Infortuni sul lavoro
13 Maggio 2016
Inquadramento
In tema di tutela della sicurezza ed igiene sul lavoro, il nostro ordinamento interviene con lo strumento della sanzione penale in due momenti precisi e distinti: in primo luogo ed in via preventiva, allorquando si verifichi la violazione di norme precauzionali; in secondo luogo, nel caso in cui si verifichi un evento lesivo che metta a repentaglio la vita, l'integrità fisica e la salute dei lavoratori. Nel solco della prima tipologia di intervento si collocano per lo più le fattispecie contravvenzionali contenute in leggi speciali, nonostante nel nostro codice penale non manchino figure analoghe come quelle previste dagli artt. 437 e 451 c.p. Il secondo tipo di intervento, invece, è realizzato attraverso il ricorso alle fattispecie codicistiche di omicidio colposo e di lesioni personali colpose (artt. 589 e 590 c.p.) In particolare, a tutela dei beni giuridici della vita e dell'integrità fisica, il legislatore ha predisposto, accanto alle tradizionali figure delittuose colpose con evento di danno, un vasto sistema di norme a contenuto cautelare che costituiscono, per giunta, autonome ipotesi contravvenzionali di pericolo. Con riferimento all'oggetto della tutela, sia per i delitti previsti dagli artt. 589 e 590 c.p. sia per le contravvenzioni contemplate dalla disciplina antinfortunistica, è possibile arrivare ad una conclusione: in entrambi i casi, si tratta della vita, dell'integrità fisica e della salute non solo del lavoratore ma anche di quanti, anche in maniera occasionale, si trovino sul luogo di lavoro. a distinzione si avverte sul piano del diverso grado di offesa al bene giuridico. Difatti, mentre nelle figure delittuose l'offesa a detti beni assume la forma più grave del danno, nel caso delle contravvenzioni la medesima offesa assume le forme più blande del pericolo per la loro integrità. Giova considerare, inoltre, come l'intera disciplina della sicurezza e dell'igiene sul lavoro è orientata a prevenire l'evento lesivo sub specie di infortunio sul lavoro o malattia professionale (concetti questi dei quali si tratterà più diffusamente nel secondo paragrafo); evento il cui verificarsi segna, di tutta evidenza, il discrimine fra intervento penale preventivo, secondo il modello della contravvenzione di pericolo, e intervento penale successivo, secondo il modello delittuoso di danno. In sostanza, qualora si determini l'evento lesivo (morte, infortunio o malattia), è necessario, al fine dell'imputabilità dell'evento stesso, che la fattispecie di delitto colposo — rispettivamente quella di cui all'art. 589 c.p. per l'ipotesi di morte del lavoratore, e quella di cui all'art. 590 c.p. per l'ipotesi di infortunio sul lavoro o malattia professionale — venga integrata dalla violazione della regola cautelare sottesa al caso concreto. L'assetto legislativo approntato in tema di sicurezza sul lavoro si compone, come si è visto, anche di una disciplina speciale che attualmente vede come suo principale referente normativo il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, noto, altrimenti, come Testo unico delle leggi in materia di sicurezza. Si tratta, in particolare, di un provvedimento che, in attuazione dell'art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, ha provveduto a riordinare in un unico testo normativo i decreti legislativi derivanti dall'adozione delle direttive europee, fra tutti il d.lgs. 626/1994, e le norme di igiene e sicurezza precedenti come il d.P.R. 303/1956 e il d.P.R. 547/1955, operando una vera e propria riforma delle leggi previgenti in materia così come espressamente abrogate dal disposto dell'art. 304 del T.U. Inoltre, in base alla medesima legge delega, è stato emanato il d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106, rubricato Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il quale ha apportato delle modifiche, specie sul piano sanzionatorio, dell'impianto originario del T.U. da ultimo, l'importo delle sanzioni ivi previste è stato rivalutato, a decorrere dal 1 luglio 2013 e per le sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data, ai sensi dell'art. 306, comma 4-bis, d.lgs. 81/2008 come sostituito dall'art. 9, comma 2, d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 99. Tendenzialmente i reati previsti dal T.U. si caratterizzano per essere reati c.d. propri ovvero esclusivi nei quali la qualifica del soggetto agente determina l'offensività del fatto. Detto altrimenti, si tratta di reati che non possono essere commessi da chiunque bensì da un limitato gruppo di persone individuate ope legis. Uno degli aspetti più importanti e discussi in subiecta materia riguarda proprio l'individuazione dei soggetti che sono tenuti a garantire la sicurezza sul lavoro e che, di conseguenza, possono risponderne anche penalmente. A tal fine, sono stati predisposti tre criteri interpretativi: il primo fa riferimento alla rappresentatività, secondo cui l'obbligo primario di osservare e far rispettare tutte le disposizioni che regolano l'attività dell'azienda ricade sul legale rappresentante o sul titolare dell'impresa; il secondo fa leva sul criterio formale della titolarità del rapporto di lavoro; il terzo si basa, invece, sul criterio sostanziale delle mansioni effettivamente svolte in relazione alle distribuzioni delle competenze. A tal proposito, occorre, segnalare che non costituisce elemento necessario la qualifica richiamata dalla legge incriminatrice, poiché gli obblighi di prevenzione che fanno capo ai garanti sono strettamente correlati a compiti e funzioni esercitati secondo un principio di effettività, che esclude la rilevanza della semplice investitura formale. Di qui, l'assoluta prevalenza delle funzioni in concreto esercitate rispetto alla carica formalmente attribuita al soggetto agente. Ne consegue che un soggetto potrà essere definito datore di lavoro, dirigente o preposto avendo riguardo, per l'individuazione, ai parametri generali caratterizzanti le qualifiche, ma complementarmente tenendo conto dell'effettività delle attribuzioni e/o mansioni proprie di quella qualifica Destinatario privilegiato, e non potrebbe essere altrimenti, delle norme in materia prevenzionistica è, anzitutto, il datore di lavoro, al quale sono affiancate, come suoi collaboratori, due figure tipiche: il dirigente ed il preposto. Il novero dei soggetti qualificati si è progressivamente ampliato nel corso del tempo, sino a ricomprendere oggi nel T.U. figure del tutto innovative come il medico competente, i componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c., i lavoratori autonomi, i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti nonché il committente, il responsabile dei lavori in appalto, il coordinatore per la progettazione e il coordinatore per la realizzazione di tali opere nella specifica disciplina dedicata ai cantieri temporanei o mobili. Si prevedono, altresì, categorie di soggetti estranei alla struttura imprenditoriale del datore di lavoro, come i progettisti, i fabbricanti, i fornitori e gli installatori. Senza dimenticare che il destinatario di numerosi precetti e, conseguentemente, delle sanzioni penali di volta in volta previste, sono anche gli stessi lavoratori. Gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro
Il d.lgs. 81/2008, che prescrive misure per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in tutti i settori di attività, privati e pubblici, non si è limitato ad un importante riordino unitario della legislazione, ma ha altresì introdotto novità significative peraltro in tema di valutazione dei rischi. Se la responsabilità della valutazione è anzitutto del datore di lavoro, il percorso attraverso cui la valutazione viene compiuta deve corrispondere ad alcuni passaggi e collaborazioni indicate dall'art. 29 d.lgs. 81/2008, al termine dei quali il datore di lavoro elabora un documento, le cui caratteristiche sono definite dall'art. 28 d.lgs. 81/2008. In particolare, la legge impone che sia redatto un documento che contenga una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa (lett. a); inoltre, tale documento deve indicare le misure di prevenzione e di protezione attuate e i dispositivi di protezione individuali adottati, a seguito della valutazione dei rischi (lett. b), nonché le procedure per l'attuazione delle misure da realizzare e i ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere (lett. d); infine, nel documento deve essere previsto il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza (lett. c).
Misure di tutela e obblighi
Il datore di lavoro (la cui definizione, in materia di sicurezza, è contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 81/2008) ha l'obbligo della gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro: gestione che si esplica, in particolare, attraverso la predisposizione e l'adozione di misure generali di tutela. Ai sensi dell'art. 15 d.lgs. 81/2008, le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza; b) la programmazione della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive dell'azienda nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente e dell'organizzazione del lavoro; c) l'eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico; d) il rispetto dei principi ergonomici nell'organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo; e) la riduzione dei rischi alla fonte; f) la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso; g) la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio; h) l'utilizzo limitato degli agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro; i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale; l) il controllo sanitario dei lavoratori; m) l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione; n) l'informazione e formazione adeguate per i lavoratori; o) l'informazione e formazione adeguate per dirigenti e i preposti; p) l'informazione e formazione adeguate per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; q) le istruzioni adeguate ai lavoratori; r) la partecipazione e consultazione dei lavoratori; s) la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; t) la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l'adozione di codici di condotta e di buone prassi; u) le misure di emergenza da attuare in caso di primo soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave e immediato; v) l'uso di segnali di avvertimento e di sicurezza; z) la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti. Data la numerosità delle misure di tutela della sicurezza e dell'igiene del lavoro, il datore di lavoro può delegare, ove non sia espressamente vietato, le proprie funzioni di garanzia, con l'osservanza di precisi limiti e condizioni elencati nell'art. 16 d.lgs. 81/2008 (Delega di funzioni), restando sempre in capo al datore di lavoro l'obbligo di vigilare sulla corretta attuazione delle funzioni trasferite.
Tra i requisiti di validità della delega di funzioni, l'art. 16 del T.U. richiede: che risulti da atto scritto recante data certa; che sia stata accettata dal delegato sempre per iscritto; che il delegato possegga i requisiti di professionalità ed esperienza adeguati alla specifica natura delle funzioni delegate; che la delega attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla natura delle funzioni delegate e, infine, che al delegato sia attribuita l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento di tali funzioni. Va osservato come l'obbligo di vigilanza da parte del datore di lavoro possa essere ritenuto assolto in caso di efficace attuazione del modello di organizzazione e gestione di cui all'art. 30, comma 4, del T.U., da riesaminare allorquando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico. Tale modello viene adottato in funzione preventiva dalle società che ex art. 6 del d.lgs. 231/2001 vogliano andare esenti da responsabilità penale-amministrativa in caso di commissione di uno dei reati presupposto (artt. 24 e ss. del d.lgs. 231/2001) da parte di un soggetto apicale. Il d.lgs. 106 del 2009 ha introdotto il comma 3-bis, che prevede la facoltà di sub-delega, riconosciuta al delegato, limitatamente a specifiche funzioni. Ne consegue che il delegante non possa spogliarsi integralmente degli obblighi trasferitigli dal datore di lavoro. Per essere valida ed efficace nei confronti del delegato originario, così da liberarlo dai relativi obblighi prevenzionistici, la sub-delega deve essere concessa previa intesa con il datore di lavoro. Anche per il delegante vale il principio dell'obbligo di vigilanza nei confronti del sub-delegato. In buona sostanza, al datore di lavoro è assegnata la responsabilità di tutti gli obblighi relativi alla attuazione del sistema di prevenzione e di tutela della sicurezza, distinguendo tra obblighi propri e indelegabili e obblighi delegabili.
In sostanza, il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella generale di cui all'art.2087 c.c., è il garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo gli viene addebitato in forza del principio che il non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo (art. 40, comma 2, c.p.). Pertanto, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza (Cass. pen., Sez. IV, 10 dicembre 2008, n. 4123). All'individuazione degli obblighi del datore di lavoro e del dirigente (sanzionati dall'art. 55, del T.U.) soccorre il dettagliato elenco previsto dall'art. 18 d.lgs. 81/2008 a cui si rimanda, tenendo a mente che non tutti gli obblighi del datore di lavoro e dei dirigenti sono ivi esposti. Per completezza, occorre rilevare che il T.U. prescrive obblighi, sanzionati penalmente, anche a carico di altri soggetti, tra i quali spiccano: il preposto (art. 19) – figura che, al pari del datore di lavoro e del dirigente, è individuato direttamente dalla legge e dalla giurisprudenza come soggetto cui competono poteri originari e specifici, differenziati tra loro e collegati alle funzioni ad essi demandati, la cui inosservanza comporta la diretta responsabilità del soggetto iure proprio (Cass. pen., Sez. IV, 1 dicembre 2009, n. 1502); i lavoratori (art. 20); i componenti dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c., i lavoratori autonomi (i soggetti che compiono opere o servizi ai sensi dell'art. 2222 c.c.), i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti (art. 21); i progettisti (art. 22); i fabbricanti e i fornitori (art. 23); gli installatori (art. 24); il medico competente (art. 25). Il mancato rispetto di degli obblighi ivi descritti comporta l'applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 56-59 d.lgs. 81/2008. Le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della possibile negligenza con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Esse mirano, sostanzialmente, ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose e sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche in riferimento a quelli ascrivibili a imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, in quanto le eventuali imprudenze del lavoratore devono essere coperte dalla responsabilità datoriale, sia per dovere generale del neminem laedere, sia perché le leggi sulla sicurezza sul lavoro tutelano in primis l'incolumità del lavoratore; tale garanzia è, difatti, un obbligo contrattuale (Cass. pen., Sez. III, 25 gennaio 2007, n. 7328).
Valutazione dei rischi
L'art. 28 del d.lgs. 81/2008, relativo alla valutazione dei rischi e al documento sulla sicurezza costituisce una sorta di statuto della sicurezza aziendale. Il documento deve contenere la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, l'individuazione di misure di prevenzione e protezione, l'individuazione delle procedure, nonché di ruoli che vi devono provvedere, affidati a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Si tratta, quindi, di una sorta di mappa dei poteri e delle responsabilità cui ognuno dovrebbe poter accedere per acquisire le informazioni pertinenti (Cass. pen., Sez. IV, 13 settembre 2013, n. 37738).
La violazione degli obblighi inerenti alla valutazione dei rischi ha assunto nella giurisprudenza un ruolo determinante quale condotta omissiva del datore di lavoro causalmente associabile a un evento di danno (ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 29 novembre 2012, n. 2569; Cass. pen., sez. IV, 24 maggio 2012, n. 36269; Cass. pen., sez. IV, 12 aprile 2012, n. 3117); beninteso, specificando che si esclude la responsabilità penale del datore di lavoro, qualora venga escluso qualsiasi vincolo causale tra la incompletezza delle previsioni di rischio nel documento di valutazione peraltro regolarmente redatto e il meccanismo che ha cagionato le lesioni oggetto di processo (Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 2012, n. 39880). Qualora in un medesimo ambiente operino stabilmente più lavoratori, dipendenti da datori di lavoro diversi e non legati tra loro da alcun rapporto di appalto o da altro rapporto giuridicamente rilevante, ciascun datore di lavoro è tenuto alla elaborazione del documento di valutazione dei rischi, ai sensi degli artt. 28 e 29 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Cass. pen., Sez. III, 20 gennaio 2015, n. 17119). Il D.V.R., ha il compito di rilevare rischi che possono essere individuati con la diligenza richiedibile al datore di lavoro e di individuare le misure, anche procedurali, idonee a fronteggiare. Il modello di organizzazione e gestione, che deve esser utilizzato dagli enti forniti di personalità giuridica, alle società e associazioni, anche prive di responsabilità giuridica, è idoneo ad avere efficacia esimente purché sia adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) all'acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate. Infortunio sul lavoro
L'intera disciplina della sicurezza e dell'igiene sul lavoro è orientata a prevenire l'evento lesivo sub specie di infortunio sul lavoro o malattia professionale; evento il cui verificarsi segna, di tutta evidenza, il discrimine fra intervento penale preventivo, secondo il modello della contravvenzione di pericolo, e intervento penale successivo, secondo il modello delittuoso di danno. In sostanza, qualora si determini l'evento lesivo (morte, infortunio o malattia), è necessario, al fine dell'imputabilità dell'evento stesso, che la fattispecie di delitto colposo - rispettivamente quella di cui all'art. 589 c.p. per l'ipotesi di morte del lavoratore, e quella di cui all'art. 590 c.p. per l'ipotesi di infortunio sul lavoro o malattia professionale - venga integrata dalla violazione della regola cautelare sottesa al caso concreto. In linea generale, si ritiene che l'infortunio si caratterizzi e si distingua dalla malattia professionale, per essersi verificato in ragione di una causa violenta e si precisa che, in tal caso, i fattori che arrecano il danno operano in un'unica soluzione, e comunque non oltre l'ambito della giornata lavorativa. Per malattia professionale, viceversa, si intende quella patologia la cui contrazione è eziologicamente legata all'esposizione prolungata nel tempo, in occasione dell'attività lavorativa, ad un agente patogeno. La legge prevede una specifica assicurazione obbligatoria per indennizzare i lavoratori che subiscono uno di questi eventi e che copre anche gli infortuni che si verificano nel tragitto che il lavoratore compie per recarsi sul luogo di lavoro o per rientrare a casa (c.d. infortunio in itinere). In particolare, l'infortunio sul lavoro è definito dalla legge come l'evento traumatico, avvenuto per una causa violenta sul posto di lavoro o anche semplicemente in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un'inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro per più di tre giorni (art. 2, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124). La nozione di causa violenta, è stata però interpretata nel tempo in modo sempre più ampio, tanto che si fanno rientrare nel concetto anche tutta una serie di reazioni psicofisiche del lavoratore che avvengono in condizioni di particolare stress o di fatica dovuti alle condizioni concrete di lavoro. Tra i reati contestati nel settore della sicurezza del lavoro e, più, in generale, nell'ambito della tutela del bene vita ed integrità fisica del lavoratore, assumono nella prassi giudiziaria un ruolo di spicco l'omicidio e la lesione personale, in particolare nella forma colposa. Naturalmente, l'ambito applicativo degli artt. 589 e 590 c.p. è circoscritto alle sole ipotesi in cui la violazione di una norma cautelare antinfortunistica abbia determinato in concreto il verificarsi di un incidente sul lavoro. È noto che per i delitti colposi testé citati è previsto, ai sensi degli artt. 589, comma 2 e art. 590, comma 3, c.p., un trattamento sanzionatorio maggiormente rigoroso qualora il fatto venga commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Peraltro, nelle ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla violazione di codeste norme, è previsto il raddoppio dei termini prescrizionali (art. 157, comma 6, c.p.). Ai fini della sussistenza delle aggravanti in oggetto, è sufficiente la violazione di regole di comune prudenza: per norma sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, di cui agli artt. 589 e 590 c.p., deve infatti intendersi, non solo, l'insieme delle disposizioni contenute nelle leggi, specificamente dirette alla disciplina medesima, ma anche di tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che tendono, in genere, a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi.
In riferimento alla figura del subappaltante, la giurisprudenza ha precisato che egli è esonerato dagli obblighi di protezione solo nel caso in cui i lavori subappaltati rivestano una completa autonomia, sicché non possa verificarsi alcuna sua ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatore e che in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente la condotta del datore di lavoro, che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalle norme antinfortunistiche (Cass. pen., Sez. IV, 17 dicembre 2015, n. 49817). Inoltre, si è affermata la responsabilità ex art. 590 c.p. del datore di lavoro per l'infortunio occorso al lavoratore, risultando provato il nesso causale tra la omessa somministrazione al lavoratore di un'adeguata formazione, in una lingua che egli avrebbe potuto comprendere (essendo egli di nazionalità indiana) e non già in lingua italiana, circa le modalità con cui procedere all'operazione che stava eseguendo e l'infortunio, atteso che se il lavoratore avesse avuto una formazione adeguata, non avrebbe agito con le modalità che avevano portato al fatto lesivo (Cass. pen., Sez. IV, 6 marzo 2015, n. 14159). Malattia professionale
La malattia professionale (detta anche tecnopatia), a differenza dell'infortunio, non è la conseguenza immediata di un evento violento accaduto sul posto di lavoro in un determinato giorno ma è frutto dell'azione lenta e continua di innumerevoli agenti e fattori nocivi presenti nell'ambiente di lavoro o comunque correlati a quest'ultimo. Il lavoratore, spesso, non ha l'immediata percezione del pericolo a cui è esposto, rendendosi conto del danno alla propria salute solo dopo molto tempo e comunque quando la malattia oramai è conclamata. Da qui le difficoltà in relazione all'individuazione del momento consumativo e all'accertamento del nesso condizionalistico. Quanto al primo aspetto, secondo alcuni occorre giuridicamente ancorare il concetto di malattia alla apprezzabilità clinica della forma morbosa, senza tener conto delle fasi di incubazione precedente, in cui appaiono variazioni dei livelli cellulari o umorali ma non vi sono ancora ripercussioni funzionalmente apprezzabili. Il reato di lesioni personali colpose è tradizionalmente considerato un reato istantaneo, incentrato strutturalmente sull'evento. Tuttavia, può accadere, soprattutto con riferimento alle malattie professionali, che la malattia insorga o si aggravi a distanza di tempo dalla cessazione della condotta. Tale aspetto incide sul tempus commissi delicti, che è a sua volta necessario per determinare la data di decorrenza della prescrizione ex art. 157 c.p. In questi casi, la soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità, con giurisprudenza consolidata, è quella che fa coincidere la consumazione del reato con il momento di insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, essendo irrilevanti la durata e l'inguaribilità della malattia ai fini della individuazione del momento consumativo (Cass. pen., Sez. fer., 22 gennaio 2015, n. 3148; Cass. pen., Sez. IV, 6 marzo 2012, n. 8904; Cass. pen., Sez. IV, 2 ottobre 2003, n. 37432). Per quanto riguarda il secondo aspetto problematico preso in esame, e cioè l'accertamento del nesso causale, fermo restando il principio condizionalistico di cui all'art. 41 c.p., occorre avvalersi dei criteri indicati in medicina del lavoro: a) il criterio cronologico, per evidenziare eventuali preesistenze della tecnopatia rispetto al periodo di esposizione al rischio oggetto dell'indagine penale; b) il criterio di efficienza lesiva, parametrato sui livelli minimi di idoneità quantitativa, per valutare la rilevanza delle concause di natura non professionale; c) il criterio di esclusione di altre cause, per distinguere nel quadro clinico se l'origine della patologia sia da riferirsi a fattori spontanei (predisposizione del soggetto), voluttuari (come il fumo di sigarette), piuttosto che professionali. Un ruolo significativo, anche se non decisivo, riveste l'indagine epidemiologica relativa alla diffusione di una medesima patologia professionale all'interno della medesima azienda. Va rilevato, altresì, che la possibilità di accertare il nesso causale non è preclusa dalla circostanza che l'esposizione del lavoratore all'agente nocivo sia rimasta entro i limiti massimi o medi di esposizione professionale agli agenti nocivi (T.L.V.: valori limiti di soglia), secondo le raccomandazioni delle agenzie pubbliche o private competenti nei singoli settori dell'esposizione. Infine, è necessario tenere a mente che anche il grado di sviluppo raggiunto dalle conoscenze scientifiche può costituire un fattore determinante nell'accertamento della relazione causale. Spesso, infatti, il progresso scientifico consente di associare ad uno specifico agente nocivo patologie originariamente non attribuitegli, confuse con malattie comuni. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla lavorazione dell'amianto cui, per decenni, è stata associata unicamente la patologia dell'asbestosi e, solo in seguito, se ne è potuta affermare la relazione causale anche con il mesotelioma pleurico. Si tratta, dunque, di un tema reso controverso dalla lunga latenza che caratterizza le malattie rispetto all'esposizione nociva e che è reso complicato dalla loro possibile multifattorialità e dall'incertezza teorica che riguarda l'utilizzazione del sapere scientifico. In particolare, lo strumento epidemiologico di accertamento causale, che applica il criterio della condicio sine qua non tra il fattore di rischio e le sue conseguenze sulla popolazione degli esposti presenta un limite: nonostante sia in grado di accertare con ragionevole certezza che un numero di soggetti esposti ad un determinato fattore di rischio ha contratto una certa patologia a causa dell'esposizione, non consente di individuare, tra tutti gli esposti che hanno contratto la patologia, chi si sarebbe ammalato ugualmente e chi non si sarebbe ammalato senza l'esposizione. Il modello proposto dalle Sezioni unite del 2002, nella nota sentenza Franzese, consente al giudice di utilizzare le leggi epidemiologiche nel giudizio di accertamento causale, in quanto leggi scientifiche dal (basso) contenuto probabilistico come quelle dell'epidemiologia possono venire in considerazione del giudizio sulla causalità generale (respingendo così l'indirizzo del 100%) ma impone, sul piano della causalità individuale, di escludere che, in relazione alla singola patologia, siano disponibili spiegazioni alternative alla sua insorgenza. Tale modello richiede, pertanto, al pubblico ministero – sia nei casi di patologie multifattoriali (come la maggior parte di quelle che hanno natura oncologica) sia nelle ipotesi in cui, pur trattandosi di patologie monofattoriali come il mesotelioma, l'imputato sia responsabile solo di una frazione temporale dell'esposizione (poiché durante la vita lavorativa della vittima si sono succeduti più soggetti ai vertici dell'impresa) – di provare non solo la correlazione epidemiologica tra la sostanza e la patologia in questione ma anche che il singolo evento patologico non sia addebitabile ad un fattore di rischio diverso da quello lavorativo (ad esempio il fumo di sigarette per il tumore al polmone), oppure che il protrarsi dell'esposizione abbia accelerato l'insorgenza della singola patologia (nel caso di successione nel tempo di soggetti responsabili per l'esposizione).
Per quel che concerne la tutela assicurativa delle malattie professionali, il nostro ordinamento prevede con l'introduzione del sistema misto, a seguito delle sentenze nn. 179 e 206 della Corte costituzionale nel 1988 e dell'art. 10 del d.lgs. 38 del 2000, le malattie professionali che sono ammesse alla tutela assicurativa sono: a) le malattie professionali “tabellate”; b) le malattie professionali “non tabellate”. Le prime sono quelle contratte nell'esercizio e a causa di determinate lavorazioni, elencate oggi nel d.m. 9 aprile 2008 che reca, ai sensi degli artt. 3 e 211 T.U. 30 giugno 1965, n. 1124 ed art. 10, comma 3, del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, le tabelle delle malattie professionali nell'industria e nell'agricoltura. Tali tabelle riportano oltre che la malattia e la lavorazione, stabilendo in tal modo la presunzione legale dell'origine professionale, il periodo massimo di indennizzabilità dalla cessazione dal lavoro. Le malattie non tabellate sono, invece, quelle non elencate nelle tabelle di cui sopra, peraltro oggi maggioritarie, e sono quelle per le quali incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'eziologia professionale della malattia. Casistica
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