256 e, in particolare (ma non esclusivamente), in quella di cui al primo comma, che sanziona il compimento di fasi di gestione del rifiuto in assenza della prescritta autorizzazione, comunicazione, nulla osta, etc. In questo senso, quindi, sono state individuate l'essenza e la ragione di punire attività abusive, o meglio, un insieme di atti di gestione abusiva, compiuti su larga scala ed accompagnati dall'intento di realizzare un profitto ingiusto.

Dall'esame complessivo di questa giurisprudenza si può trarre una indicazione alla luce della quale la commissione di illeciti meramente amministrativi non potrebbe fondare una contestazione di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. Tuttavia non pare prudente assumere analoga conclusione rispetto alle nuove fattispecie.

Infatti, si può sostenere quanto già affermato dalla giurisprudenza, anche a livello costituzionale, in merito alle cosiddette formule elastiche (“senza giustificato motivo”, “senza giusta causa”, “arbitrariamente”, etc.), che hanno superato il vaglio della determinatezza in quanto idonee a fronteggiare l'impossibilità legislativa di una elencazione analitica di tutte le situazioni astrattamente idonee a rendere lecita o illecita la condotta. Tale interpretazione porta a considerare il concetto di abusivamente come riferibile a situazioni in cui l'autore del reato agisca in assenza del titolo autorizzativo, con autorizzazione scaduta o non commisurata alla tipologia di attività, ovvero in violazione di limiti e prescrizioni dell'autorizzazione, o, ancora, quando il comportamento del reo costituisca uno scorretto esercizio delle facoltà previste dal titolo autorizzativo.

Il delitto di cui all'

art. 452

-

bis

c.p.

, così come le fattispecie contemplate dagli articoli successivi, costituiscono reati di evento e non di mera condotta: non è stigmatizzato il comportamento in sé tenuto dal singolo, quanto un comportamento in grado di determinare l'evento descritto dalla fattispecie, ovvero “una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”. Occorre, quindi, chiarire cosa debba intendersi per compromissione e deterioramento rilevante e misurabile.

Nei lavori preparatori si è proposto di considerare il deterioramento come un'alterazione dell'ambiente reversibile attraverso processi rigenerativi naturali, differenziandolo dalla compromissione consistente in un'alterazione reversibile solo attraverso un'attività umana di bonifica o di ripristino.

E, in effetti, il concetto di compromissione pare esprimere l'idea di mutazione o trasformazione caratterizzata da un dato temporale e/o da criteri “tecnico-economici” integrativi.

Si ha, invece, deterioramento (sostantivo già presente nel panorama normativo e giurisprudenziale), “tutte le volte in cui una cosa venga resa inservibile, anche solo temporaneamente, all'uso cui è destinata, non rilevando, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la possibilità di reversione del danno, anche se tale reversione avvenga non per opera dell'uomo, ma per la capacità della cosa di riacquistare la sua funzionalità nel tempo” (così

Cass.

pen.,

Sez. IV, 21 ottobre 2010, n. 9343

, in merito al delitto di danneggiamento,

art. 635 c.p.

).

Occorre, poi, ricordare che la compromissione, come anche il deterioramento, possono riguardare non solo le condizioni originarie della matrice ambientale interessata, ma anche quelle preesistenti.

Si può compromettere anche un bene che non corrisponde più allo stato originale. Si può, anzi, ritenere che forme ulteriori di compromissione possono essere poste in essere su beni in tutto o in parte già compromessi, senza che per tale ragione si possa escludere la penale rilevanza del comportamento tenuto.

È, in ogni caso, evidente che i confini quantitativi dei due concetti risultano particolarmente labili: la tentazione per l'interprete potrebbe essere di sostenere che, se il deterioramento in sé differisce dalla compromissione, proprio quella particolare forma di deterioramento che assume una caratterizzazione quantitativa significativa (ossia rilevante) e oggettivamente apprezzabile (e quindi misurabile) si pone in termini di assoluta prossimità logico-lessicale con la compromissione.

Inutile dire che l'utilizzo di termini dotati di scarsa capacità definitoria è destinato ad alimentare polemiche in ordine al coefficiente di determinatezza della fattispecie.

Ciò a maggior ragione se si considera che la fattispecie prosegue mettendo in correlazione il deterioramento e la compromissione con gli aggettivi significativo e misurabile, non indicando, però, come tale misurazione possa avvenire e rispetto a quali parametri. Si può comunque ritenere che, affinché si possa parlare di evento-inquinamento, la compromissione o il deterioramento debbano avere una chiara evidenza (significatività) e un'oggettiva possibilità di quantificazione con parametri scientifici.

Ricordando che, comunque, possono essere di soccorso all'interprete alcune disposizioni, nazionali e comunitarie, sul danno ambientale e sull'inquinamento, preme in conclusione evidenziare come l'

art. 257

,

d.lgs. 152/

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, in tema di bonifiche, ricolleghi il concetto di inquinamento al superamento delle concentrazioni soglia di rischio e tale ambito definitorio potrebbe essere utilizzato nell'interpretazione della definizione ora in commento.

In concreto, si potrebbe pensare che la fattispecie confini, sul lato inferiore, con il superamento delle concentrazioni soglie di rischio (C.S.R.), mentre, sul lato superiore, nella progressione immaginata dal legislatore, con il più grave reato di disastro, che pretende una alterazione “irreversibile o particolarmente onerosa” dell'ecosistema.

Il legislatore prosegue, poi, elencando i “bersagli” della compromissione o deterioramento significativi e misurabili: acque, aria, porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo, ecosistema, biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

Qualche parola meritano il suolo ed il sottosuolo, rispetto ai quali il legislatore si premura di precisare che deve trattarsi di porzioni estese o significative.

Anche in questo caso il legislatore non brilla per chiarezza ma si può supporre che la significatività possa riguardare le caratteristiche del territorio circostante e l'estensione vada considerata attraverso un dato numerico oggettivo.

Morte o lesione in conseguenza del delitto di inquinamento ambientale (Art. 452-ter)

Si tratta di un'ipotesi mutuata dallo schema generale già previsto dal codice penale all'art. 586 (rubricato “Morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto”) rispetto alla quale non è chiaro l'intento del legislatore che, appunto, avrebbe potuto accontentarsi di questa fattispecie di carattere generale già esistente.

È verosimile che la conclusione di vicende giudiziarie di forte impatto mediatico e che hanno suscitato forme di emotività profonda e diffusa possa avere influito sulla scelta effettuata dal legislatore, che ha ritenuto di dovere fornire una risposta indubbiamente “forte” a tali problematiche.

Ma al di là della “ripetizione” degli istituti, suscita qualche perplessità, sul piano sistematico (e forse non solo), il fatto che il legislatore non abbia previsto una “estensione” della disciplina di cui all'art 452-ter c.p. anche al caso di morte in conseguenza di disastro ambientale.

Rispetto a tale delitto valgono i normali criteri ermeneutici della colpa, ovvero come realizzazione di un fatto non voluto, rimproverabile per la violazione di una regola di diligenza, di prudenza, di perizia, e che discende da una valutazione positiva di prevedibilità e di evitabilità della verificazione dell'evento.

La circostanza che l'agente reale versi in un ambito di illiceità, pertanto, non influenza la struttura della colpa del delitto di cui all'art. 452-ter (e 586 c.p.): anche in ambito illecito occorre sempre che il fatto costitutivo del reato sia conseguenza, in concreto prevedibile ed evitabile, dell'inosservanza di una regola cautelare.

Disastro ambientale (Art. 452-quater)

Nella progressione immaginata dal legislatore, il limite estremo dell'inquinamento è il Disastro ambientale che, sotto il profilo della condotta, non si discosta dalle indicazioni di cui all'art. 452-bis c.p., considerato che la stessa viene definita sinteticamente con l'espressione abusivamente provoca.

Il punto centrale è, quindi, la definizione del Disastro.

In termini generali, richiamando i canoni interpretativi espressi dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla fattispecie in cui, sino ad oggi, è stato ricompreso il disastro ambientale (art. 434 c.p.), deve ritenersi tale un fenomeno con un'ampia ricaduta sull'ambiente inteso in senso biologico, che per la vastità del territorio interessato, per il numero degli organismi viventi coinvolti e per la gravità degli effetti sugli individui interessati, si configuri come catastrofico e che può consistere non soltanto in un macroevento di immediata manifestazione esteriore ma anche in una sommatoria di eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato.

Peraltro, in termini più specifici, l'art. 452-quater c.p. descrive l'evento alternativamente come “alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema”, ovvero “alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali” o ancora come “offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”.

Le prime due ipotesi sono indicate a partire dal concetto di alterazione di equilibrio, ossia di modificazione sostanziale delle caratteristiche intrinseche dell'ecosistema e dei rapporti tra gli organismi presenti nello stesso.

Nel primo caso in termini irreversibili, ossia senza che un intervento esterno, per quanto efficace, puntuale, mirato e corretto, possa ristabilire lo status quo ante. Nel secondo la situazione di equilibrio può essere ripristinata solo a fronte di un significativo impegno economico (definito come eliminazione particolarmente onerosa) e di provvedimenti eccezionali. Inutile dire che la norma non fornisce parametri né in punto onerosità né in punto eccezionalità.

La terza ipotesi è delineata su basi completamente differenti: il disastro deve essere tale da offendere la pubblica incolumità o a causa della estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero alla luce del numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Interessante è, poi, considerare che la sussistenza del Disastro ambientale (art. 452-quater c.p.) deve essere valutata in rapporto a quanto già previsto dall'art. 434 c.p., per l'espressa previsione legislativa, dell'art. 452-quater, di un rapporto di specialità tra i due alla luce dell'inciso “fuori dai casi previsti dall'articolo 434”.

Tale scelta presta il fianco a qualche difficoltà interpretativa, anche alla luce del diverso apparato sanzionatorio (da 1 a cinque anni) e dei termini prescrizionali semplici.

Nei lavori preparatori si legge che questa scelta è dovuta al fatto che l'art. 434 c.p. assolve ad una funzione di "chiusura" del sistema. Ma questo aveva una logica vigente soltanto il decreto legislativo 152/2006, ovvero in un sistema di protezione penale dell'ambiente strutturato sulle violazioni formali e sul delitto ex art. 434 c.p.

Visto l'inserimento del disastro ambientale, così come concepito e sanzionato, non pare logico ritenere che il legislatore voglia o rischi di far prevalere, in forza della clausola di salvaguardia, la “vecchia” disposizione codicistica.

Peraltro, l'inciso non è chiaro neanche qualora volesse ricomprendere tutti i casi dubbi che non possono essere ricondotti nella definizione data dall'art. 452-quater, rispetto ai quali, tuttavia, dovrebbe sussistere l'ipotesi di inquinamento.

Si è anche avanzata l'ipotesi residuale che l'inciso derivi semplicemente dalla volontà legislativa di ribadire l'intangibilità dei processi di disastro ambientale già rubricati sotto l'art. 434 c.p., ma anche in questo caso la disposizione avrebbe poco senso.

Delitti colposi contro l'ambiente (Art. 452-quinquies)

Una delle più significative novità della riforma consiste, in evidente rottura con la storia normativa precedente, nella qualifica delle fattispecie come delitti, strutturati, quindi, in chiave dolosa.

L'estensione al profilo colposo delle nuove fattispecie avviene con l'art. 452-quinquies c.p. che – senza che venga modificato lo schema delineato dagli artt. 452-bis e 452-quater c.p. né con riguardo alla descrizione della condotta né all'evento, che resta, pertanto, una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili, ovvero il disastro ambientale appena delineato – riduce le pene previste dai suddetti articoli da un terzo a due terzi.

Il comma secondo dell'articolo in esame, poi, anticipa la tutela introducendo un reato di pericolo per il quale la pena è ulteriormente diminuita di un terzo.

Traffico e abbandono di materiale ad altra radioattività (Art. 452-sexies)

Questo nuovo delitto, di mera condotta, rappresenta la risposta del legislatore, sulla falsariga delle ipotesi di reato delineate dagli artt. 452-bis ss. c.p., allo specifico problema delle radiazioni ionizzanti, prese in considerazione sotto il profilo di una particolare tipologia di materiale nucleare.

Anche in questo caso è ripreso il concetto di abusività, cui viene aggiunto, soltanto rispetto alla condotta del disfarsi, un'altra connotazione, ovvero illegittimamente. Nel concetto di disfarsi illegittimamente pare insita la descrizione di uno smaltimento del rifiuto ad alta radioattività totalmente al di fuori delle forme, delle modalità e delle destinazioni imposte al proposito dalla legge.

La disposizione di cui all'art. 452-quinquies c.p. è univocamente un delitto doloso, in assenza espresse previsioni colpose. Il vero problema è intendersi sul concetto di materiale ad alta radioattività.

Nessun elemento definitorio si rinviene nella normativa di settore, ovvero nel d.lgs. 230/1995. Solo nella classificazione fornita dall'Enea si rinviene il concetto di alta radioattività, in relazione ai rifiuti di III Categoria, quali “rifiuti radioattivi ad alta attività o a vita lunga, per il decadimento dei quali sono necessari periodi molto più lunghi, da migliaia a centinaia di migliaia di anni”.

Peraltro, occorre ricordare che nell'ordinamento esista già una disposizione – l'art. 3 della legge 7 agosto 1982, n. 704 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione fisica dei materiali nucleari, con allegati, aperta alla firma a Vienna ed a New York il 3 marzo 1980) – secondo la quale “Chiunque, senza autorizzazione, riceve, possiede, usa, trasferisce, trasforma, aliena o disperde materiale nucleare in modo da cagionare a una o più persone la morte o lesioni personali gravi o gravissime ovvero da determinare il pericolo dei detti eventi, ferme restando le disposizioni degli articoli 589 e 590 del codice penale, è punito con la reclusione fino a due anni. Quando è cagionato solo un danno alle cose di particolare gravità o si determina il pericolo di detto evento, si applica la pena della reclusione fino ad un anno”.

Impedimento di controllo (Art. 452-septies)

Con l'art. 452-septies c.p. il legislatore sanziona con la reclusione da sei mesi a tre anni, e “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, chiunque, ovvero anche un soggetto non necessariamente identificabile con il titolare/responsabile di un'attività, “negando l'accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l'attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti”.

Si tratta di una fattispecie di reato a forma vincolata, poiché la condotta penalmente sanzionata deve essere diretta a impedire o intralciare (ossia rendere più faticosa e comunque meno efficace) l'attività di controllo indipendentemente, almeno formalmente, dal luogo ove il controllo stesso deve avvenire.

Ad una prima lettura, poi, non pare che le condotte descritte possano ricomprendere anche una vera e propria opposizione fisica, riconducendo, quindi, tali eventualità nell'ambito delle fattispecie di cui al reato di cui all'art. 337 c.p. (resistenza ad un pubblico ufficiale) o a quello di cui all'art. 340 c.p. (interruzione di pubblico servizio).

Peraltro, preme osservare che la norma estende la tutela dell'attività di vigilanza e controllo anche in tema di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero della disciplina contemplata dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

Il delitto di omessa bonifica (Art. 452-terdecies)

Il reato in esame introduce una tutela generalizzata delle attività di ripristino, recupero, bonifica, indipendentemente dal comportamento (rispetto al quale non è richiesta una natura illecita anche soltanto sotto il profilo amministrativo) che ha determinato il pregiudizio ambientale che richiede l'intervento riparatorio.

Gli atti o fatti che danno origine all'obbligo di fare previsto dalla disposizione in esame sono individuati nell'obbligo di legge, nell'ordine del giudice ovvero nell'ordine di una autorità pubblica.

Uno dei principali problemi applicativi che può derivare dalla nuova ipotesi delittuosa è il suo rapporto con l'art. 257, d.lgs. 152/2006 (Bonifica dei siti). In particolare, quest'ultimo prevede una fattispecie penale applicabile soltanto al soggetto responsabile dell'inquinamento (Cass. pen., Sez. III, 16 marzo 2011, n. 10503), mentre il nuovo delitto prescinde dalla eventuale responsabilità sottostante perché introduce una fattispecie “di scopo” finalizzata a rafforzare i provvedimenti del giudice e della pubblica amministrazione.

Evidentemente, emerge un sistema non proprio brillante alla luce del principio di cui all'art. 3 Cost., laddove si consideri che viene punito come illecito contravvenzionale (peraltro, estinguibile in sede amministrativa ai sensi delle norme di cui alla parte VI-bis, d.lgs. 152/2006) il comportamento del responsabile dell'inquinamento che omette di effettuare la bonifica e, invece, viene sanzionato con un'ipotesi delittuosa il soggetto che non ottempera ad un obbligo di bonifica legalmente dato, indipendentemente dal fatto che abbia determinato o contribuito a determinare l'inquinamento (si pensi alla figura del proprietario incolpevole).

Un'altra differenza sostanziale tra le due fattispecie riguarda il fatto che il reato di cui all'art. 257 è applicabile soltanto qualora vi sia il supero di entrambe le soglie previste dalla normativa sulla bonifica dei siti inquinati: sia quelle di contaminazione (C.S.C.), sia quelle di rischio (C.S.R.). Diversamente, il nuovo reato di omessa bonifica non prevede una espressa delimitazione in questa direzione.

È pur vero che, sul piano sostanziale, la normativa sulle bonifiche dei siti contaminati resta pur sempre la stessa e, quindi, rispetto ai due reati in esame, non cambiano i presupposti che rendono necessaria l'esecuzione di provvedimenti di bonifica, ma è altrettanto vero che il reato di cui all'art. 452-terdecies punisce l'inosservanza di un provvedimento del giudice o dell'Autorità ed ha una struttura, tipica del reato formale, per cui gli spazi per discutere la legittimità del provvedimento amministrativo sono molto angusti se non addirittura preclusi, come avverrebbe, ad esempio, a fronte di un obbligo di ripristino impartito dal giudice penale con sentenza passata in giudicato (art. 452-duodecies).

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