Prescrizione del reato

Luca Della Ragione
15 Luglio 2015

La prescrizione, disciplinata dagli artt. 157 – 161 c.p., è una delle cause generali di estinzione del reato; trova il suo fondamento sul venir meno dell'interesse dello Stato alla punizione del reo dopo un determinato lasso di tempo, commisurato, nel rispetto del principio di stretta legalità, alla gravità del reato, e, di conseguenza, alle funzioni di orientamento culturale del diritto penale nonché al finalismo rieducativo della pena...
Inquadramento

La prescrizione, disciplinata dagli artt. 157 – 161 c.p., è una delle cause generali di estinzione del reato; trova il suo tradizionale fondamento nel venir meno dell'interesse dello Stato alla punizione del reo dopo un determinato lasso di tempo, commisurato alla gravità del reato, e, di conseguenza, nella funzione di orientamento culturale del diritto penale oltre che nel finalismo rieducativo della pena (artt. 13, 25, comma 2 e 27 comma 3 Cost.) . Mira inoltre ad assicurare la “durata ragionevole” del processo penale (artt. 6 Cedu e 111, comma 2, Cost.).

La prescrizione, muovendosi a cavallo tra tutela della società e salvaguardia delle garanzie per i singoli, è fra i temi attualmente più tormentati, sul piano tecnico-giuridico e su quello della tutela multilivello dei diritti: un settore caldo ove spesso i diritti individuali dei singoli vengono sacrificati per evitare la sconfitta della società e dello Stato, con conseguente vittoria dei delinquenti.

È tuttavia innegabile che i risvolti negativi della prescrizione dovrebbero essere combattuti con un intervento strutturale e sintonico con i principi costituzionali che fondano il sistema complessivo di giustizia penale, in un'ottica di razionalità strumentale rispetto alla strategia penalistica ad orientamento costituzionale, a sua volta funzionale alla valorizzazione delle garanzie individuali, e non mediante interventi estemporanei ed emergenziali che intervengono sul farmaco (la prescrizione) e non sulla malattia (la lunghezza cronica dei processi).

Sotto tale aspetto, la disciplina della prescrizione, pur relegata istituzionalmente tra le cause di estinzione del reato e della pena, contribuisce a definire le linee di fondo del sistema penale.

Del resto, se ci interroga sui cardini essenziali del diritto penale, non si può non riconoscere come il principio di stretta legalità, con la articolazione dei suoi vari aspetti (dalla riserva di legge alla determinatezza/tassatività; dal divieto di analogia alla irretroattività delle norme penali sfavorevoli all'imputato), fissi una chiara linea di demarcazione: lo Stato non può punire comunque; può punire a determinate condizioni, addirittura sfavorevoli per il potere politico e invece garantiste per le libertà del cittadino.

Su queste basi, in uno stato liberale e democratico, lo Stato non può tenere sotto scacco (e, tendenzialmente, sotto ricatto) il cittadino; viceversa, in uno Stato autoritario, il suddito è sempre nelle mani del potere, che può decidere di tenerlo in sospeso sine die.

In breve, in una dimensione liberale ci si dovrebbe distaccare da un'ottica miope degli interessi di parte e della contingenza, per sposare una visione lungimirante, di sistema, espressa nelle forme e con il metodo dialettico propri della legge parlamentare, non già mediante opzioni interpretative asistematiche, sia pur provenienti da una Corte europea. L'accento sull'esigenza di ‘sistematicità' non risponde all'aspirazione dogmatica di una ordinata “disposizione dei mobili nella stanza” dell'edificio penale, bensì alla corrispondenza biunivoca tra sistematicitàe uguaglianza strumentale alle funzioni della pena, della quale la prima è garante.

La natura della prescrizione

Prima di analizzarne i profili operativi, è opportuno inquadrare la disciplina della prescrizione nell'ambito complessivo del sistema di giustizia penale, al fine di comprendere se si tratti di materia ‘istituzionale' di carattere sostanziale o processuale.

Ed invero, la risposta in ordine all'interrogativo sulla natura sostanziale o processuale della prescrizione appare fondamentale al fine dell'inquadramento nel relativo contesto dei principi normativi sovraordinati di riferimento.

Basti pensare che l'attrazione al diritto penale sostanziale comporterebbe il necessario rispetto del principio costituzionale di stretta legalità e di tutti i suoi sotto-corollari ex art. 25, comma 2 Cost, con conseguente assunzione degli scopi positivo/integratrici della pena costituzionalmente presidiati secondo scansioni di tipo struttural/funzionalistico (V. Maiello, Prove di resilienza del nullum crimen: Taricco versus controlimiti, in Cass. pen., 2016, 1250 ss.; sia consentito il rinvio a L. Della Ragione, La nuova disciplina della prescrizione, in G. Spangher ( a cura di ), La riforma Orlando, Pisa, 2017, 69 ss.) a fondamento del sistema penale, dei suoi principi di riferimento e delle stesse categorie dommatiche aventi funzione esplicativa dei presupposti della punibilità.

Basti pensare che la natura processuale della prescrizione consentirebbe l'applicazione del principio del tempus regit actum, mentre la natura sostanziale imporrebbe l'applicazione della lex mitior regel, al cui fondamento vanno collocate le funzioni di prevenzione/integrazione della pena.

Vale altresì la pena di ricordare che la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Grande Sezione) di Lussemburgo, Taricco, 8 settembre 2015 (adesivo in dottrina F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 3/2013, 27 ss., e ivi per ulteriori riferimenti; Id., La nuova disciplina della prescrizione del reato: la montagna partorì un topolino?, in Dir. pen. proc., 2017, 1289 ss., secondo cui la disciplina della prescrizione avrebbe natura sostanziale prima dell'esercizio dell'azione penale, assumendo invece natura processuale dopo l'attivazione della pretesa punitiva; con la conseguenza che la disciplina dell'interruzione della prescrizione sarebbe attratta nella logica del processo, e dunque sottratta alla garanzia dell'art. 25, comma 2, Cost.) pareva optare per l'attrazione della prescrizione nell'alveo delle disposizioni processuali, mediante previsione di un'efficacia estintiva del procedimento penale, non già del reato, e di una sospensione del suo corso coincidente con l'esercizio dell'azione penale.

Opzione tuttavia contraddetta espressamente dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ritenuto coperti dalla garanzia della riserva di legge tutti gli “aspetti inerenti alla punibilità”, “fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi” (Corte cost., n. 324 del 2008; Corte cost., 28 maggio 2014, n. 143; Corte cost. n. 45/2015; anche nella vicenda Taricco, Corte cost. ordinanza n. 24/2017, ha riconosciuto la natura sostanziale della prescrizione in quanto “istituto che incide sulla punibilità della persona”, e la conseguente soggezione del “regime legale della prescrizione (…) al principio di legalità in materia penale”; da ultimo l'impostazione è confermata da Corte Cost. 10 aprile 2018, n. 115).

Nella medesima vicenda Taricco, con la sentenza cd. Taricco II (Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Grande Sezione, sent. 5 dicembre 2017, causa C-42/17), è stata ribadita la significatività, anche in proiezione sovranazionale, del nucleo duro del principio di stretta legalità penale, sub specie prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile, ricollegandolo agli artt. 49e 51 della Carta, alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e all'art. 7, § 1 CEDU; è stata riconosciuta, in assenza di alcuna armonizzazione sul punto, la natura sostanziale nel nostro ordinamento dell'istituto della prescrizione e la sua conseguente sottoposizione alle garanzie del principio di legalità (quantomeno con riferimento alla data dei fatti di cui al procedimento principale), conformemente alla nostra tradizione penalistica ed alla costante giurisprudenza costituzionale.

Dunque, la prescrizione deve rientrare, secondo le scansioni argomentative della Corte Costituzionale e da ultimo della Corte di Giustizia, nell'ambito dei presupposti e delle condizioni della punibilità, ed in ragione di tale dimensione ne viene affermata la natura sostanziale, con conseguente riconoscimento della garanzia dell'irretroattività.

Del resto, “ove, invero, la relazione tra reato e pena si sviluppasse secondo automatismi irrefragabili ed in una prospettiva nella quale il processo mai avrebbe potuto frapporre alla punibilità edittale del reato accertato il raggiungimento di proprie, specifiche finalità, la prescrizione avrebbe dovuto considerarsi, coerentemente, appannaggio di una logica interna all'universo della procedibilità” (V. Maiello, Op. cit., 1250 ss.). “La funzionalità dei meccanismi di non punibilità – vuoi riguardo al piano della efficienza, vuoi rispetto alla loro proiezione garantistico-individuale – dipende anche dalla stabilità della disciplina in materia di tempi di prescrizione e, correlativamente, dall'affidamento ragionevole che su di essa abbiano riposto i soggetti titolari del diritto di fruirne, e cioè gli imputati” (V. Maiello, Op. cit., 1250 ss.).

In chiave realistica, invero, l'allungamento dei termini di prescrizione mette sotto scacco il diritto del singolo di beneficiare dei vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti speciali, con implicazioni pregiudizievoli sul principio di uguaglianza e sulla dimensione di giustizia del trattamento sanzionatorio.

A soffrirne, sarebbero le più generali istanze e funzioni politico-criminali destinate a travolgere – unitamente al principio di uguaglianza, a quello personalistico ed al fascio di tutela che ruota intorno alla libertà individuale – la connotazione contrattualistica della fattispecie penale di garanzia; in sostanza, la dimensione di complessiva informazione su tutti i presupposti della punibilità (V. Maiello, Op. cit., 1250 ss.).

I termini di prescrizione dei reati

La prescrizione opera in difetto di una sentenza passata in giudicato, estinguendo la punibilità in astratto del reato entro un termine attualmente corrispondente al massimo della pena edittale prevista dalla legge e comunque non inferiore a sei anni per i delitti e quattro anni per le contravvenzioni (in entrambi i casi, anche se puniti con la sola pena pecuniaria).

I reati puniti con l'ergastolo (anche se come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti) sono imprescrittibili (art. 157, comma 8,c.p.).

Per determinare i termini eventualmente superiori a quelli minimi:

si tiene conto della sola pena edittale detentiva (anche se congiunta alla pena pecuniaria) ed in particolare del massimo della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato (operando, in quest'ultimo caso, sulla pena editale massima prevista per la corrispondente ipotesi consumata, la riduzione minima di un terzo);

si opera su di essa l'aumento massimo previsto per le sole aggravanti ad effetto o ad efficacia speciale (in caso di concorso di più di tali aggravanti, si procederà, in applicazione della disciplina dettata dall'art. 63, comma 4, c.p., computando l'aumento di pena previsto per la circostanza aggravante più grave, ed operando un successivo aumento nella misura massima consentita dalla predetta disposizione, pari ad un terzo: Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 32656/2014).

In evidenza

Ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, le circostanze cosiddette indipendenti che comportano un aumento di pena non superiore a un terzo (nella specie, quella di cui all'articolo 609- ter, comma 1, del Cp) non rientrano nella categoria delle circostanze a effetto speciale ex articolo 63, comma 3, del Cp, perché in tale categoria sono ricomprese espressamente solo le circostanze che aumentano quantitativamente la pena in misura superiore a un terzo. Per l'effetto, tali circostanze non possono essere considerate ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere, perché l'articolo 157, comma 2, del Cp a tal fine attribuisce rilievo alle sole circostanze a effetto speciale (Cass. pen., Sez. Un., 27/04/2017, n.28953).

In evidenza

Per la determinazione del termine di prescrizione si tiene conto delle forme di recidiva (art. 99 c.p.) che comportano un aumento massimo di pena superiore alla misura ordinaria di un terzo (ai sensi dell'art. 63, comma 3, c.p., infatti, sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo).

Si è, ad esempio, evidenziato che la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale (art. 99, comma 4, c.p.) è circostanza aggravante a effetto speciale e rileva ai fini della determinazione del tempo necessario alla prescrizione del reato (Cass. pen., Sez. V, 7 giugno 2010, n. 35852).

Questa disciplina non viola l'art. 3 Cost. (non sussistendo uguaglianza di situazioni tra il soggetto incensurato e colui che, invece, abbia riportato precedenti condanne e sia incolpato di un nuovo delitto) né l'art. 111 Cost. (in quanto non è irragionevole che la durata del processo abbia termini più lunghi per l'imputato recidivo rispetto a quelli previsti per eventuali coimputati non recidivi) (Cass. pen., Sez. V, 24 marzo 2009, n. 22619).

La recidiva computabile deve essere dichiarata nel giudizio di merito e riguardare reati anteriori rispetto a quello della cui estinzione si tratta (argomenta da Cass. pen., Sez. I, 24 giugno 2009, n. 29856, in tema di prescrizione della pena).

Non deve, peraltro, tenersi conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato, dell'aumento di pena collegato:

  • ad una recidiva non contestata (Cass. pen., Sez. II, 5 aprile 2011, n. 14248);
  • ad una recidiva contestata dopo che il termine di prescrizione relativo al reato in forma non aggravata dalla recidiva sia interamente decorso (Cass. pen., Sez. III, 30 gennaio 2014, n. 14439);
  • ad una recidiva facoltativa, esclusa, anche implicitamente, dal giudice perché non ritenuta in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell'imputato (Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2012, n. 2090). Deve, peraltro, ritenersi non esclusa la recidiva facoltativa che, pur non avendo comportato un aumento di pena, sia stata bilanciata, con giudizio di equivalenza (Cass. pen., Sez. unite, n. 31669/2016) o anche di subvalenza, quando consentito (Cass. pen., Sez. VII, n. 15681/2017), con le attenuanti concorrenti; la Cassazione ha, talora, affermato che deve considerarsi ritenuta ed applicata la recidiva valorizzata soltanto per escludere la concessione delle attenuanti generiche, pur senza procedere in sentenza ad alcun aumento di pena (Cass. pen., Sez. II, 18 giugno 2013, n. 35805).

Diversamente da quanto accadeva in precedenza, non va più attribuito rilievo né alle altre aggravanti “ordinarie”, né alle circostanze attenuanti di qualunque natura.

In evidenza

Un

errore molto frequente

tra gli operatori del diritto, a qualunque livello, consiste nel calcolare il termine di prescrizione della

ricettazione di particolare tenuità (art. 648, comma 2, c.p.)

facendo riferimento alla pena per essa prevista (pari, nel massimo, ad anni sei di reclusione): detta fattispecie, in realtà, costituisce mera circostanza attenuante speciale, non ipotesi autonoma di reato (

Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2013,

n. 4032

), e di essa non deve, pertanto, tenersi conto ai fini

de quibus

, con la conseguenza che il termine di prescrizione va calcolato sempre in riferimento alla pena edittale massima prevista per la ricettazione–base (anni otto di reclusione)

In virtù della ritenuta irrilevanza, sempre e comunque, delle circostanze attenuanti, non dovrà, inoltre, procedersi al “bilanciamento” ex art. 69 c.p.: il legislatore ha inteso, in tal modo, apprezzabilmente, ridurre l'alea dell'influsso delle circostanze (e delle relative valutazioni che, nelle diverse fasi del giudizio, potevano divergere) sulla determinazione del termine di prescrizione (“in quanto tempo si prescrive un dato reato deve potersi dire con certezza sin dal momento della sua commissione”: Padovani, Diritto penale, Giuffrè, 2006, 34).

L'art. 157, comma 6, c.p. prevede il raddoppio dei predetti termini (cd. prescrizione rinforzata):

  • per i reati previsti dagli artt. 375, comma 3, 449 e 589, commi 2 e 3, 589-bis c.p.;
  • per i reati indicati dall'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. (ovvero quelli rientranti fra le attribuzioni del procuratore della Repubblica distrettuale);
  • per i reati di cui al Titolo VI-bis del libro secondo (artt. 452-bis a 452-terdecies); per il reato di cui all'art. 572 c.p.;
  • per i reati di cui agli artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies c.p., salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell'art. 609-bis ovvero dal quarto comma dell'art. 609-quater.

Il novero dei reati per i quali è previsto il raddoppio del termine-base di prescrizione è stato oggetto di plurimi interventi additivi del legislatore.

La ratio della previsione — di carattere eccezionale rispetto alle regole ordinarie di computo del termine prescrizionale — va individuata nel fatto oggettivo di esser qui previste fattispecie di reato che normalmente postulano lo svolgimento di indagini estremamente lunghe e complesse. Il risultato è che — appunto mediante il raddoppio dei termini — si ottengono effettivamente tempi di prescrizione estremamente dilatati.

In evidenza

La Corte costituzionale, con sentenza 19 – 28 maggio 2014, n. 143, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, comma 6, c.p.nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo sono raddoppiati per il reato di incendio colposo (art. 449 c.p.), per violazione dell'art. 3 Cost.in riferimento al reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), per il quale il raddoppio dei predetti termini non è previsto.

Per i reati puniti con pene diverse da quelle detentive o pecuniarie il termine di prescrizione è pari a tre anni (art. 157, comma 5, c.p.)

In evidenza

Il termine di prescrizione da applicare ai reati di competenza del giudice di pace è quello ordinario determinabile ai sensi dell'art. 157, comma 1, c.p., non quello di tre anni previsto dall'art. 157, comma 5, c.p., in relazione ai reati per i quali la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, a nulla rilevando la circostanza che nel procedimento dinanzi al predetto giudice possano essere irrogate solo le pene pecuniarie vigenti, se esclusive, ovvero quelle paradetentive della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità in sostituzione di quelle detentive, sole o congiunte a pene pecuniarie, in quanto le citate sanzioni paradetentive sono considerate per ogni effetto giuridico come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria. Il termine previsto dall'art. 157, comma 5, è applicabile ad ipotesi di sanzioni non rinvenibili nell'attuale sistema delle pene (Corte cost., 14 - 18 gennaio 2008, n. 2; Cass. pen., Sez. IV, 22 febbraio 2008, n. 13966).

La rinunzia alla prescrizione

La prescrizione è espressamente rinunziabile (art. 157, comma 7, c.p.) ma il diritto di rinuncia può essere esercitato solamente dopo che la prescrizione sia maturata (e prima che sia stata dichiarata), in quanto solo da quel momento l'interessato può valutarne gli effetti (Cass. pen., Sez. II, 14 novembre 2003, n. 3900). La rinunzia è un diritto personalissimo dell'imputato e non rientra quindi tra gli atti che possono essere compiuti in sua vece dal difensore ex art. 99 c.p.p., in difetto di procura speciale; essa richiede una volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti.

In evidenza

La giurisprudenza, superato il contrasto in precedenza esistente, ritiene attualmente che né la richiesta di applicazione della pena ex artt. 444 ss. c.p.p. da parte dell'imputato, né il consenso prestato dal pubblico ministero alla richiesta della controparte possono valere come rinuncia alla prescrizione, in quanto l'art. 157,comma 7, c.p. richiede per la rinunzia alla prescrizione la forma espressa, e non ammette equipollenti (Cass. pen., Sez. un., n. 18953/2016

,

con la precisazione che, qualora il giudice non rilevi l'intervenuta prescrizione ex art. 129 c.p.p., l'errore può essere dedotto con ricorso in cassazione).

La decorrenza del termine di prescrizione

Il termine di prescrizione decorre dalla data della consumazione del reato (anche se punibile a querela, richiesta, istanza).

Ai sensi dell'art. 158 c.p., esso decorre:

  • per il delitto tentato, dalla data di cessazione dell'attività del colpevole;
  • per il reato permanente, dalla data della cessazione della permanenza;
  • per il reato condizionato, dalla data in cui la condizione si è verificata.

Nulla si prevede per il reato abituale, per il quale tuttavia il termine deve necessariamente farsi decorrere dalla data in cui abbia avuto luogo l'ultima delle condotte “abituali”.

Per il reato continuato, prima della recente riforma operata con la legge n. 3/2019 (cd. “spazza-corrotti”), l'art. 158 c.p. (come modificato dalla l. 251/2005) non prevedeva più la decorrenza dal momento della cessazione della continuazione, con il risultato che il termine decorre ordinariamente, per ciascuno dei reati, dal giorno della consumazione.

Sennonchè, la legge n. 3/2019 (cd. “spazza-corrotti”) ha di recente sostituito il primo comma dell'art. 158 c.p. con il seguente: «il termine della prescrizione decorre per il reato consumato dal giorno della consumazione per il reato tentato dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole; per il reato permanente o continuato dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione».

La fissazione, in caso di continuazione, del tempus commissi delicti, al momento della cessazione della continuazione si confronta con la nota elasticità dei criteri giurisprudenziali nella identificazione del medesimo disegno criminoso.

Il novum rischia di consentire una eccessiva discrezionalità nel portare comunque in avanti il dies a quo del termine prescrizionale.

Senza considerare che tale individuazione del tempus commissi delicti si colloca in controtendenza con l'orientamento dottrinale secondo il quale il reato continuato va considerato unico o plurimo in modo da farne derivare effetti favorevoli al reo.

La riforma, per contro, considera il reato continuato come unico al fine di spostare in avanti il termine di prescrizione anche di fatti molto datati, con effetti evidentemente sfavorevoli al reo ed avallati dalla già citata tendenza giurisprudenziale a maneggiare con elasticità il medesimo disegno criminoso.

L'esito è, in definitiva, di spostare in avanti il momento in cui il reato si prescrive, affidando così all'istituto del reato continuato — che dovrebbe invece ispirarsi al favor rei — un possibile strumento per evitare la prescrizione del reato.

Ragioni imposte dal divieto costituzionale di incriminazione retroattiva (occulta) impongono di applicare la modifica normativa, in quanto più sfavorevole, sono per fatti da porre in continuazione successivi al 1 gennaio del 2020, pena l'applicazione del novum a fatti ormai prescritti che non potrebbero rivivere per effetto della continuazione.

Va anche ricordato che a seguito della legge n. 103/2017 (cd. riforma “Orlando”), nel caso in cui il reato sia “commesso nei confronti di un minore” e rientri nel novero di quelli previsti dall'art. 392, comma 1-bis, c.p.p. la prescrizione decorrerà, o dal compimento del diciottesimo anno della persona offesa, ovvero, nel caso in cui prima d'allora sia stata esercitata l'azione penale, dalla data di acquisizione della notizia di reato. Si tratta di una serie di gravi reati offensivi di beni fondamentali quali la personalità e la libertà e integrità sessuale: maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), tratta di persone (artt. 600, 601 e 602 c.p.), sfruttamento sessuale di minori (artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1, 600-quinquies c.p.) e violenza sessuale (artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies c.p.) e stalking (art. 612-bis c.p.).

Pur evidenziando la comprensibile ratio della riforma, di ispirazione sovranazionale (la c.d. Convenzione di Instanbul - Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), la soluzione si espone nondimeno a qualche rilievo, anche di costituzionalità.

Il ricorso alla tecnica del rinvio rende la disposizione riferibile anche a reati che, per definizione, non possono includere il minore tra le persone offese, come nel caso dell'art. 600-quinquies c.p. che punisce l'organizzazione di per sé di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile.

Ancora, desta perplessità la decisione di riferirsi − in alternativa al compimento dei diciotto anni della persona offesa − alla data di acquisizione della notitia criminis quale termine di decorrenza della prescrizione solo se prima del compimento della maggiore età l'azione penale è stata esercitata (D. Micheletti, Il progetto di riforma della prescrizione (d.d.l. n. 4369 approvato dalla camera dei deputati il 15 marzo 2017), in Parola alla difesa, n. 3, 2017, 277).

In dottrina, si è affermato che sarebbe stato preferibile fissare il termine di decorrenza della prescrizione concernente i reati su minori, o al compimento della maggiore età, oppure, se più favorevole all'imputato, alla data di acquisizione della notizia di reato indipendentemente dal momento in cui l'azione penale è stata poi esercitata (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

È stato altresì affermato che è possibile dubitare delle legittimità costituzionale di questo genere di intervento sulla prescrizione c.d. sostanziale, in cui si cumula, da un lato, con il vigente raddoppio dei termini prescrizionali sancito all'art. 157, comma 6, c.p. proprio in ordine, tra gli altri, ai delitti presi in considerazione dalla riforma “Orlando”, con la sola significativa eccezione di quello di atti persecutori (D. Bianchi, La prescrizione riformata. Cenni di processualizzazione e modifiche settoriali, in Giur. it., 2017, 2239 ss.), e, dall'altro lato, con le nuove cause sospensive (che possono comportare una ulteriore espansione dei termini prescrizionali fino a tre anni; senza poi contare che i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.), tratta di persone (art. 601 c.p.) e acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.) sono già di fatto imprescrittibili ex art. 161, comma secondo, c.p.).

Viene così sacrificata l'esigenza che l'intervento penale non abbia luogo ad una distanza eccessiva dal fatto, con conseguente applicazione della pena in un momento successivo a quello in cui per ragioni di motivabilità secondo norme dovrebbe essere applicata ad un soggetto, peraltro, che è una persona diversa da quella che ha commesso il fatto e sulla quale può divenire inefficace o inutile l'offerta di recupero sociale avanzata dallo Stato. Senza considerare le difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto medesimo e correlativi ostacoli all'esercizio del diritto di difesa da parte dell'imputato presunto innocente sino all'accertamento definitivo della sua colpevolezza e che, comunque, ha diritto ad esser giudicato in tempi ragionevoli.

In evidenza

Se la determinazione del tempus commissi delicti e quindi dell'inizio della decorrenza del termine di prescrizione risulta incerta, il termine va computato nel modo che risulti più favorevole per l'imputato, posto che il principio in dubio pro reo trova applicazione anche in tema di cause di estinzione del reato (Cass. pen., Sez. III, 17 ottobre 2007, n. 1182).

La sospensione del termine di prescrizione

Il termine di prescrizione resta sospeso (ovvero non decorre) nei casi tassativamente indicati dall'art. 159, comma 1, c.p.:

  • autorizzazione a procedere: artt. 343 e 344 c.p.p.;
  • questioni pregiudiziali di stato, ovvero civili od amministrative: rispettivamente, artt. 3 e 479 c.p.p.; casi in cui la sospensione del procedimento penale sia imposta da una particolare disposizione di legge: si pensi, ad es., alle sospensioni connesse a provvedimenti di condono, edilizio o tributario, limitatamente al tempo concesso per la regolarizzazione, ovvero alla sospensione del processo in pendenza della richiesta di rimessione: art. 47, comma 4, c.p.p.;
  • in ogni caso in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare sia imposta da una particolare disposizione di legge;
  • in caso di sospensione del procedimento penale ai sensi dell'art. 420-quater c.p.p.

La l. 251/2005 ha aggiunto alla norma l'espressa previsione di quanto già in via interpretativa desunto in giurisprudenza (Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2001, n. 1021 e 24 novembre 2003, n. 47289), ovvero che la prescrizione è, inoltre, sospesa nei casi di “sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore”, e quindi anche nel caso in cui il difensore aderisca all'astensione collettiva dalle udienze proclamata dall'associazione di categoria.

La norma legittima la sospensione anche nei casi in cui la richiesta di rinvio del difensore sia dovuta al riconoscimento di un termine a difesa, che la giurisprudenza in precedenza escludeva.

Per quanto riguarda l'entità della sospensione della prescrizione, in caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, si è previsto che “l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni”; questo termine non si applica ai casi di sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato (art. 71, commi 1 e 5, c.p.p.).

La prescrizione “riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione” (art. 159, comma 3, c.p.).

Per una serie di reati di particolare gravità (tra gli altri, artt. 422, 428, 429, 575, 605, 628, 629, 630 c.p.; artt. 1-4, 6, 7 l. 895/1967; art. 9 l. 1423/1956) l'art. 16 l. 152/1975 prevede che la prescrizione resti sospesa, tra l'altro, durante la latitanza dell'imputato, e durante il rinvio, chiesto dall'imputato o dal suo difensore, di un atto di istruzione o del dibattimento, e per tutto il tempo del rinvio.

La legge 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando) è intervenuta sulle cause di sospensione della prescrizione, con una efficacia temporale che va dall'entrata in vigore della legge n. 103/2017 al 1.1.2010 (data di entrata in vigore della legge n. 3/2019, su cui infra paragrafo 7). In particolare, hanno subito un semplice restyling le ipotesi previste dai nn. 1 e 2 dell'art. 159, comma 1, c.p., mentre sono state introdotte due nuove ipotesi di sospensione concernenti, la prima, le rogatorie all'estero (n. 3-ter) nonché, al comma 2 dell'art. 159 c.p., le impugnazioni proposte dal condannato in primo o secondo grado.

In primo luogo, si provvede al restyling dell'ipotesi di autorizzazione a procedere, trasfondendo nel n. 1 del primo comma dell'art. 159 c.p. la disciplina prima contenuta nel comma secondo (oggetto di consequenziale abrogazione), secondo cui la sospensione della prescrizione opera dalla presentazione della richiesta da parte del pubblico ministero sino al giorno in cui l'autorità competente l'accoglie (restando però dubbia la regula iuris per i casi di rigetto della richiesta d'autorizzazione a procedere). L'inciso finale aggiunto nel n. 1 - a tenore del quale in caso di autorizzazione di procedere la prescrizione resta sospesa dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino a giorno in cui l'autorità competente la accoglie - è invece privo di contenuto innovativo, dal momento che la previsione riproduce quella già contenuta nel comma 2 dell'art. 159 c.p., abrogato dalla novella (cfr. comma 11, lett. c).

In secondo luogo, si precisa che in ipotesi di deferimento della questione ad altro giudizio la prescrizione è sospesa “sino al giorno in cui viene decisa la questione” (frase aggiunta al n. 2 del primo comma dell'art. 159 c.p.) da parte della diversa autorità giudiziaria. La precisazione è opportuna sia perché respinge l'orientamento di coloro che, in mancanza di precedenti indicazioni puntuali, ritenevano che la sospensione s'interrompesse solo nel giorno in cui gli "atti sono restituiti" al giudice remittente (Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2012, n. 7553), sia perché chiarisce che la prescrizione riprende a decorre dalla data in cui "la questione è decisa" anziché da quella in cui è depositata la relativa motivazione (in tal senso anche Cass. pen., sez. VI, 22 giugno 2016, n. 38757); fermo restando che il termine iniziale della causa sospensiva è dato dalla definitività dell'ordinanza con cui il giudice penale ha disposto la sospensione del processo (o del procedimento) e che questi, decorso un anno, può sempre revocare tale ordinanza, con conseguente ripresa del corso della prescrizione anche se la questione non sia stata ancora definita dal giudice civile o amministrativo. L'art. 479, comma 3, c.p.p., infatti, non è stato toccato dalla riforma e deve intendersi prevalente rispetto alla norma generale di nuova introduzione, che prima facie sembrerebbe pretendere una sospensione della prescrizione seccamente perdurante fino alla definizione della questione pregiudiziale, a prescindere dall'esercizio del potere di revoca conferito al giudice penale da tale disposizione.

Di dubbia ragionevolezza e compatibilità costituzionale è l'introduzione della nuova causa di sospensione dipendente dalla esecuzione di una rogatoria internazionale (art. 727 ss. c.p.p.), nel qual caso, secondo il nuovo n. 3-ter dell'art. 159 c.p., la prescrizione rimane sospesa dalla data del provvedimento che dispone la rogatoria sino al giorno in cui l'autorità richiedente riceve la documentazione senza però che si possano mai superare i sei mesi. L'intento è chiaramente quello di bloccare la il decorso della prescrizione nel periodo in cui l'autorità giudiziaria italiana non è in grado di gestire autonomamente l'attività processuale da compiere. L'indagato/imputato finisce invero per subire un trattamento prescrizionale deteriore in ragione di una decisione che non gli può essere attribuita, con conseguente violazione delle sue garanzie individuali sottese alla prescrizione come sopra individuate.

Sarebbe stato poi opportuno che il testo della novella facesse qui riferimento – anziché alla “rogatoria all'estero” – alla “domanda di assistenza giudiziaria internazionale”, così aggiornando la terminologia ai cambiamenti nel frattempo intervenuti sul versante processualpenalistico.

Quanto all'interrogatorio reso alla polizia giudiziaria, la necessità della sua previsione espressa si impone in ossequio alla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U. 11 luglio 2001 - dep. 11 settembre 2001 , n. 33543), la quale, nel rispetto del divieto di analogia in malam partem – dopo aver precisato che l'elenco degli atti interruttivi della prescrizione, contenuto all'art. 160 c.p., è tassativo – aveva in passato escluso l'idoneità di siffatto interrogatorio ad interrompere la prescrizione

Il cuore della legge n. 103/2017 è rappresentato dalle nuove cause di sospensione previste dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 159 c.p.

Dopo il primo comma dell'art. 159 c.p. (che elenca i casi – tassativi – di sospensione della prescrizione) sono inseriti tre commi che rivoluzionano l'assetto ed anche il senso delle cause sospensive: “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; 2) dal termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi.

Ai sensi del nuovo comma 2, anzitutto, il corso della prescrizione rimane sospeso - oltre che nei casi previsti dal comma 1 - per tutto il tempo intercorrente tra a) il termine previsto dall'art. 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo (n. 1) o di secondo grado (n. 2), anche se emesse in sede di rinvio, e b) la pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, e comunque per un periodo non superiore a un anno e sei mesi.

Come rilevato in dottrina (F. Viganò, La nuova disciplina della prescrizione del reato:la montagna partorì un topolino?, cit., 1289 ss.), la disposizione non è di immediata intelligibilità e pertanto è necessario procedere per gradi nella sua esegesi.

L'effetto sospensivo è letteralmente ancorato, per la legge n. 103/2017, alle sole sentenze di condanna, con esclusione di quelle di assoluzione, di proscioglimento o di annullamento.

Il dies a quo della sospensione è individuato dal legislatore non già in quello della pronuncia della sentenza di condanna, né in quello dell'(effettivo) deposito delle motivazioni, bensì in quello della scadenza del termine di legge fissato dall'art. 544 c.p.p. per il deposito stesso, indipendentemente dalla circostanza che il termine sia stato in concreto rispettato dal giudice.

La causa sospensiva potrà così operare a partire dal giorno stesso della pronuncia della sentenza di condanna, nei casi di motivazione contestuale (art. 544, comma 1, c.p.p.); dal quindicesimo giorno dalla pronuncia nei casi ordinari disciplinati dall'art. 544, comma 2, c.p.p.; dal novantesimo giorno dalla pronuncia nei casi in cui tale termine sia stato indicato in dispositivo ai sensi dell'art. 544, comma 3, c.p.p.; ovvero dal centottantesimo giorno dalla pronuncia, nei casi particolari indicati dall'art. 544, comma 3 bis, c.p.p.

Nulla il legislatore ha invece previsto per l'ipotesi, disciplinata dall'art. 154, comma 4 bis, disp. att. c.p.p., in cui il termine di cui all'art. 544, comma 3, c.p.p. sia stato prorogato con provvedimento del presidente della corte d'appello o del tribunale; di talché dovrà ritenersi che la sospensione decorra anche in quel caso dalla scadenza del novantesimo giorno dalla pronuncia della sentenza, ogni estensione analogica della disciplina dell'art. 159 c.p. risultando qui preclusa in quanto in malam partem (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Il dies ad quem della sospensione dovrà invece essere identificato, di regola, nel giorno della pronuncia della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio: e cioè la sentenza della corte d'appello successiva alla condanna di primo grado, o la sentenza di cassazione successiva alla sentenza di condanna pronunciata in appello. Resterà salvo naturalmente l'avvio di un nuovo e distinto periodo di sospensione, nel caso di sentenza d'appello confermativa della sentenza di primo grado (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Il periodo di sospensione cesserà, comunque, un anno e mezzo dopo la scadenza del termine di cui all'art. 544 c.p.p., qualora entro tale termine non sia ancora intervenuta la sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, con conseguente ripresa - anche in questo caso - del corso delle nostre ideali lancette. L'ipotesi è formalmente prevista dal legislatore come residuale, ma sarà quella certamente destinata a verificarsi più frequentemente nella prassi, il termine di un anno e mezzo apparendo certamente inadeguato (quanto meno) a consentire la celebrazione della stragrande maggioranza dei procedimenti d'appello.

I periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha prosciolto l'imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all'accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell'articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale. Se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si verifica un'ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente”.

Come ben evidenziato in dottrina (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.), il senso complessivo dell'articolato normativo è nel senso che nell'ipotesi in cui il grado successivo di giudizio successivo a una sentenza di condanna si concluda invece in senso favorevole all'imputato quanto ai presupposti della sua responsabilità penale (e non solo quanto al trattamento sanzionatorio), il periodo di sospensione conseguito alla precedente condanna ai sensi del secondo comma verrà meno con efficacia, per così dire, retroattiva, e sarà così tamquam non esset: la prescrizione abbraccerà in tal caso l'intero periodo intercorso a partire dalla commissione del reato, salva ovviamente l'eventuale operatività delle cause di sospensione previste dal comma 1.

Una situazione particolarmente complessa si presenterà, allora, nell'ipotesi in cui al momento della definizione in senso favorevole all'imputato del grado di giudizio successivo a una sentenza di condanna il termine di prescrizione sia già completamente maturato, al netto del periodo di sospensione per effetto del meccanismo di cui al comma 3 appena descritto. Dal momento che “il presupposto del venir meno dell'effetto sospensivo della prescrizione connesso alla sentenza di condanna è rappresentato, nella valutazione legislativa, dal successivo proscioglimento dell'imputato (evidentemente per causa differente dalla prescrizione) ovvero dall'annullamento della precedente condanna, il giudice dovrà necessariamente esplicitare - quanto meno in motivazione - le ragioni della riforma nel merito o dell'annullamento della precedente sentenza di condanna, ragioni che si porranno come antecedente logico necessario del dispositivo di proscioglimento per intervenuta prescrizione per effetto, appunto, del peculiare meccanismo di cui all'art. 159, comma 3, c.p.” (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Quid iuris, poi, se la perdita retroattiva di efficacia della sospensione conseguente alla sentenza di condanna possa operare anche cumulativamente, con riferimento cioè alle due sospensioni conseguenti a una doppia condanna in primo e in secondo grado, allorché intervenga un annullamento in cassazione nella parte relativa all'affermazione di responsabilità dell'imputato.

Al quesito può essere data una risposta affermativa, sulla base dell'uso da parte del legislatore del plurale "i periodi di sospensione".

Piuttosto, come ben evidenziato in dottrina (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.), la soluzione legislativa appare incongrua - ma verosimilmente non rimediabile dall'interprete - nell'ipotesi in cui il giudice di secondo grado abbia riformato in senso favorevole all'imputato la prima sentenza di condanna, e la Cassazione intervenga a sua volta ad annullare con rinvio la sentenza di appello, riconoscendo così, almeno implicitamente, la correttezza della sentenza di condanna pronunciata in primo grado: per effetto della sentenza assolutoria di appello, il periodo di sospensione provvisoriamente conquistato dalla giurisdizione in seguito alla condanna di primo grado sarà, ormai, definitivamente perduto.

In buona sostanza, le cause di sospensione previste dal nuovo comma 2 in conseguenza delle sentenze di condanna potranno operare, ai fini del calcolo finale della prescrizione che dovrà essere compiuto al momento della sentenza definitiva, soltanto subordinatamente alla condizione che la pronuncia relativa alla responsabilità penale dell'imputato - pronunciata in primo o in secondo grado - non venga mai smentita da sentenze successive, le quali farebbero venire meno l'operatività delle sospensioni in precedenza (provvisoriamente) maturate (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Un ulteriore problema è che cosa accade quando la sentenza che definisce il grado di giudizio successivo a una sentenza di condanna si limiti a fornire del fatto una qualificazione giuridica diversa da quella posta alla base della sentenza di condanna, ovvero a escludere una o più circostanze aggravanti (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Fermo restando “che, ovviamente, il termine di prescrizione cui fare riferimento diverrà quello (eventualmente più breve) previsto in base all'art. 157 c.p. per il reato (circostanziato o non) di cui sia stata ritenuta la sussistenza, v'è da chiedersi se una simile pronuncia comporti anch'essa, ai sensi del nuovo comma 3 dell'art. 159 c.p., il venir meno della sospensione legata alla precedente sentenza di condanna. Una risposta in senso negativo appare tutto sommato agevole, già sulla base del dato testuale, nell'ipotesi di sentenza di appello che, in riforma della precedente condanna, riconosca comunque la responsabilità penale dell'imputato per un differente reato, tale sentenza non potendo essere qualificata come sentenza di "proscioglimento" né tanto meno di "annullamento” (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

L'effetto sospensivo provvisoriamente prodottosi verrà meno invece, “proprio sulla base del dato testuale della disposizione qui in commento, nell'ipotesi di annullamento da parte della Cassazione della condanna di merito, in ragione dell'erronea qualificazione giuridica dei fatti ai sensi di una fattispecie criminosa anziché di un'altra, ovvero dell'erroneo riconoscimento di una circostanza aggravante: una tale sentenza ha infatti la forma e la sostanza di un "annullamento" della precedente condanna, e di un annullamento che ha proprio ad oggetto - come recita la norma in commento - la "parte relativa all'accertamento della responsabilità" dell'imputato, e non già il mero trattamento sanzionatorio. E ciò anche laddove la sentenza di cassazione riconosca comunque nei fatti accertati gli estremi di un diverso reato, o di un reato non circostanziato, dal momento che la sua concreta punizione sarà necessariamente demandata al giudice del rinvio, al quale solo spetterà pronunciare una nuova pronuncia di condanna” (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.).

Nulla è previsto per i procedimenti speciali, come con la sentenza di patteggiamento. È infatti vero che quest'ultima è equiparata a una pronuncia di condanna dall'art. 445, comma 1-bis, c.p.p., ma il riferimento all'art. 544 c.p.p. da parte della nuova causa di sospensione interferisce però con la valenza di tale equiparazione nell'ambito dell'art. 159 c.p. (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.). Senza considerare che le dinamiche del patteggiamento possono rendere irragionevole l'operatività dell'effetto sospensivo, come nel caso di accordo inizialmente rigettato per incongruità della pena, ma successivamente concesso in termini retrospettivi.

Quanto invece al decreto penale di condanna, mancando una sua equiparazione alla sentenza di condanna, esso non dovrebbe comportare alcuna sospensione della prescrizione (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

D'altra parte, quand'anche si volesse ritenere il contrario, l'eventuale opposizione, comportando la revoca del decreto, determinerebbe il recupero del tempo forzatamente sospeso da chi volesse assoggettare anche questo procedimento speciale al nuovo art. 159 c.p. (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

La legge n. 103/2017 pare così accogliere in sostanza la distinzione tra prescrizione sostanziale (che definirebbe il c.d. tempo dell'oblio per ciascun fatto di reato) e prescrizione processuale (che invece mirerebbe a definire la ragionevole durata del processo una volta manifestatosi l'interesse punitivo dello Stato) che sta alla base dell'orientamento dottrinale in precedenza analizzato (F. Viganò, Op. ult. cit., 1289 ss.), dirigendosi verso un affrancamento dei tempi del processo dal tempo-limite entro cui l'episodio astrattamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice conserva una sua rilevanza effettiva per il magistero punitivo.

Difatti, una volta raggiunto il “traguardo” della condanna in primo grado, la prescrizione in buona sostanza arresta il suo corso fino alla pronuncia del provvedimento che definisce il grado successivo di giudizio e altrettanto si verifica in caso di condanna in appello e conseguente impugnazione (per F. Basile, La prescrizione che verrà, in Dir. pen. cont., 17 maggio 2017, la legge avrebbe dovuto fare riferimento anche alle sentenze di assoluzione, in quanto la necessità del tempo processuale per il successivo giudizio è la stessa, sia che venga impugnata una sentenza di condanna, sia che venga impugnata una sentenza assolutoria. Trascurando la sentenza assolutoria, per l'Autore la riforma introduce, quindi, un duplice rischio: che in caso di impugnazione di sentenza assolutoria si dia corso ad un'attività processuale più affrettata; che l'imputato, assolto nel merito in primo grado, sia poi prosciolto nel grado successivo per intervenuta prescrizione (con una sentenza, quindi, che non lo ‘riabilita' al cento per cento. Nello stesso senso cfr., ora, S. Aprile, Le modifiche alla disciplina della prescrizione, in C. Parodi (a cura di), Il penalista - Riforma Orlando: tutte le novità, 2017, 27).

Si tratterebbe, di una sorta di imprescrittibilità sopravvenuta con la condanna di primo grado, se non fosse che, per un verso, la prescrizione riprende a decorrere per il frangente temporale che va dal giorno dell'emanazione del dispositivo del secondo grado sino al termine stabilito per il deposito dei motivi, momenti che normalmente risultano sfalsati (essendo nella prassi eccezionali i casi di motivazione contestuale ovvero di deposito della motivazione nel termine di 15 giorni ex art. 544, comma secondo, c.p.p.).

Per altro verso, sono fissati dei “termini massimi di grado” – pari ad un anno e sei mesi sia per quello d'appello che per quello in Cassazione – che impediscono una sospensione a tempo indeterminato del corso della prescrizione, seppur tali ultimi termini non valgano a interrompere l'operatività di altre cause sospensive della prescrizione eventualmente concomitanti (per una critica a questa impostazione, cfr. F. Basile, Op. cit., secondo cui la sospensione di un anno e mezzo per il giudizio di impugnazione, soprattutto per l'appello, potrebbe risultare troppo breve per processi particolarmente complessi -si pensi a certi appelli con riapertura dell'attività istruttoria-, con conseguente permanere del rischio di una frustrazione, a seguito di prescrizione, dell'attività processuale fino a quel punto svolta; per contro, la sospensione di un anno e mezzo potrebbe risultare troppo lunga per processi di agevole trattazione, con conseguente vulnus all'esigenza di una ragionevole durata del processo).

Il quarto comma dell'art. 159 c.p. prevede espressamente il cumulo tra le cause sospensive di nuovo conio e le altre nell'eventualità di un loro concorso.

Tale meccanismo sospensivo, invero, si ispira a quelle concezioni dottrinali che tendono a distinguere prescrizione sostanziale e prescrizione processuale, slegando quest'ultima dalla gravità del fatto criminoso sub iudice per cadenzarla sugli sviluppi dell'iter processuale.

Ciò posto, una simile impostazione implica che le cause di sospensione -operanti appunto solo dopo che sia stata azionata la pretesa punitiva - non solo siano fronteggiate da termini massimi di fase volti ad impedire l'irragionevole protrazione del processo “ma anche che esse vadano a sostituire integralmente le cause interruttive, le quali, rivestendo un'intrinseca natura anfibia (sono integrate da atti del procedimento penale ma hanno come effetto quello di far ridecorrere da capo il tempo prescrizionale legato alla gravità del reato), non possono che inquinare la razionalità d'un sistema siffatto e contribuire in definitiva a compromettere la ragionevole durata del processo” (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.).

Si può poi osservare che una netta ripartizione tra tempo dell'oblio e tempo del processo, rischia di alimentare tensioni rispetto al paradigma ricostruttivo della prescrizione a partire dagli scopi costituzionali di prevenzione, generale e speciale, positiva, con conseguenti ulteriori rischi di questioni di costituzionalità costruite come segue.

Ed invero, talune delle ragioni fondamentali che sostanziano l'istituto della prescrizione sono indipendenti dal passaggio alla fase processuale ed anche a prescindere dall'emanazione di una sentenza di condanna (non definitiva): se è vero che, giunti a quest'ultima, si dissolve l'esigenza di tutelare l'imputato da difficoltà e impedimenti nell'esercizio del diritto di difesa (in particolare il diritto di difendersi provando) derivanti dalla risalenza del reato oggetto di prova, è anche vero che l'esigenza primaria di “prontezza della pena”, a sua volta espressione del già citato approccio struttural/funzionalista delineato dalla giurisprudenza costituzionale e dalla dottrina italiana più sensibile ai valori costituzionali, può esser soddisfatta solo ed esclusivamente dall'accertamento definitivo della responsabilità del reo in tempi (ragionevolmente) brevi.

In altri termini, l'irrogazione definitiva della pena dopo un considerevole lasso di tempo dalla consumazione del fatto di reato risulta non funzionale in un'ottica costituzionale (artt. 2, 3, 25, comma 2, 27, 111 Cost.) tanto general-preventiva positiva (motivabilità razionale secondo norme) quanto special-preventiva positiva (applicazione della pena ad un soggetto che è una persona diversa, per il trascorrere del tempo, rispetto a quella esistente al momento della commissione del fatto, con fallimento dell'offerta di recupero sociale che lo Stato dovrebbe avanzare con la applicazione della sanzione penale) indipendentemente dalla circostanza che in questa diastasi temporale sia stato attivato un processo penale.

In breve, il primato della tutela delle garanzie della persona, e del cittadino, intorno a cui la Carta repubblicana ricostruisce l'ordinamento, viene compresso nei confronti di una potestà punitiva statuale ingiustificatamente troppo prolungata nel tempo, se non addirittura indeterminata. Senza considerare che i nuovi meccanismi sembrano delineare la prescrizione non ‘in astratto', ma in funzione degli sviluppi dei singoli processi concreti, dando vita alla coesistenza di differenti regimi temporali di prescrizione del reato, legati ad elementi estrinseci e casuali, alimentando ancora l'opinione collettiva di un andamento non uniforme della giustizia penale, radicalmente incompatibile con ciò che i cittadini devono poter pensare delle istituzioni penali, affinché ne riconoscano la legittimità dell'azione e, perciò, accettinole decisioni penali.

Le criticità aumentano poi quanto meno grave è il reato ipotizzato. Prevedendo un generalizzato allungamento dei tempi prescrizionali che può esser di tre anni per ciascun tipo criminoso (in aggiunta al “tempo necessario a prescrivere” sancito all'art. 157 c.p., nonché ad eventuali concorrenti cause di sospensione) indipendentemente dal termine base di prescrizione, il riformatore non sembra aver tenuto minimamente conto di tale esigenza, realizzando così un bilanciamento d'interessi forse non del tutto orientato ai valori costituzionali di uguaglianza in gioco, come scolpiti dalla Consulta nella recente ordinanza Taricco n. 24/2017 e recepiti dalla stessa Corte di giustizia nella Taricco II.

È stata così rilevata in dottrina l'irragionevolezza della misura fissa di allungamento dei termini di prescrizione, sempre di un anno e mezzo per grado d'impugnazione, tanto nel caso di delitti quanto per le contravvenzioni. Il tutto senza considerare che “l'incidenza in termini percentualistici dell'incremento è significativamente diverso per un reato che si estingue in tre anni, talché la nuova misura comporterà il raddoppio del termine estintivo, rispetto a un reato che si prescrive in quarant'anni, talché la nuova misura rischia di non produrre mai alcun effetto concreto. E tuttavia, mancando nell'art. 159, commi 2 e 3, c.p. qualunque differenziazione, la nuova imposta temporale sarà versata da tutti gli impugnanti in misura eguale indipendentemente dalla loro condizione specifica: il che prelude, com'è ovvio, a una violazione dell'art. 3 Cost. sub specie di eguale trattamento di situazioni molto diverse tra loro” (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

Inoltre, introducendo le fattispecie sospensive di cui al nuovo comma secondo dell'art. 159 c.p., si è di fatto attribuita efficacia sospensiva della prescrizione alle impugnazioni (di regola dell'imputato) avverso la sentenza di condanna (di primo e secondo grado), equiparando l'esperimento di tale fondamentale strumento difensivo a quegli “accadimenti distonici” (pur in sé legittimi) rispetto alla normale dinamica processuale che, appunto perché distonici, oggi giustificano la stasi del corso della prescrizione e il prolungamento dei tempi del processo (quali sono appunto le ipotesi delineate all'art. 159, comma 1, n. 3) c.p.) (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.).

Sospensione che, però, viene esclusa a posteriori qualora l'impugnazione risulti totalmente fondata (nuovo comma terzo dell'art. 159 c.p., che significativamente non contempla i casi di riforma parziale della condanna), come a dire che l'azionamento del diritto dell'imputato a sottoporre la condanna non definitiva al vaglio di un giudice superiore comporta il conculcamento del suo diritto alla durata ragionevole del processo, a meno che la statuizione giudiziale impugnata non fosse del tutto errata (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.).

È stata ancora essere evidenziata la disomogeneità strutturale tra i nuovi casi di sospensione della prescrizione e le ipotesi canoniche, che originano da una forzata inattività cui è costretta l'autorità giudiziaria al verificarsi di peculiari situazioni storiche o vicende processuali: una forzata inattività che evidentemente elide la portata sintomatica del tempo trascorso in ordine alla carenza di interesse al perseguimento del reato (G. Marinucci, E. Dolcini, G. Gatta, Manuale di diritto penale, Milano, 2017, 438 ss.).

Se così è, non si comprende allora come sia possibile equiparare a queste ipotesi di straordinaria e cogente inerzia una situazione al contrario di carattere attivo e del tutto ordinaria per un procedimento penale qual è l'impugnazione.

Evidente il rischio della violazione del principio di uguaglianza.

D'altra parte che il nuovo meccanismo sospensivo sia eterogeneo rispetto alle autentiche cause di sospensione lo rivela il fatto che “esso può concorrere con queste ultime dando vita a una sorta di "sospensione al cubo" che, in linea generale, è del tutto aliena all'istituto, non essendo chiaramente concepibili due coincidenti inerzie forzate tali da imporre il raddoppio della dilatazione temporale. Infine, se quella in esame fosse un'autentica causa di sospensione dovrebbe coincidere con l'intero periodo d'attesa del giudizio d'impugnazione, mentre essa è stata calmierata dal legislatore tramite una soglia massima di un anno e mezzo (in realtà volta a contenere l'effetto sanzionatorio autenticamente sotteso alla nuova misura)” (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

In breve, l'allungamento non ragionevole dei termini di prescrizione rischia di creare una forte tensione con il modello costituzionale della prescrizione, che attribuisce all'istituto una fortissima copertura sovraordinata nelle funzioni delle pena costituzionalmente presidiate, come di recente riconosciute, oltre che dalla migliore dottrina, anche dalla Corte Costituzionale.

Sotto altro aspetto, sempre in un'ottica di tensione con la Costituzione, la sospensione del corso della prescrizione, dopo la sentenza di condanna di primo e di secondo grado, confligge con l'art. 27 comma 2 Cost., in quanto applica agli imputati condannati con sentenza non ancora definitiva un trattamento deteriore che presuppone logicamente il venir meno della presunzione di non colpevolezza.

Il discrimine è infatti individuato nella sentenza di condanna non definitiva e da questo elemento, che alla luce dell'art. 27 comma 2 Cost. dovrebbe essere neutro e ininfluente, si fa invece discendere un trattamento diversificato fra imputati in costanza dei gradi di impugnazione.

La presunzione costituzionale, al contrario, non consente di riservare al condannato con sentenza non definitiva un trattamento differenziato e deteriore.

Tutti gli imputati in attesa di giudizio dovrebbero avere lo stesso trattamento anche sotto il profilo della prescrizione del reato.

La sospensione dei termini di prescrizione dopo le sentenze di condanna di primo e di secondo grado, ancora, comporta un indiscriminato allungamento di tre anni del tempo a disposizione per la celebrazione dei processi nei gradi di impugnazione.

Considerato che il tempo della sospensione si assomma a termini “medi” di prescrizione che, tenuto conto delle interruzioni, sono di 5 anni per le contravvenzioni e di 7 anni e mezzo per i delitti, il risultato della predetta sospensione è il generalizzato superamento dei termini medi di ragionevole durata dei processi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Va infatti ricordato che l'art. 6 comma 1 CEDU sancisce il diritto di ogni accusato a essere giudicato in un tempo ragionevole e che il rapporto CEPEJ del 2012 ha rilevato che, nella giurisprudenza della Corte EDU, la soglia massima di durata ragionevole di un processo normale per tre gradi di giudizio, compresa la fase delle indagini, è di 4 anni e 3 mesi, mentre la soglia massima di durata ragionevole di un processo complesso per tre gradi di giudizio, compresa la fase delle indagini, è di 8 anni e 5 mesi.

Da questi dati si possono ricavare indicazioni di massima utili per definire il termine di durata ragionevole dei processi alla luce dell'art. 6 comma 1 CEDU.

Considerato che il legislatore nazionale, ai sensi dell'art. 117 comma 1 Cost., deve conformarsi all'art. 6 comma 1 CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU (v. sent. cost. n. 348 e 349 del 2007), appare evidente il novum legislativo comporti un potenziale allungamento della durata dei processi ben oltre la soglia massima indicata dalla giurisprudenza europea nella interpretazione dell'art. 6 comma 1 CEDU.

Inoltre, l'art. 111 comma 2 Cost. stabilisce che la legge deve assicurare la durata ragionevole del processo, con disposizioni importate nell'impianto costituzionale dalla previsione dell'art. 6 comma 1 CEDU.

Dunque, il generalizzato allungamento dei tempi di durata del processo ben oltre la media della durata ragionevole indicata dalla Corte EDU, finisce per tradire l'obiettivo imposto dall'art. 111 comma 2 Cost. e per porsi in aperto conflitto anche con tale previsione.

Quanto agli effetti delle cause di sospensione, l'interruzione della prescrizione continuerà ad avere effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato, mentre la sospensione avrà “effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo”. L'innovazione è un riflesso dell'introduzione della nuova causa di sospensione prevista dall'art. 159, commi 2-4, c.p., il cui effetto andrebbe soggettivamente circoscritto agli impugnanti.

Così, mentre la pregressa disciplina codicistica riverberava su tutti i concorrenti nel reato tanto la verificazione di una causa interruttiva quanto quella di una causa sospensiva, il nuovo primo comma dell'art. 161 c.p. va a differenziare le due ipotesi, tenendo fermo l'effetto “collettivo” per i casi di interruzione ma limitando l'effetto sospensivo “agli imputati nei cui confronti si sta procedendo”, da intendersi simultaneamente; con ciò peraltro confermandosi che la disciplina dell'interruzione volge lo sguardo alla natura sostanziale della prescrizione mentre quella della sospensione è proiettata alla sua dimensione processuale.

Rimane tuttavia da stabilire come interpretare l'espressione “imputati nei cui confronti si sta procedendo” nel caso di sentenze di primo grado non uniformi, che assolvano cioè taluni imputati condannandone altri, creando così i presupposti per una contemporanea impugnazione di questi ultimi (rispetto alla loro condanna) e del Pubblico Ministero (rispetto all'assoluzione).

In tali situazioni, non appare chiaro se la causa di sospensione dell'art. 158, commi 2-4, c.p. debba esplicare i propri effetti anche sugli assolti nei cui confronti si sta ancora procedendo in forza dell'impugnazione del Pubblico Ministero (ma se così fosse s'ingenererebbe un regime prescrizionale deteriore rispetto a quello che opererebbe qualora l'assolto fosse stato l'unico imputato); oppure ritenere che gli imputati assolti in primo grado non debbano comunque subire la sospensione malgrado essi siano, in ragione dell'impugnazione del Pubblico Ministero e degli altri imputati, ancora soggetti a procedimento caratterizzato da una causa sospensiva (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

L'interruzione della prescrizione

La decorrenza del termine di prescrizione è interrotta da una serie di atti indicati dall'art. 160, comma 1,c.p.; l'elencazione è pacificamente tassativa, ovvero insuscettibile di analogia.

In presenza di un atto interruttivo, il termine di prescrizione ricomincia a decorrere nuovamente.

Il reato si estingue non soltanto se dall'ultimo atto interruttivo sia decorso il termine di prescrizione indicato dall'art. 157 c.p., ma anche se, dall'iniziale dies a quo, per effetto del sopravvenire di atti interruttivi, sia decorso un termine massimo pari a quello indicato dall'art. 157 c.p., aumentato (secondo quanto stabilito dagli artt. 160, comma 3, e 161, comma 2, c.p.):

  • di un quarto (ad es., un delitto che si prescrive in sei anni, si prescrive anche se, pur non essendo trascorsi sei anni dall'ultimo atto interruttivo, siano trascorsi sette anni e sei mesi dalla data di commissione);
  • della metà, nei casi di cui all'art. 99, comma 2, c.p. (recidiva aggravata);
  • di due terzi, in tutti i casi previsti all'art. 99, comma 4, c.p. (recidiva reiterata).
  • del doppio, nei casi di cui agli artt. 102, 103, 105 c.p. (abitualità presunta dalla legge o ritenuta dal giudice, e professionalità nel reato).

Questa disciplina non si applica “per i reati di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.”, per i quali non è prevista l'entità della massima della dilazione, in presenza di eventi interruttivi, il che comporta che per tali reati i termini, pur in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, siano dilatabili all'infinito, fino a che, dopo una interruzione e prima della successiva, non sia decorso per intero il termine di prescrizione-base previsto dall'art. 157 c.p.

Gli atti interruttivi della prescrizione hanno valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza nello Stato dell'interesse punitivo, e, pertanto, rilevano per il semplice fatto di essere stati formalmente emessi, anche se sono nulli (Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2007, n. 43836), a partire dalla data di emissione, senza necessità di essere notificati (Cass. pen., Sez. I, 26 febbraio 2009, n. 13554).

La sospensione e l'interruzione della prescrizione operano nei confronti di tutti coloro cui sia contestato il reato, quale che ne sia la qualifica processuale (art. 161, comma 1, c.p.).

In precedenza, l'art. 161, comma 2, c.p. stabiliva che, nel caso in cui si procedesse congiuntamente per più reati connessi, la sospensione o l'interruzione intervenuta per taluno di essi aveva effetto anche per gli altri. La disposizione è stata abrogata dalla l. 251/2005, con la conseguenza che – nell'attuale silenzio legislativo

- la causa sospensiva od interruttiva della prescrizione che intervenga per uno soltanto dei reati connessi, non ha più effetto anche per gli altri.

La legge n. 103/2017, all'art. 12, ha poi attribuito efficacia interruttiva anche all'interrogatorio dell'indagato effettuato dalla polizia giudiziaria su delega del P.M. (art. 370 c.p.p.) al pari di quanto previsto dall'art. 160 c.p. per l'interrogatorio effettuato direttamente dal togato (tale soluzione non era raggiungibile per via interpretativa stante il divieto di analogia al quale anche l'art. 160 c.p. è soggetto: Cass. pen., sez. IV, 10 luglio 2003, n. 37476).

Tale ipotesi, infatti, stante la tassatività delle cause d'interruzione della prescrizione, era infatti fino ad oggi ritenuta “atipica” (e dunque improduttiva dell'effetto interruttivo) dalla giurisprudenza consolidata (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2001, n. 33543) ma in effetti non sembra presentare una ratio dissimile dall'analoga fattispecie costituita dall'interrogatorio effettuato direttamente dal pubblico ministero, a maggior ragione ove si consideri che l'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio rivolto dal pubblico ministero già allo stato è idoneo a interrompere la prescrizione, anche laddove l'interrogatorio venga poi espletato dalla polizia giudiziaria delegata (si veda Cass., 18 marzo 2013, n. 18919).

Con l'art. 14 della legge n. 103/2017 il legislatore ha elevato alla metà dell'intervallo base il tetto della dilatazione derivante dalle cause d'interruzione della prescrizione (art. 161 c.p.) qualora si proceda per fatti di corruzione o truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (si parifica in questo modo – mediante interpolazione del secondo comma dell'art. 161 c.p. – il corrotto ed il corruttore al recidivo -“aggravato” ex art. 99, comma secondo, c.p.- ai fini degli effetti dell'interruzione della prescrizione sul termine finale della sua maturazione: parimenti a quanto già stabilito per il ricadente nel reato, in caso di commissione dei delitti di cui agli artt. 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-bis, 640-bis c.p., l'incremento “massimo” del periodo prescrizionale conseguente al verificarsi di una causa interruttiva -che di per sé farebbe ridecorrere la prescrizione ex novo- viene individuato in misura pari alla metà del tempo necessario a prescrivere ex art. 157 c.p., mentre ordinariamente tale aumento è contenuto in un quarto). Si tratta di una soluzione del tutto originale, posto che dal 2005 la dilatazione massima stabilita per l'interruzione è correlata allo status dell'imputato, mentre qui si fa riferimento al tipo di reato per cui si procede indipendentemente dalle condizioni dell'imputato (che viene assimilato a un recidivo).

Per tale ragione la nuova norma pare destinata a un vaglio di legittimità costituzionale, non potendosi ritenere infatti che essa “sia giustificata dal carattere clandestino di tali illeciti così da reclamare un maggiore intervallo mnemonico, perché se così fosse si sarebbe intervenuti sul dies a quo anziché sul dies ad quem. L'unica ragione che si rinviene a fondamento della nuova norma è dunque quello derivante dal desiderio di garantire la processabilità dei reati di cui agli artt. 318 ss. c.p. e 640-bis c.p. in quanto generatori di un maggiore allarme sociale” (D. Micheletti, Op. cit., 277 ss.).

Se così è, però, diviene difficile sfuggire a sospetti di disparità di trattamento con reati di analoga gravità, ed aventi magari la medesima oggettività giuridica (come il 314 c.p. o il 317 c.p.), rispetto ai quali la dilatazione dell'effetto interruttivo è rimasta, per i non recidivi, pari a un quarto dell'intervallo base.

Senza considerare che anche in questo caso le garanzie personalistiche costituzionalmente presidiate vengono compresse per ragiono di politica criminale, con conseguente strumentalizzazione della persona umana per il soddisfacimenti di tali interessi (in una prospettiva antitetica a quanto sostenuto dalle scansioni argomentative della sentenza n. 364/88) .

Il novum legislativo ricostruisce così in chiave “sanzionatoria” l'istituto della prescrizione, riservando a talune categorie di autori particolarmente noti all'opinione pubblica un regime deteriore, pesantemente sbilanciato a vantaggio delle esigenze repressive (e simboliche): a fronte di termini prescrizionali già molto lunghi e per l'innalzamento dei limiti edittali delle fattispecie corruttive (da ultimo nuovamente ritoccati al rialzo con la L. n. 69/2015) e per l'ampliamento della cause sospensive oggetto della riforma (cui va “sommata” la posticipazione del termine iniziale della prescrizione derivante dall'applicazione della c.d. teoria dei reati a duplice schema, dominante in giurisprudenza ma oggetto di critiche serrate da parte della dottrina), l'incremento del limite di cui al comma secondo dell'art. 161 c.p. non appare giustificabile esclusivamente alla luce del fatto che il pactum sceleris che sta alla base di tali reati rende spesso difficoltoso e “ritardato” il loro accertamento (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.).

Tale ultima ratio, comunque, deve ritenersi “certo presente nell'intervento riformatore, come è chiaramente desumibile dall'esclusione di reati che, pur incarnanti un disvalore analogo se non maggiore (quali il peculato e la concussione), per la loro struttura non possono risultare “opacizzati” dal velo dell'accordo illecito che caratterizza invece le fattispecie richiamate dal progetto di legge, anche se suscita qualche perplessità l'inclusione dell'induzione indebita a dare o promettere utilità – fattispecie che è comunque incentrata su un disequilibrio tra la posizione del pubblico agente (induttore) e quella del privato (indotto) – e, soprattutto, della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, che risponde ad uno schema delittuoso affatto differente” (D. Bianchi, Op. cit., 2239 ss.).

Anche in questo caso emergono le tensioni rispetto all'impostazione che ricostruisce la prescrizione in chiave di prevenzione/integrazione, come sopra delineata.

L'inciso “limitatamente ai delitti richiamati dal presente comma” che figura dopo il richiamo dell'art. 322-bis, va inteso nel senso che, in relazione a quest'ultima disposizione, di per sé ricomprendente anche fattispecie ulteriori rispetto a quelle di cui agli artt. 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 c.p., la modifica normativa deve esser comunque limitata a queste ultime, con esclusione appunto del peculato e della concussione seppur commessi da funzionari delle istituzioni europee o internazionali.

La riforma operata con legge 3 del 9 gennaio 2019

La legge “spazza-corrotti” n. 3 del 9 gennaio 2019 è intervenuta radicalmente in materia di riforma della prescrizione del reato, con un intervento non limitato alla corruzione e agli altri delitti contro la P.A. ma di portata più generale.

È stato in proposito osservato che lascia perplessi il metodo, in quanto «riforme di sistema, destinate a impattare sulla giustizia penale e sulla relativa amministrazione, richiedono tempi di maturazione e valutazioni che tengano conto dell'analisi dell'impatto sul sistema di precedenti riforme» (Gatta, Prescrizione bloccata dopo il primo grado: una proposta di riforma improvvisa ma non del tutto improvvisata, in www.penalecontemporaneo.it, 5 novembre 2018.).Il chiaro intento è quello di sopperire alla endemica lentezza dei processi che supera i sei anni indicati dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo.Questo tipo di verifica impone una analisi attenta del novum legislativo.La l. n. 3/2019 mira (a far data dal 1 gennaio 2020), tramite la sostituzione del secondo comma dell'art. 159 c.p. e la contestuale abrogazione del terzo e del quarto comma del medesimo articolo, oltre che del primo comma dell'art. 160 c.p. (su cui si rinvia al paragrafo 4), a bloccare il corso della prescrizione dopo la sentenza (di condanna o di assoluzione) di primo grado (o dopo il decreto di condanna) fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio (o della irrevocabilità del decreto di condanna).Resta ferma la pregressa disciplina della prescrizione fino alla sentenza di primo grado.È evidente la prospettiva autoritaria, in cui il cittadino è sempre nelle mani del potere, che può decidere di tenerlo in sospeso sine die.Dunque, la riforma operata con la l. 103/2017 aveva previsto – solo in caso di sentenza di condanna – una limitata dilatazione del tempo necessario a prescrivere il reato dopo il giudizio di primo grado, i cui effetti sui numeri della prescrizione risultano naturalmente ancora ignoti (sia consentito il rinvio a Della Ragione, La nuova disciplina della prescrizione, in G. Spangher (a cura di ), La riforma Orlando, Pisa, 2017, 69 ss.).La legge n. 3/2019 si è spinta ben oltre, prevedendo una nuova ipotesi di sospensione della prescrizione (Gatta, Prescrizione bloccata dopo il primo grado: una proposta di riforma improvvisa ma non del tutto improvvisata, cit.), anche se dal punto di vista tecnico la sospensione presuppone la possibile ripresa del corso della prescrizione, come avveniva nella pregressa disciplina ma che nel caso di specie non sarebbe appunto possibile, a fronte della esecutività della sentenza che definisce il giudizio.

In buona sostanza, dunque, la legge n. 3 del 2019 determina, a decorrere dal 1 gennaio 2020, una soluzione radicale: il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado (o il decreto di condanna), indipendente dall'esito, di condanna o di assoluzione. È proprio questa, in sintesi e nell'essenza, la novità con la quale i penalisti sono chiamati a confrontarsi: una prescrizione del reato che non potrà più maturare in appello o in cassazione.

Sono noti gli argomenti spesi contro la riforma operata con legge n. 3/2019, in quanto bloccare la prescrizione dopo il processo di primo grado espone l'imputato, anche se assolto, al rischio concreto di un processo lento nei successivi gradi di giudizio, proprio in considerazione del blocco della prescrizione, che guida la priorità nella fissazione delle udienze in Appello e in Cassazione (Insolera, La riforma giallo verde del diritto penale: adesso tocca alla prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it, 9 novembre 2018). Per tale dottrina è evidente il vulnus al principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

Altro autorevole orientamento (Gatta, Prescrizione bloccata dopo il primo grado: una proposta di riforma improvvisa ma non del tutto improvvisata, cit.) ha tuttavia affermato che nel merito «pare che la riforma proposta, e la polemica che ne è seguita, confermino un equivoco irrisolto: l'idea, radicata nel nostro Paese, che la prescrizione del reato sia funzionale alla ragionevole durata del processo […] se è così nei fatti, da noi, è perché il sistema, per trovare una cura alla patologica lentezza del processo, ha piegato ad altro fine l'istituto della prescrizione del reato, la cui ragion d'essere non ha nulla a che fare con la durata del processo penale. È patologico l'utilizzo della prescrizione come un farmaco emergenziale per curare la lentezza del processo (un farmaco che peraltro presenta, tra le controindicazioni, il possibile aumento del numero delle impugnazioni e delle strategie difensive volte a cercare di far maturare la prescrizione, allungando i tempi del processo)».

Ciò posto, prosegue l'orientamento in esame, «le tradizionali rationes della prescrizione del reato – cioè della previsione legale di un “tempo dell'oblio” – sono individuate: 1) nell'affievolirsi delle esigenze che giustificano la punizione, trascorso un certo tempo dalla commissione del reato; 2) nell'accrescersi col tempo delle difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto, con ripercussioni negative sull'esercizio del diritto di difesa».

Ebbene, si conclude, «entrambe le ragioni hanno la loro plausibilità se riferite al lasso di tempo che decorre dalla commissione del reato all'attivarsi della pretesa punitiva dello Stato; ma perdono qualsiasi capacità persuasiva rispetto alla vigente disciplina italiana, caratterizzata da un termine prescrizionale massimo complessivo che continua a decorrere imperterrito anche dopo il rinvio a giudizio dell'imputato, e persino dopo la sentenza di condanna di primo grado».

Sotto tale aspetto, si evidenzia che la prescrizione del reato nel giudizio di appello o di cassazione è un segnale di inefficienza del sistema, precisando che «la prescrizione che interviene mentre l'autorità giudiziaria è in moto, e una sentenza di primo grado è stata pronunciata, ha il sapore amaro dell'ingiustizia e dell'impunità (se vi è stata condanna o una assoluzione messa in discussione), al di là delle pur possibili e non insignificanti considerazioni di tipo economico, sul dispendio inutile di risorse pubbliche. È questa la sensazione diffusa – l'istanza sociale di riforma dell'istituto – che la proposta oggi in discussione intercetta».

L'impostazione favorevole alla riforma ha poi cura di precisare che una riforma organica non possa non tenere conto dei possibili riflessi sulla durata del processo e, pertanto, dovrebbe essere accompagnata da rimedi compensativi per l'eccessiva durata del processo e da ulteriori interventi strutturali volti a incidere sulle plurime cause della lentezza del processo penale, come: 1) l'assunzione di personale (magistrati e ausiliari); 2) ovvero limitando l'incidenza della prescrizione tramite una riforma di ampio respiro che renda il processo penale più efficiente, investendo sulla giustizia penale con politiche di ampio respiro e di lungo corso, che diano attuazione al principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

Tale impostazione, sia pur finemente argomentata, si espone tuttavia a qualche rilievo critico.

È infatti pur vero che la prescrizione merita una rivisitazione ma la stessa va pur sempre calibrata sulle sue ragioni sostanziali e costituzionali, rievocando così la disputa sulla natura processuale o sostanziale delle ragioni del ritrarsi della punibilità a seguito del trascorrere del tempo. Le diverse posizioni sono dotate di astratta plausibilità, si dice, ed è in fondo vero (Insolera, La riforma giallo verde del diritto penale: adesso tocca alla prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it, 9 novembre 2018).

Non a caso nel parere reso dal C.S.M. del 19 dicembre 2018 sulla legge n. 3/2019 si mette in evidenza che le nuove norme, lungi dal provocare una accelerazione della conclusione dei processi, rischiano di comportare che “i gradi di giudizio successivo al primo si svolgano più lentamente che in passato, venendo meno uno dei principali fattori che determinano, di norma, un'accelerazione dei tempi di definizione dei processi, legato al pericolo di prescrizione del reato sub iudice“,con conseguenze negative anche in termini di risposta alla domanda di giustizia delle vittime del reato, di garanzia del diritto di difesa e della ragionevole durata del processo (di cui all'art. 111 Cost.) per l'imputato, di incremento del c.d. “rischio legge Pinto” (con ripercussioni anche economicamente rilevanti per lo Stato), di sovraccarico delle Corti di Appello per l'incremento dei processi ivi pendenti. E prosegue, ricordando che “il rischio di prescrizione del reato è stato sempre considerato uno dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali” anche nei provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli Uffici.

Considerazioni critiche sulle recenti riforme in materia di prescrizione

Le riforme operate con legge n. 103/2017 e da ultimo con la legge n. 3/2019 si espongono a tensioni con i principi di natura costituzionale e sovraordinati di recente consacrati dalla Corte costituzionale (e accettati dalla Corte di Giustizia) nel caso Taricco.

Le scelte ordinamentali sembrano protendere per la natura processuale della prescrizione.

In particolari si evidenziano tensioni in relazione all'ottica garantistica del principio di stretta legalità, considerato che la determinazione della durata della prescrizione sconta bilanciamenti di interessi e di valori che le risorse e le potenzialità dialettico-deliberative della sede parlamentare possono implementare in termini di più spiccata ragionevolezza.

La processualizzazione della prescrizione determina esiti paradossali di indubbia violazione dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini innanzi alla legge e, pertanto, di pregiudizio degli scopi normativi di prevenzione/integrazione.

Come visto (paragrafo 1.1.) precise e stringenti coordinate costituzionali impongono di governare le vicende del decorso temporale nell'ottica delle funzioni della pena.

Segnatamente, il trascorrere del tempo riduce l'utilità sociale della pena, o meglio ne relativizza il valore, stando a testimoniare che più si distanziano nel tempo il reato e la condanna, meno essa corrisponde alle finalità originarie, sino a perderle del tutto.

In un'ottica special-preventiva, poi, il decorso del tempo estingue la punibilità dal momento che incide sulla personalità dell'individuo, trasformandolo in qualcosa di diverso da ciò che egli era nell'istante in cui ha compiuto l'azione illecita; una condanna tardiva rischierebbe così di essere costituzionalmente disarmonica e addirittura illegittima la norma che la consentisse.

La tesi della natura sostanziale della prescrizione, del resto, nasce dalla stessa concezione della (non) punibilità quale elemento essenziale del reato, potendosi definire il reato come l'insieme dei coefficienti necessari al prodursi della conseguenza giuridica della pena, e quindi mancando uno qualsiasi di questi coefficienti non v'è possibilità di questa conseguenza giuridica, non v'è punibilità: e quindi non v'è reato.

Tale concezione faceva riferimento, in una impostazione essenzialmente retributiva, alla dimensione normativa della punibilità in astratto, non già alla dimensione applicativa della pena (come punibilità in concreto).

Tuttavia, sebbene l'equazione reato-fatto punibile abbia attenuato il carattere di indefettibilità, a partire dalla legislazione “premiale” in materia di criminalità terroristica e mafiosa, in una evoluzione culminata nei recenti interventi legislativi che hanno introdotto paradigmi normativi di non punibilità del reato (messa alla prova e particolare tenuità del fatto), sempre più corroborando la rappresentazione di una “sequenza infranta”, nondimeno l'essenza del reato resta sempre avvinta alla dimensione normativa della punibilità in astratto del fatto.

Peraltro, nel nostro ordinamento, la prescrizione del reato – come risultante per effetto delle modifiche apportate dall'art. 6, l. 251/2005 (c.d. “ex Cirielli”) – era modulata in ragione della gravità del reato, sebbene esistano alcuni reati particolarmente gravi per i quali essa non può mai maturare (c.d. “reati imprescrittibili”): notoriamente, sono quelli per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti.

È dunque in un tale cambiamento che sarebbe da ritrovare il fondamento razionale dell'istituto, prescindendo dal quale la punizione finirebbe per colpire un individuo che, nella sua essenza, è diventato altro da sé, tanto da essersi, per ipotesi, perfettamente integrato nella società, facendo proprio il valore precedentemente offeso.

Del resto, ove non si riconoscesse al tempo una funzione estintiva dello ius puniendi, ogni autore di reato, in perdurante attesa della pena, si troverebbe privato della possibilità di preventivare la propria esistenza, la propria attività lavorativa, finanche di coltivare normalmente i propri affetti.

Esercitabile e modificabile in eterno, il legittimo diritto di punire finirebbe così per espropriare ab imis i suoi destinatari della possibilità di compiere le più comuni scelte esistenziali, come sanzione ulteriore, e magari più invasiva, di quella prevista per lo specifico reato commesso. Ma v'è di più. In un ordinamento a carattere personalistico, qual è il nostro, in cui la persona umana viene elevata a bene primario e i suoi diritti fondamentali sottratti alla disponibilità del Legislatore, l'esistenza della prescrizione trova un diretto fondamento costituzionale. E non solo, com'è ovvio, in virtù dell'art. 2 Cost., che assicura – anche al reo – la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali va annoverato, innanzi tutto, il diritto alla vita (cfr. l'art. 6 del Patto internazionale dei diritti civili e politici), che viene appunto salvaguardato dalla delimitazione temporale del potere punitivo, ma anche in forza di quel reticolo di norme costituzionali (v. gli artt. 3, 4, 29, 35, 37, ecc.) che impongono allo Stato (il quale per questa ragione viene definito sociale) compiti positivi, volti cioè a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona.

Non v'è ragione di escludere, infatti, che un tale coacervo di “diritti sociali” riguardi anche il soggetto potenzialmente punibile, verso il quale la Costituzione ammette sì l'eventuale uso della forza (cfr. il combinato disposto tra gli artt. 13 e 25 Cost.) ma non certo la volatile menomazione delle proprie prerogative fondamentali, che discenderebbe, viceversa, dalla persistente prospettiva di una sanzione da scontare. In quest'ottica, anche la disciplina della prescrizione mira a garantire le libere scelte di azione del cittadino, riallaciandosi con la ratio del principio di legalità in materia penale.

Sotto tale aspetto, le riforme, che di fatto cancellano, sospendendolo senza possibilità di ripresa, l'istituto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si espongono a seri dubbi di legittimità costituzionale.

Ed invero, come visto, con l'ordinanza n. 24/2017, la Corte costituzionale ha affermato la natura sostanziale dell'istituto e i relativi riferimenti costituzionali, riconducibili alle funzioni della pena (Sent. n. 115/2018).

Lo strumento impiegato per curare il male della prescrizione, dunque, si colloca in tensione con il modello di prescrizione delineato dalla Costituzione.

In sintesi, la riforma, oltre a creare tensioni con le funzioni della pena che ispirano la ratio estintiva del trascorrere del tempo, sembra scontrarsi con diversi principi costituzionali e convenzionali.

Basti pensare al diritto di difesa, “inviolabile” ai sensi dell'art. 24, comma 2, Cost., che risulta gravemente pregiudicato, in quanto a distanza di molto tempo le possibilità di difendersi provando, nel contradditorio delle parti, si contraggono significativamente, essendo difficile non solo raccogliere eventuali prove a discarico, ma persino ricostruire compiutamente e correttamente i fatti.

Quanto alla presunzione di innocenza (art. 27, comma 2, Cost. e art. 6 par. 2 Cedu), si ricorda che considerare l'imputato - persino se assolto in primo grado - quale “eterno giudicabile”, significa trattarlo alla stregua di un “presunto colpevole”.

Anche la funzione rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.) viene profondamente compromessa da una sanzione che possa intervenire a notevole distanza di tempo rispetto al fatto commesso, quando l'autore “non è più la stessa persona”, e potrebbe non necessitare più di alcun trattamento rieducativo.

Infine si rilevano tensioni con la durata necessariamente limitata e ragionevole del processo (art. 111, comma 2, Cost., art. 6 par. 1 Cedu e art. 14 patto internazionale sui diritti civili e politici, approvato il 16 dicembre 1966), che costituisce di per sé una poena naturalis e la sua protrazione illimitata implica una sofferenza - specie nei confronti di chi, poi, risulti innocente - tanto più intollerabile in un contesto ordinamentale dove i tempi della giustizia penale sono già irragionevolmente lunghi.

Per contro, anziché andare ad alterare il collegamento tra prescrizione e funzioni positivo-integratrici della pena, tramite la “processualizzazione” della prescrizione connessa alla nuova causa “sospensiva”, sarebbe stato più razionale e proporzionato ridefinire con intervento sistematico il tempo necessario a prescrivere, nel rispetto del più volte invocato approccio struttural/funzionalistico, vale a dire tramite un criterio di connessione tra le funzioni della pena ed il significato che il decorso del tempo esprime in relazione alle prime e al disvalore astratto di classi di reati, secondo le scansioni argomentative già delineate.

Dunque, non siamo al cospetto di una riforma di ampio respiro e del tutto conforme ai dettami costituzionali bensì ad un intervento asistematico che dà la sensazione al cittadino di un “disorientamento culturale”, con conseguente possibile pregiudizio anche per la percezione della sanzione penale applicata a grande distanza di tempo come giusta.

Senza considerare che nel riformare in senso peggiorativo per il (presunto) reo la disciplina della prescrizione, il Legislatore sembra essersi completamente disinteressato del fatto che il nostro ordinamento, adeguandosi in ciò a precisi obblighi di fonte sovranazionale, ha indicato i limiti massimi di durata del processo, al di là dei quali questa si manifesta irragionevole (salva diversa valutazione giudiziale argomentata in base alla complessità del caso, all'oggetto del procedimento e al comportamento delle parti), cioè a dire ingiustificatamente lesiva dei diritti dell'imputato (o indagato), e come tale scaturigine di un diritto di quest'ultimo all'equa riparazione.

Il riferimento corre alla l. 89/2001 (c.d. “Legge Pinto”), che all'art. 2, commi 2-bis e 2-ter, afferma esplicitamente che un processo (o meglio un procedimento penale, a contare dalla conoscenza che ne ha l'indagato, stante il recente intervento “manipolativo” della Corte costituzionale, sent. n. 184/2015) si considera ragionevole se non supera i tre anni in primo grado, due anni in secondo grado e un solo anno nel giudizio di legittimità o comunque i sei anni nel suo complesso.

Riemergono sotto tale aspetto i dubbi sulla ragionevolezza del processo e, di riflesso, non potranno che emergere dubbi sulla ragionevolezza dello stesso impianto normativo che, bloccando la prescrizione, ha determinato il prolungamento dei tempi processuali.

Dunque, la attuale situazione che comporta una significativa distanza tra il tempus commissi delicti e la conclusione del relativo procedimento penale non può che essere accettata con la consapevolezza delle tensioni costituzionali che la alimentano rispetto alla forse eccessiva dilatazione dei tempi del giusto processo, con effetti negativi sia sulla tutela della vittima che sulla presunzione di innocenza e sulla stessa funzione rieducativa della pena.

Sarebbe invece stato preferibile, in linea con i princìpi costituzionali, ridurre i tempi del processo penale, con la salvaguardia di tutte le garanzie per le persone coinvolte, delineando un sistema che rispetti la tradizione illuministico-liberale dell'Europa e tuteli le libertà individuali. In tale ottica, si dovrebbe intervenire sulle criticità del processo, rendendo più efficace il sistema delle notifiche – magari telematiche – e in generale gestendo più razionalmente le esigue risorse esistenti, e sperabilmente sul versante della copertura di tutti gli organici ancora vuoti, sia per quel che attiene ai magistrati che per quel che concerne il personale amministrativo.

Per quanto riguarda gli aspetti riconducibili al diritto penale sostanziale, la via maestra per abbreviare i tempi del processo dovrebbe essere rappresentata dalla selettività garantistica della sfera del penalmente rilevante, tramite abrogazioni e depenalizzazioni sistematiche nel rispetto delle strategie penalistiche a orientamento costituzionale, segnatamente dei principi di stretta legalità, offensività/materialità, proporzionalità/sussidiarietà/extrema ratio, nonché di colpevolezza e personalità della responsabilità penale, a loro volta tutti strumentali agli scopi positivo-integratrici del diritto penale.

Fin troppo scontato, invero, affermare la necessità di garantire, in tempi ragionevolmente brevi – l'accertamento della verità processuale per un numero di fatti, ritenuti meritevoli di essere qualificati penalmente rilevanti, numericamente limitati e, comunque, proporzionati alle capacità di smaltimento del sistema.

Ogni altra soluzione rischierebbe di tradursi in visioni autoritarie, di matrice illiberale, senza peraltro conseguire i risultati attesi.

Il regime transitorio

Devono infine essere segnalate le specifiche discipline transitorie delle riforme 2017-2019, che hann progressivamente delineato un modello sfavorevole al reo.

L'art. 15 della legge n. 1103/2017 stabilisce, in sintonia con le garanzie dell'art. 2 c.p., che la nuova disciplina della prescrizione, essendo più sfavorevole di quella precedente, si applicherà solo ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della legge.

Non ci si limita dunque ad adottare la soluzione più garantistica in termini di irretroattività, ma si ottiene altresì il risultato di spostare in avanti, e di molti anni, il momento in cui la riforma, peraltro limitata nel tempo per i fatti commessi fino al 1 gennaio 20120, produrrà degli effetti concreti.

La netta applicazione del principio d'irretroattività sfavorevole conferma la natura sostanziale della prescrizione, a dispetto dell'inquadramento offerto dalla Corte di Giustizia Taricco, che opta per una visione processualistica dell'istituto.

L'opzione di regolamentazione intertemporale è stata evidentemente dettata dalla consapevolezza di aver notevolmente inasprito una disciplina che rappresenta uno degli aghi della complessa bilancia penalistica che tenta di coniugare le libertà individuali con le esigenze punitive e, in sé, non è censurabile (basta ricordare come la richiamata Corte cost., ord. n. 24/2017, ha ribadito che “il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall'art. 25, secondo comma, Cost.”, di cui l'irretroattività in malam partem costituisce elemento portante).

Quanto alla legge n. 3/2019, va ancora segnalata la specifica disciplina di diritto intertemporale che posticipa l'entrata in vigore del novum peggiorativo in tema di prescrizione al 1° gennaio 2020, vale a dire di un anno rispetto alla approvazione.

Orbene, è certo che in forza dell'art. 25, comma 2, Cost. e di quanto suesposto la nuova disciplina della prescrizione, essendo più sfavorevole di quella precedente, si applicherà solo ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della legge.

Nel caso di specie, tuttavia, non ci si limita ad adottare la soluzione più garantistica in termini di irretroattività ma si ottiene altresì il risultato di spostare in avanti, e di molti anni, il momento in cui la riforma produrrà degli effetti concreti.

Così, la netta applicazione del principio d'irretroattività conferma la natura sostanziale della prescrizione.

Anche in tal caso l'opzione di regolamentazione intertemporale è stata probabilmente dettata dalla consapevolezza di aver notevolmente inasprito una disciplina che rappresenta uno degli aghi della complessa bilancia penalistica che tenta di coniugare le libertà individuali con le esigenze punitive e, in sé, non è censurabile (basta ricordare come la richiamata Corte cost., ord. n. 24/2017 ha ribadito che «il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall'art. 25, secondo comma, Cost.», di cui l'irretroattività in malam partem costituisce elemento portante).

Aspetti processuali

a) Attinenti all'archiviazione. Il Supremo Collegio ha chiarito che — in caso di maturazione del termine prescrizionale dopo la proposizione della richiesta di archiviazione, ma prima della fissazione della Camera di Consiglio exart. 410 c.p.p. —il G.i.p. è legittimato a dichiarare la inammissibilità di tale opposizione ed a pronunciare decreto di archiviazione de plano. (Cass. II, n. 39226/2011). È invece da ritenersi abnorme il provvedimento a mezzo del quale il G.I.P. — decidendo in ordine alla richiesta di archiviazione inoltrata dal P.M. — prima disponga la formulazione dell'imputazione e poi revochi tale provvedimento, sul presupposto dell'intervento della prescrizione, disponendo anche l'archiviazione (Cass. II, n. 42137/2010).

b) Attinenti alle misure cautelari. Con riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, a norma dell'art. 12sexiesd.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, segnatamente nel caso di interposizione personale fittizia aggravata a mente dell'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni in l. 12 luglio 1991, n. 203, la sussistenza del fumus commissi delicti non è ravvisabile nel caso in cui il reato presupposto venga dichiarato estinto per prescrizione. L'intervento di tale causa di estinzione del reato, infatti, elide la configurabilità delle condizioni legittimanti il vincolo cautelare di carattere reale (Cass. II, n. 11324/2015). La Corte ha altresì qualificato come illegittimo il sequestro preventivo — pur se finalizzato alla confisca — laddove sia maturato il termine prescrizionale in momento antecedente all'esercizio dell'azione penale, concretizzandosi così una situazione di assenza di fumus del reato, rilevabile anche in sede di Riesame (Cass. III, n. 24162/2011).

Inoltre, il concetto di effetto devolutivo del riesame delle misure cautelari reali implica che il Tribunale è tenuto a prendere in considerazione – pur se non prospettato dal ricorrente - ogni aspetto relativo ai presupposti intrinseci della misura cautelare (fumus commissi delicti e, per ciò che attiene al sequestro preventivo, periculum in mora), ma non anche a procedere all'analisi di profili ulteriori, quali, potrebbero essere gli elementi di fatto dai quali poter dedurre l'intervenuta prescrizione del reato, laddove questi non vengano specificamente dedotti (Cass. III, n.35083/2016).

c) Attinenti alla fase dell'udienza preliminare. Secondo l'insegnamento dei giudici di legittimità, la sentenza di proscioglimento emessa in sede di udienza preliminare non è ricorribile in Cassazione ad opera dell'imputato, ma solo allorquando vi sia stato proscioglimento per esser questi risultato estraneo al reato, ovvero per insussistenza dello stesso; la sentenza che dichiari l'estinzione per prescrizione, resa dal G.U.P., è invece impugnabile in Cassazioneanche laddove l'imputato non abbia rinunciato alla prescrizione, dal momento che a questi è pur sempre riservato il diritto di instare per una pronuncia liberatoria ai sensi dell'art. 129 comma 2 c.p.p., dunque con formula di rito più favorevole (Cass. III, n. 49663/2015).

La Corte ha poi chiarito come non possa dedursi - in sede di legittimità - il vizio di mancanza e illogicità della motivazione della sentenza di non luogo a procedere, che sia stata pronunciata dal giudice dell'udienza preliminare per intervenutaprescrizioneai sensi dell'art. 425 c.p.p. Laddove infatti ciò fosse consentito e la Corte dovesse riscontrare la presenza di tale vizio, dovrebbe poi anche rimettere il processo all'esame del giudice di merito, cosa evidentemente incompatibile con l'obbligo di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p.(Cass. V, n.2517/2016).

È stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione la questione di diritto inerente alla possibile operatività – in favore di un coimputato che non abbia proposto appello – dell'effetto estensivo di cui all'art. 587 c.p.p., relativamente alla pronuncia estintiva per prescrizione pronunciata nei confronti di coimputato impugnante. In particolare, il contrasto concerne la possibilità di ritenere operante tale effetto estintivo – si ripete, in favore del coimputato non appellante - soltanto nel caso in cui il termine prescrizionale spiri prima del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di quest'ultimo; ovvero se – dato per assodato che si sia in presenza di impugnazione non fondata su motivi di natura esclusivamente personale, riferibili al singolo appellante – il suddetto effetto estensivo agisca anche nel caso in cui la causa estintiva sia maturata in epoca successiva, rispetto al tempo dell'irrevocabilità della sentenza di condanna, pronunciata a carico del coimputato non appellante (trattasi di Cass. V, ord. n. 278/2017).

La pronuncia del giudice d'appello che dichiari l'estinzione del reato, verificatasi in un momento antecedente rispetto all'emissione della sentenza di primo grado deve contestualmente annullare le statuizioni civili in essa eventualmente contenute. Ne discende che una condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita è da ritenersi illegittima (Cass. V, n. 44826/2014). La Corte — sempre in tema di rapporti fra effetto estintivo del reato determinato dalla prescrizione e pretese risarcitorie — ha spiegato quanto segue. Il disposto dell'art. 2947 c.c. deve essere letto nel senso che — allorquando il fattore genetico del danno sia rappresentato da un reato — al momento dell'estinzione di quest'ultimo per prescrizione, si estinguerà anche l'azione civile di risarcimento, stante l'equipollenza esistente fra le due figure. Il rimedio è qui rappresentato dal fatto che il soggetto leso si sia costituito parte civile nel processo penale, così interrompendo il decorso della prescrizione. Trattasi in tal caso di effetto interruttivo direttamente scaturente dall'esercizio dell'azione civile in sede penale e che si protrae, in maniera permanente, fino al passaggio in giudicato della sentenza in sede penale. L'effetto interruttivo verrà meno nel caso di revoca della costituzione di parte civile, ovvero nel caso in cui non sia coltivato il relativo diritto (Cass. VI, n. 17799/2014).

d) Attinenti al dibattimento in primo grado. Nel caso in cui il difensore deduca un impedimento fondato sulla sussistenza di un contemporaneo impegno dinanzi ad altra A.G., il giudice del dibattimento deve focalizzare l'attenzione sulla prioritaria esigenza di impedire la maturazione del termine di prescrizione (Cass. III, n. 39367/2015).

e) Attinenti alla fase d'appello. L'imputato conserva il diritto di proporre appello avverso la sentenza di primo grado dichiarativa dell'estinzione per prescrizione, anche nel caso in cui non abbia preventivamente rinunciato alla prescrizione stessa (Cass. II, n. 17102/2011).

La Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile la domanda di revisione – che venga proposta a norma dell'art. 630, comma 1 lett. c) c.p.p.– nei confronti di pronuncia che, in grado di appello, abbia dichiarato estinto il reato per prescrizione, contestualmente confermando le statuizioni di tipo risarcitorio in favore della parte civile (Cass. V, n. 46707/2016).

È stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione la questione di diritto inerente alla possibile operatività – in favore di un coimputato che non abbia proposto appello – dell'effetto estensivo di cui all'art. 587 c.p.p., relativamente alla pronuncia estintiva per prescrizione pronunciata nei confronti di coimputato impugnante. In particolare, il contrasto concerne la possibilità di ritenere operante tale effetto estintivo – si ripete, in favore del coimputato non appellante - soltanto nel caso in cui il termine prescrizionale spiri prima del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti di quest'ultimo; ovvero se – dato per assodato che si sia in presenza di impugnazione non fondata su motivi di natura esclusivamente personale, riferibili al singolo appellante – il suddetto effetto estensivo agisca anche nel caso in cui la causa estintiva sia maturata in epoca successiva, rispetto al tempo dell'irrevocabilità della sentenza di condanna, pronunciata a carico del coimputato non appellante (trattasi di Cass. V, ord. n. 278/2017).

Ebbene, le Sezioni Unite della Cassazione hanno recentemente risolto tale contrasto giurisprudenziale, stabilendo come l'effetto estensivo della declaratoria di estinzione per prescrizione, di cui all'art. 587 c.p.p., non si estenda al coimputato che non abbia proposto il gravame, laddove il termine prescrizionale sia spirato in epoca successiva, rispetto al passaggio in cosa giudicata della sentenza pronunciata – e non impugnata - nei confronti di quest'ultimo (Cass. S.U. n. 3391/2018).

La pronuncia del giudice d'appello che dichiari l'estinzione del reato, verificatasi in un momento antecedente rispetto all'emissione della sentenza di primo grado deve contestualmente annullare le statuizioni civili in essa eventualmente contenute. Ne discende che una condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita è da ritenersi illegittima (Cass. V, n. 44826/2014). La Corte — sempre in tema di rapporti fra effetto estintivo del reato determinato dalla prescrizione e pretese risarcitorie — ha spiegato quanto segue. Il disposto dell'art. 2947 c.c.deve essere letto nel senso che — allorquando il fattore genetico del danno sia rappresentato da un reato — al momento dell'estinzione di quest'ultimo per prescrizione, si estinguerà anche l'azione civile di risarcimento, stante l'equipollenza esistente fra le due figure. Il rimedio è qui rappresentato dal fatto che il soggetto leso si sia costituito parte civile nel processo penale, così interrompendo il decorso della prescrizione. Trattasi in tal caso di effetto interruttivo direttamente scaturente dall'esercizio dell'azione civile in sede penale e che si protrae, in maniera permanente, fino al passaggio in giudicato della sentenza in sede penale. L'effetto interruttivo verrà meno nel caso di revoca della costituzione di parte civile, ovvero nel caso in cui non sia coltivato il relativo diritto (Cass. VI, n. 17799/2014).

f) Attinenti al giudizio di cassazione. La Corte ha sancito l'ammissibilità del ricorso straordinario in Cassazioneexart. 625bisc.p.p., per errore di fatto sulla prescrizione del reato. La condizione di ammissibilità del ricorso è però qui rappresentata dal fatto che la statuizione sullo specifico tema discenda — secondo un nesso di immediata consequenzialità — da un errore di percezione cagionato da una svista o da un equivoco; non rientra in tale ipotesi, dunque, il caso in cui l'eventuale errore sul maturarsi della causa estintiva del reato sia invece connesso ad una valutazione giuridica oppure ad un apprezzamento di fatto (Cass.S.U., n. 37505/2011). Inoltre, l'omesso esame, da parte della Cassazione, di motivi di ricorso non manifestamente infondati — laddove sia poi stata pronunciata declaratoria di inammissibilità — rappresenta errore di fatto rilevante ai fini del ricorso straordinario ai sensi dell'art. 625bisc.p.p. Discende da ciò il fenomeno della rescissione della sentenza impugnata, anche nel caso in cui i motivi di ricorso non valutati non siano da accogliere, in quanto tale situazione incide tanto sull'aspetto della ripartizione delle spese, quanto sul profilo del possibile spirare del termine di prescrizione (Cass. IV, n. 17178/2015).

Si evidenzia poi come il Supremo Collegio abbia chiarito ciò che accade nel caso di ricorso nei confronti di sentenza oggettivamente cumulativa (sentenza che abbia pronunciato condanna in relazione ad una pluralità di reati, tutti ascritti al medesimo imputato). Qui la Corte ha fatto richiamo al principio dell'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali che attengono alle distinte imputazioni. Ha quindi escluso che l'ammissibilità dell'impugnazione concernente uno solo dei reati possa comportare la nascita di un valido rapporto processuale, con riferimento anche ad altri reati, in relazione ai quali vi sia una inammissibilità dell'impugnazione. In ordine a tali ultimi reati – per i quali si viene dunque a formare il giudicato parziale - resta dunque preclusa la declaratoria di estinzione per prescrizione che si sia verificata dopo la pronuncia d'appello (Cass. S.U. 6903/2016).

I Giudici di legittimità hanno anche sancito il principio secondo il quale la inammissibilità del ricorso per Cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ex artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p., l'ormai intervenuta estinzione del reato per prescrizione, che sia maturata in data precedente rispetto alla pronunzia della sentenza di appello (prescrizione che non sia stata fatta oggetto di specifica eccezione nel corso del giudizio di merito, né rilevata dal giudice d'ufficio e nemmeno posta a fondamento di specifico motivo di ricorso) motivi di ricorso. Secondo la Suprema Corte deve invece ritenersi ammissibile il ricorso per Cassazione a mezzo del quale sia stato dedotto – anche con motivo unico – lo spirare del termine prescrizionale in epoca anteriore, rispetto alla pronuncia della sentenza impugnata e che erroneamente non sia stata dichiarata dal giudice di merito. Trattasi infatti di motivo di gravame consentito a norma dell'art. 606 comma 1 , lett. b) c.p.p. (il principio di diritto si trova espresso in Cass. S.U. n. 12602/2016; per un approfondimento, si veda AIELLI, 4).

È poi stata recentemente condotta all'attenzione delle Sezioni Unite la seguente quaestio iuris: se il giudice di legittimità – a fronte di una sentenza d'appello affetta da vizio derivante da violazione del contraddittorio – sia tenuto sempre e comunque a dichiararne la nullità, oppure possa dare prevalenza alla causa estintiva del reato (ordinanza di rimessione Cass. III, n. 9140/2017).

Le Sezioni Unite hanno anche stabilito come il vizio di inammissibilità del ricorso per cassazione inibisca la rilevabilità d'ufficio, a norma degli artt. 129 e 609 comma 2 c.p.p., dell'intervento della causa estintiva in esame che sia venuta a maturazione in epoca precedente rispetto alla pronuncia d'appello, ma che non sia stata né eccepita in tal sede, né rilevata dal giudice di secondo grado e nemmeno sussunta nei motivi di ricorso in cassazione. A diversa soluzione deve invece pervenirsi, nel caso in cui l'intervenuta estinzione del reato venga dedotta — anche quale motivo unico di doglianza — in sede di proposizione del ricorso in cassazione. In tal caso, il motivo attinente all'erroneo mancato rilievo — ad opera del giudice di merito — del consolidarsi del termine prescrizionale maturato prima della sentenza impugnata, rappresenta un motivo di ricorso consentito a mente dell'art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p. (Cass. S.U., n. 12602/2016).

g) Il Supremo Collegio ha escluso la possibilità di ricorso all'istituto della revisione, nel caso di sentenza dichiarativa di prescrizione. Essendo infatti la revisione un mezzo di impugnazione, sebbene di carattere straordinario, opera anche in relazione ad esso il generale principio di tassatività ex art. 568, comma 1 c.p.p. Dal momento quindi che l'art. 629 c.p.p.concerne esclusivamente le sentenze di condanna, le sentenze emesse a norma dell'art. 444 comma 2 e i decreti penali di condanna e vista la globalità delle disposizioni che regolamentano l'istituto della revisione, ne rimangono escluse le sentenza dichiarative della prescrizione. L'esclusione dalla possibilità di revisione opera anche nel caso in cui la Corte di Appello o la Corte di Cassazione – nel dichiarare estinto il reato per prescrizione – abbiano però confermato le decisioni di tipo civilistico contenute nella sentenza impugnata, visto che anche in tal caso non viene comunque in essere una sentenza di condanna (Cass. II, n. 2656/2017; in senso conforme si veda Cass. II, n. 53678/2017, laddove è chiarito come l'istituto della revisione attenga solo ad una sentenza di condanna, per tale dovendosi intendere – a norma dell'art. 6 CEDU– qualunque decisione a mezzo della quale il giudice, prescindendo dal nomen iuris prescelto, irroghi una sanzione di tipo punitivo e non soltanto riparatorio o preventivo, come accade al contrario in caso di condanna al risarcimento del danno).

Casistica
Successione di leggi nel tempo e disposizioni più favorevoli ex l. 252/2005

È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251, limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento” (Corte cost. 23 novembre 2006, n.393).

Ai fini dell'operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione introdotta con l. 251/2005, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall'esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado di appello del procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (Cass. pen., Sez. Un., 24 novembre 2011, n. 15933).

Morte dell'imputato e prescrizione La declaratoria di estinzione del reato per morte dell'imputato prevale su quella di prescrizione, pur maturata anteriormente, avendo quest'ultima carattere di accertamento costitutivo, precluso nei confronti di persona non più in vita ed in relazione ad un rapporto processuale ormai estinto. (Cass. pen., Sez. un., 24 settembre 2009, n. 49783).
Sospensione della prescrizione e legittimi impedimenti delle parti o dei difensori Ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato, deve tenersi conto della disposizione per cui, in caso di sospensione del processo per impedimento dell'imputato o del suo difensore, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, soltanto con riguardo ai rinvii disposti dopo la sua introduzione, avvenuta con l.
Interruzione della prescrizione

L'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. non ha efficacia interruttiva della prescrizione, poiché esso non è compreso nell'elenco degli atti espressamente previsti dall'art. 160, comma 2, c.p., i quali costituiscono un numerus clausus e sono insuscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem in diritto penale. (Cass. pen., Sez. un., 22 febbraio 2007, n. 21883) Le dichiarazioni rese in sede di presentazione spontanea all'autorità giudiziaria equivalgono ad ogni effetto, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.p., all'interrogatorio reso al P.M., e sono, quindi, idonee ad interrompere la prescrizione, purché l'indagato abbia ricevuto una contestazione chiara e precisa (da valutare come tale in relazione allo sviluppo delle indagini ed allo stato del procedimento) del fatto addebitato (Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2013, n.5838).

Circostanze cd. indipendenti e prescrizione

Ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, le circostanze cosiddette indipendenti che comportano un aumento di pena non superiore a un terzo (nella specie, quella di cui all'articolo 609- ter, comma 1, del Cp) non rientrano nella categoria delle circostanze a effetto speciale ex articolo 63, comma 3, del Cp, perché in tale categoria sono ricomprese espressamente solo le circostanze che aumentano quantitativamente la pena in misura superiore a un terzo. Per l'effetto, tali circostanze non possono essere considerate ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere, perché l'articolo 157, comma 2, del Cp a tal fine attribuisce rilievo alle sole circostanze a effetto speciale (Cass. pen., Sez. Un., 27/04/2017, n.28953).

Imprescrittibile l'omicidio volontario aggravato ante Cirielli

Il delitto punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, commesso prima della modifica dell'art. 157 c.p., per effetto della legge n. 251 del 2005, è imprescrittibile, pur in presenza del riconoscimento di circostanza attenuante dalla quale derivi l'applicazione di pena detentiva temporanea (Cass. pen., Sez. Un., 24/09/2015, n.19756).

Prescrizione del reato e riciclaggio

In tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva escluso che la decorrenza del termine di prescrizione dovesse essere valutata in relazione alle singole condotte di "sostituzione" del danaro provento di reato, attuate attraverso operazioni su conti correnti bancari) (Cass. pen. sez. II, 23/06/2016, n.29869).

Natura permanente del reato di detenzione di materiale pedopornografico

Il reato di detenzione di materiale pedopornografico di cui all'art. 600 quater, cod. pen., ha natura permanente, iniziando la sua consumazione nel momento in cui il reo si procura il materiale e cessando nel momento in cui quest'ultimo ne perde la disponibilità. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto legittima l'individuazione, in sentenza, della data di commissione del reato in quella del suo accertamento, coinciso con il sequestro del materiale) (Cass. pen., Sez. III, 23/02/2016, n.15719).

Aspetti processuali

È ammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto sulla prescrizione del reato, a condizione che la relativa statuizione costituisca esclusiva conseguenza di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco e non anche quando il preteso errore sulla causa estintiva derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o da un apprezzamento di fatto. (Cass. pen., Sez. un., 14 luglio 2011, n.37505).

La declaratoria di estinzione del reato non può essere pronunciata anche nei confronti del coimputato non impugnante in forza dell'effetto estensivo dell'impugnazione di cui all'art. 587 c.p.p., se il giudicato di colpevolezza si è formato nei suoi confronti prima del verificarsi dell'effetto estintivo, in ragione del decorso del termine di prescrizione successivamente all'emissione della sentenza. (Cass. pen., Sez. Un., 20 dicembre 2012, n.19054).

Nel casi in cui il giudice di appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, l'eventuale accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall'imputato impone l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art.622c.p.p. (Cass. pen., Sez. Un., 18 luglio 2013, n. 40109).

È ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. (Cass. pen., Sez. Un., 17/12/2015, n.12602)

Sommario