La responsabilità degli amministratori non esecutivi di s.p.a. nella giurisprudenza più recente

Umberto Tombari
Alessandro Luciano
05 Settembre 2017

È noto come la dialettica tra gli amministratori delegati e quelli privi di incarichi esecutivi rappresenti un aspetto centrale della governance delle società per azioni. Più in particolare, sul presupposto che sul consiglio di amministrazione gravino compiti riconducibili non solo alla gestione e all'organizzazione dell'impresa, ma anche al controllo della medesima, si ritiene pacificamente che gli amministratori delegati siano tenuti a curare la c.d. day by day conduct, mentre i consiglieri privi di incarichi esecutivi debbano fornire un apporto centrale in merito alle funzioni che residuano in capo al plenum e, in particolare, all' “alta amministrazione” e alla supervisione sulla gestione.
Premessa: il regime in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi a seguito della riforma del diritto societario del 2003

È noto come la dialettica tra gli amministratori delegati e quelli privi di incarichi esecutivi rappresenti un aspetto centrale della governance delle società per azioni. Più in particolare, sul presupposto che sul consiglio di amministrazione gravino compiti riconducibili non solo alla gestione e all'organizzazione dell'impresa, ma anche al controllo della medesima, si ritiene pacificamente che gli amministratori delegati siano tenuti a curare la c.d. day by day conduct, mentre i consiglieri privi di incarichi esecutivi debbano fornire un apporto centrale in merito alle funzioni che residuano in capo al plenum e, in particolare, all' “alta amministrazione” (ovvero all'indirizzo strategico) e alla supervisione sulla gestione (nella giurisprudenza più recente v. Cass., 7 dicembre 2016, n. 25085, in questo portale, con nota di Riolfo, La delega gestoria nelle s.r.l.: principio di collegialità, norme imperative e deroghe statutarie; Cass., 9 novembre 2015, n. 22848, in questo portale, con nota di Caruso, Responsabilità degli amministratori privi di deleghe, nonché su Riv. dir. comm., 2016, II, 710 ss.; Trib. Bologna, 19 gennaio 2017. In dottrina cfr., in luogo di molti, Angelici, In tema di rapporti fra “amministrazione” e “controllo”, in Dialogo sul sistema dei controlli nelle società, a cura di Abbadessa, Torino, 2015, 150 ss.).

Nel vigore del regime normativo anteriore alla riforma del 2003, questa distinzione di compiti non si rifletteva adeguatamente sul piano della disciplina in tema di responsabilità. Più in particolare, la presenza di un obbligo di vigilare sul “generale andamento della gestione” che, ai sensi dell'art. 2392, comma 2, c.c., gravava su tutti gli amministratori, ha consentito alla giurisprudenza di consolidarsi nel senso di porre una sorta di “responsabilità oggettiva” di tutti i componenti dell'organo amministrativo, anche laddove la mala gestio fosse da addebitare a un singolo componente del medesimo (relativamente alla disciplina anteriore alla riforma del 2003, di un'estensione della responsabilità solidale degli amministratori tale da delineare una «responsabilità sostanzialmente oggettiva» dei medesimi parla espressamente, ad esempio, la Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 6/2003, § 6, III, 4. Nella dottrina più recente, v. Briolini, sub art. 2392, in Le società per azioni, Commentario diretto da Abbadessa e Portale, Milano, 2016, 1394. Nel senso della predetta responsabilità “sostanzialmente oggettiva” si veda, tra le tante, Cass., 21 luglio 2004, n. 13555).

La riforma del diritto societario del 2003 ha preso posizione in senso difforme alla prassi appena esposta ed è intervenuta allo scopo di “personalizzare” la responsabilità degli amministratori, prevedendo che la relativa fattispecie venga integrata unicamente laddove l'agente fornisca effettivamente un contributo causale rispetto alla realizzazione del danno (cfr., ancora, Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 6/2003, § 6, III, 4. In letteratura: F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. a dieci anni dalla riforma del 2003, Milano, 2013, 107 ss. Resta fermo, invece, il principio di irrilevanza dell'entità del contributo fornito dai singoli amministratori; sul punto v., tra le tante, Cass., 27 aprile 2011, n. 9384). A questo scopo il legislatore ha stabilito, per un verso, che la diligenza degli amministratori viene valutata in base al parametro della natura dell'incarico – il quale implica la necessaria considerazione dell'eventuale affidamento di deleghe esecutive – e delle specifiche competenze (cfr. art. 2392, comma 1, c.c.); per altro verso, il dovere di “vigilare” sul generale andamento della gestione è stato espunto dalla previsione ex art. 2392 c.c. (giova, tuttavia, evidenziare come, ai sensi dell'art. 2381, comma 3, c.c., sul consiglio di amministrazione continui a gravare il compito di “valutare” tale “generale andamento”, pur se sulla base di quanto viene riferito dai consiglieri delegati. Relativamente ai doveri che concretamente gravano sugli amministratori in ragione di tale compito, v. Cass., 9 gennaio 2013, n. 319).

Al fine di evitare che la carica di amministratore non esecutivo divenisse una “comoda sinecura” (l'espressione è di P. Abbadessa, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in Il nuovo diritto delle società - Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, Torino, 2006, 2, 501. Sulla volontà del legislatore della riforma di non ridurre «gli organi deleganti ad un ruolo meramente passivo» v., in giurisprudenza, Trib. Udine, 3 febbraio 2012), il legislatore ha imposto che, a prescindere dalle particolari mansioni loro affidate o dalle specifiche competenze che vantano, tutti gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato (art. 2381, comma 6, c.c.). La disposizione da ultimo richiamata, se inquadrata nel complesso delle regole concernenti i poteri e i doveri che gravano sul c.d.a. nella sua interezza – quali, tra gli altri, il compito di “valutare” il generale andamento della gestione, così come l'adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (art. 2381, comma 3, c.c.), nonché l'obbligo di qualsiasi consigliere di fare quanto necessario per impedire la realizzazione o per ridurre gli effetti degli atti pregiudizievoli dei quali ha avuto notizia (c.d. culpa in vigilando; cfr. art. 2392, comma 2, c.c.) – comporta senza dubbio una valorizzazione delle funzioni del plenum consiliare nell'ambito della governance societaria (in questo senso v., ex multis, L. Calvosa, Sui poteri individuali dell'amministratore nel consiglio di amministrazione di società per azioni, in Aa. Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società – Liber amicorum A. Piras, Torino, 2010, 372 ss.). Tale “valorizzazione”, se eccessivamente enfatizzata, potrebbe però portare, nella prassi, a nuove forme di responsabilità oggettiva degli amministratori non esecutivi e, quindi, a un recupero dei principi che con la recente riforma delle società si sono voluti superare (su questo rischio v., in luogo di molti, F. Bonelli, op. cit., 108).

A prescindere da tale “pericolo”, peraltro, i compiti degli amministratori regolati dalla disciplina di cui agli artt. 2392 e 2381 c.c. menzionata in precedenza si basano su clausole generali, ovvero su previsioni normative che, per loro natura, trovano concretizzazione solo ex post e, quindi, successivamente all'assunzione di una condotta specifica. Come noto, questa tecnica di disciplina, da una parte, rivela la sua “elasticità” e, dunque, l'idoneità a regolare qualsiasi situazione, dall'altra, implica considerevoli margini di incertezza con riguardo alle condotte che possono/devono essere legittimamente assunte dagli amministratori.

Le problematiche appena esposte rendono evidente l'interesse che può assumere un'indagine empirica volta a verificare le modalità di applicazione concreta delle regole suesposte e, più specificamente, funzionale a constatare in che termini e in presenza di quali condizioni la più recente giurisprudenza ha ritenuto che risulti effettivamente integrata la responsabilità degli amministratori non esecutivi di s.p.a.

Gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità: la colpa

È noto come gli elementi costitutivi della responsabilità degli amministratori nei confronti della società – alla quale si riconosce pacificamente natura contrattuale (nella giurisprudenza più recente, v. Cass. SS. UU., 23 gennaio 2017, n. 1641, in questo portale, con nota di Fanciaresi, Legittimazione del curatore all'azione di responsabilità verso gli amministratori e pagamenti preferenziali; Cass., 31 agosto 2016, n. 17441, in questo portale, con nota di Cengia-Mascia, La responsabilità degli amministratori non esecutivi di s.p.a. tra potere e dovere di informazione, nonché in Società, 2017, 218 ss.; Cass., 4 dicembre 2015, n. 24715; Trib. Prato, 15 febbraio 2017 in questo portale con nota di Cerisoli, La responsabilità solidale della banca con gli amministratori della società fallita per ricorso abusivo al credito; Trib. Roma, 24 agosto 2016, in questo portale, con nota di Liva, L'azione cautelare di revoca degli amministratori nella s.r.l. è strumentale all'azione di responsabilità) – consistano nell'assunzione di una condotta colpevole, nella presenza di un pregiudizio alla società e in un nesso di causalità tale da ritenere che il danno sia conseguito alla condotta illegittimamente assunta.

Soffermandosi sul primo dei summenzionati elementi – ovvero sull'assunzione di una condotta colpevole – giova, anzitutto, osservare come proprio l'attenta interpretazione di questo elemento della fattispecie possa consentire di evitare la responsabilità “oggettiva” dell'agente e, quindi, che l'amministratore non esecutivo risponda della condotta pregiudizievole assunta da altri come se sul medesimo gravasse una posizione di garanzia connessa alla carica rivestita.

Al riguardo occorre, in primo luogo, rilevare come la condotta oggetto di censura consista, solitamente, in un'omissione da parte dell'amministratore, al quale viene contestato che avrebbe dovuto assumere le iniziative necessarie a consentirgli di limitare o evitare il danno (art. 2392, comma 2, c.c.), ovvero, ancor prima, che avrebbe dovuto venire a conoscenza dei comportamenti pregiudizievoli (su tale concezione di “condotta colpevole” dell'amministratore non esecutivo v. Cass., 9 novembre 2015, cit.). Al fine di integrare la fattispecie in esame, pertanto, non è necessaria un'effettiva conoscenza del comportamento che ha materialmente cagionato l'evento dannoso, ma è sufficiente l'astratta conoscibilità del medesimo, tramite gli ordinari strumenti nella disponibilità dell'amministratore. Laddove siffatti strumenti non fossero esercitati si integrerebbe una violazione del più volte menzionato dovere di informazione ex art. 2381, comma 6, c.c. idonea, se considerata unitamente agli altri elementi indicati in precedenza, a consentire l'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 2392 c.c. nei confronti del consigliere non delegato (Cass., 9 novembre 2015, cit.).

I principi normativi appena esposti garantiscono che l'amministratore non risponda del pregiudizio cagionato da altri, ma che a tal fine sia valutato il reale contributo che costui ha apportato rispetto al fatto lesivo, pur se nei limiti di una condotta omissiva. Come già accennato in precedenza, però, laddove gli aspetti concernenti l'astratta “conoscibilità” del fatto lesivo venissero eccessivamente enfatizzati si imporrebbe sul consigliere non esecutivo una sorta di conoscenza onnicomprensiva, tale da implicare nuovamente, nei fatti, una sua responsabilità oggettiva (così sembra avvenire, ad esempio, in Trib. Prato, 14 settembre 2012, ove si arriva ad affermare che il fatto lesivo non è astrattamente conoscibile dall'amministratore esecutivo unicamente laddove l'amministratore delegato ponga in essere «condotte funzionali ad aggirare o ad impedire che l'amministratore non delegato ne venga a conoscenza»).

Si rende opportuno, pertanto, verificare come la giurisprudenza più recente abbia interpretato il dovere di azione informata ex art. 2381, comma 6, c.c., al fine di stabilire in quali condizioni un determinato fatto lesivo può essere ritenuto “conoscibile” da parte degli amministratori non esecutivi, con conseguente integrazione in capo ai medesimi del dovere di assumere le condotte più opportune al fine di evitare il danno o di ridurne la portata pregiudizievole.

(Segue) Conoscibilità della condotta dannosa e “segnali di allarme”: la colpa dell'amministratore non esecutivo nella giurisprudenza più recente

La problematica concernente il dovere degli amministratori (non esecutivi) di agire in modo informato è stata oggetto di alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, a parere della quale il presupposto della “conoscibilità” della condotta dannosa risulta integrato laddove vi siano “sintomi” che, se adeguatamente valutati, imporrebbero ai medesimi di esercitare i loro poteri informativi e di arrivare, in definitiva, a conoscere l'accadimento in questione. «Agli amministratori privi di deleghe è richiesto cioè non soltanto di essere passivi destinatari delle informazioni rese sua sponte dall'organo delegato, ma anche di assumere l'iniziativa di richiedere informazioni, in particolare allorché sussistano quei “segnali di pericolo” o “sintomi di patologia”, quali “indici rivelatori” o “campanelli d'allarme” del fatto illecito posto in essere – o che sta per essere posto in essere – dagli organi delegati» (in questi termini cfr. Cass., 9 novembre 2015, cit. In senso sostanzialmente conforme v. anche Cass., 31 agosto 2016, cit.; Trib. Bologna, 19 gennaio 2017, cit.; Trib. Milano, 31 ottobre 2016. Nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Udine, 3 febbraio 2012, cit., a parere del quale principi identici a quelli appena esposti si applicano anche agli amministratori di s.r.l. A conclusioni sostanzialmente assimilabili a quelle alle quali giunge la giurisprudenza di legittimità, si perviene anche in dottrina: cfr., in luogo di molti, Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell'impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, 309 s.; Montalenti, Amministrazione e controllo nelle società per azioni: riflessioni sostematiche e proposte di riforma, in Riv. soc., 2013, 54 s.; Angelici, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 693 ss.).

Resta inteso che, come sempre avviene quando si giudicano le condotte degli amministratori, la capacità dei medesimi di venire a conoscenza dei predetti “sintomi”, di comprendere che questi devono condizionare il loro l'operato e che, per quanto più interessa, li obbligano a chiedere integrazioni informative, sarà sì valutata ex post, ma con la ragionevolezza del giudizio ex ante [«diversamente il declivio verso la responsabilità oggettiva (...) si impernia pericolosamente». In questi termini Montalenti, La gestione dell'impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in RDS, 2011, 828. Su questo principio – che, come noto, è stato elaborato principalmente con riguardo ai limiti alla discrezionalità dei gestori nell'adozione delle scelte imprenditoriali (c.d. business judgment rule) – basti rimandare, nella giurisprudenza più recente, a Cass., 22 giugno 2017, n. 15470, in questo portale].

Se quanto sopra è vero, è possibile formulare due doveri positivi di condotta degli amministratori non esecutivi, in ragione dei quali costoro:

i) sono tenuti a chiedere agli amministratori esecutivi di integrare le informazioni già fornite ai sensi dell'art. 2381, comma 5, c.c., ovvero di formulare siffatta richiesta al presidente (cfr. art. 2381, comma 1, c.c.), laddove una tale necessità consegua ad una valutazione operata sulla base del canone di diligenza, commisurato alla natura dell'incarico affidato e alle specifiche competenze delle quali risultano titolari (Cass., 31 agosto 2016, cit. V. anche Trib. Bologna, 19 gennaio 2017, cit.; Trib. Milano, 31 ottobre 2016, cit.);

ii) una volta acquisita la conoscenza del fatto pregiudizievole, sono tenuti ad agire nel modo più utile e opportuno al fine di evitare il danno o, perlomeno, di limitarne la portata pregiudizievole (art. 2392, comma 2, c.c.). Tra tali condotte rientra, ad esempio, la richiesta al presidente di convocare il c.d.a., il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o dell'incarico in capo all'amministratore, l'invito di richieste scritte all'organo delegato al fine di invitarlo a desistere dal compimento dell'attività dannosa, l'impugnazione della deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all'autorità di vigilanza (Cass., 9 novembre 2015, cit. Sull'esonero da responsabilità dell'amministratore che ha fatto annotare il suo dissenso ex art. 2392, comma 3, c.c., v. ora Briolini, op. cit., 1397 ss.).

Pregiudizio alla società e nesso di causalità

La prova della violazione del dovere di agire in modo informato che grava sugli amministratori spetta alla parte attrice, la quale ha il compito di dimostrare che tra le informazioni effettivamente a disposizione dei consiglieri non esecutivi vi fossero “anomalie” tali da richiamare la loro attenzione, tenuto conto dei dati e delle notizie fornite, nonché della plausibilità delle medesime (Cass., 31 agosto 2016, cit.; Trib. Udine, 3 febbraio 2012, cit.). Tra siffatte “informazioni a disposizione” rientrano non solo quelle effettivamente comunicate al c.d.a., ma anche quelle che i consiglieri avrebbero potuto/dovuto conoscere se, in presenza dei “segnali di allarme” dei quali si è detto in precedenza, si fossero attivati con la necessaria diligenza (Cass., 9 novembre 2015, cit. In senso conforme cfr. Trib. Bologna, 19 gennaio 2017, cit.).

Inoltre, una volta dimostrato che la società ha effettivamente subito un pregiudizio, la parte attrice deve altresì provare che sussiste un nesso di causalità tra la condotta omissiva dell'amministratore non esecutivo e il predetto danno. Al fine di integrare l'ipotesi di responsabilità in esame occorre, in altri termini, dimostrare che l'esercizio degli strumenti giuridici dei quali effettivamente questi poteva disporre avrebbe impedito o limitato le conseguenze negative della gestione.

Per quanto, infine, attiene al danno, considerato che questo «è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente» l'attore deve indicarlo in concreto, ovvero con riferimento all'effettivo depauperamento patrimoniale che la condotta censurata ha cagionato alla società; diversamente la domanda sarebbe priva di oggetto (sul punto, pacifico, basti rimandare a Tribunale Milano, 28 settembre 2015).

La (maggiore) diligenza richiesta agli amministratori di società bancaria

Nell'analizzare le più rilevanti questioni in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi, occorre segnalare come si stia sempre più consolidando, sia in dottrina che in giurisprudenza, l'opinione secondo la quale la diligenza dei medesimi debba essere intesa nelle società bancarie in modo più “intenso” rispetto a quanto avviene nelle altre imprese societarie (nella letteratura più recente v., ad esempio, Guizzi, Interesse sociale e governance bancaria, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 2016, 801 ss.; Minto La speciale natura dell'incarico amministrativo in banca tra limitazioni alla discrezionalità organizzativa e vincoli sull'agire informato, in Giur. comm., 2015, II, 27 ss.; Frigeni, La governance bancaria come risk governance: evoluzione della regolamentazione internazionale e trasposizione nell'ordinamento europeo, in Regole e mercato, a cura di Mancini, Paciello, Santoro e Valensise, Bologna, 2016, 66 s.; Id. Prime considerazioni sulla normativa bancaria in materia di “organo con funzione di supervisione strategica”, in Riv. dir. comm., 2015, I, 494 ss.).

A tali conclusioni occorrerebbe pervenire, anzitutto, in ragione del disposto ex art. 26 T.U.B., secondo il quale gli “esponenti bancari” – categoria nella quale rientrano coloro che svolgono funzioni di amministrazione – devono essere dotati dei particolari requisiti indicati dalla legge, i quali, a loro volta, possono essere inquadrati quali “specifiche competenze” ex art. 2392, comma 1, c.c. Ugualmente è necessario considerare che la normativa secondaria prevede numerose disposizioni che enfatizzano i compiti informativi e di vigilanza che gravano sugli amministratori delle banche (v., ad esempio, Disposizioni di vigilanza della Banca d'Italia, tit. IV, cap. 11, sez. 2). Infine, è stato osservato che la peculiare diligenza alla quale i medesimi sono chiamati troverebbe giustificazione anche alla luce dei particolari interessi – sostanzialmente pubblicistici e sottoposti a tutela dalla previsione ex art. 47 Cost. – che risultano coinvolti nell'attività di tali imprese (Cass., 5 febbraio 2013, n. 2737. In senso conforme v. anche Cass., 9 novembre 2015, cit.).

A quanto sopra consegue che anche il dovere degli amministratori di agire informati ex art. 2381, comma 6, c.c., deve intendersi in modo più intenso nelle società bancarie. Conseguentemente la ricerca dei dati e delle notizie la cui conoscenza è necessaria al fine di avere adeguata conoscenza del business, così come al fine di contribuire a garantire il miglior governo dell'impresa, è superiore a quella imposta ai consiglieri di amministrazione delle altre società (Cass., 5 febbraio 2013, n. 2737, cit. In senso conforme v. anche Cass., 9 novembre 2015, cit.).

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