Conferimento d’azienda e successiva cessione delle partecipazioni: è cessione diretta d’azienda

Fabrizio Papotti
02 Agosto 2017

L'operazione che consiste nel conferimento di un ramo d'azienda in una società neocostituita e nella successiva cessione a terzi della partecipazione totalitaria, acquisita in tale società, può essere qualificata dagli Uffici dell'Agenzia delle Entrate come cessione d'azienda, grazie all'avallo della Corte di Cassazione e di un ormai consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità.
Massima

L'operazione che consiste nel conferimento di un ramo d'azienda in una società neocostituita e nella successiva cessione a terzi della partecipazione totalitaria, acquisita in tale società, può essere qualificata dagli Uffici dell'Agenzia delle Entrate come cessione d'azienda, grazie all'avallo della Corte di Cassazione e di un ormai consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità.

Con assai validi argomenti, la giurisprudenza di merito e la dottrina continuano, tuttavia, a criticare tale impostazione, mettendone in luce dubbi e perplessità e, soprattutto, evidenziando l'assenza di limiti posti all'operato degli Uffici e di oneri probatori a loro carico.

Il caso

La controversia ha avuto ad oggetto gli atti posti in essere da una società di capitali che ha, prima, conferito un ramo d'azienda in un'altra società, ricevendone la partecipazione nell'intero capitale sociale, e, poi, ha ceduto detta partecipazione ad una holding. Per entrambi gli atti l'imposta di registro era stata assolta correttamente in misura fissa. L'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate, con avviso di liquidazione, ha, invece, richiesto il pagamento dell'imposta di registro, ipotecaria e catastale in misura proporzionale, atteso che, a suo avviso, gli atti dovevano essere ricondotti ad un unico disegno negoziale: una cessione diretta d'azienda.

Il ricorso del contribuente contro l'avviso di liquidazione è stato accolto sia in primo che in secondo grado, ma l'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione.

La questione

La questione verte sull'interpretazione dell'art. 20 T.U.R. (Testo Unico dell'imposta di registro), rubricato “Interpretazione degli atti”, ai sensi del quale, l'imposta di registro, prescindendo dal titolo o dalla forma apparente, deve essere applicata tenendo conto dell'intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti.

Si fa riferimento a quell'indirizzo interpretativo secondo il quale l'Amministrazione finanziaria sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti civilistici e tributari tipici degli atti o negozi posti in essere dalle parti, ogni volta che tali effetti non appaiono – a suo avviso – conformi alla "causa reale" dell'operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all'atto. Impostazione che si fonderebbe sulla valorizzazione dell'art. 20 T.U.R. come norma generale antielusiva per l'imposizione di registro.

Ma la questione investe anche i limiti a cui gli Uffici sono sottoposti nell'esercizio della propria attività di rivisitazione e riqualificazione degli atti e riguarda anche gli oneri probatori a carico degli Uffici.

Le soluzioni giuridiche

I giudici della pronuncia in commento, oltre a censurare la sentenza di secondo grado, superano anche la propria precedente sentenza n. 2054 del 2017 (peraltro pronunciata dalla medesima sezione V della Corte di Cassazione), ritenendo non condivisibili gli argomenti proposti.

Secondo la sentenza n. 2054 del 2017, l'imposta di registro è imposta d'atto, con la conseguenza che per l'individuazione del reale contenuto dell'atto tassato è precluso il riferimento a dati extra-testuali, esterni all'atto stesso.

Una delle considerazioni più pregevoli della sentenza n. 2054/2017 era che: “se è indubitabile che l'Amministrazione in forza di tale disposizione [l'art. 20] non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l'atto risulta inquadrabile, pena l'artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”.

E, ancora, un atto può essere collegato strutturalmente ad altri negozi giuridici – concorrendo con questi alla formazione di un'unica fattispecie – purché vi sia identità di soggetto ed oggetto, cosa che non si verifica nel caso di specie, dove l'atto di conferimento vede per contraenti soggetti parzialmente diversi rispetto a quelli protagonisti della successiva cessione della partecipazione.

Per la pronuncia in commento, invece, la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo porta a privilegiare la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti. La conseguenza, secondo i giudici della Cassazione, è dover “riferire l'imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati”. Del resto, spiegano i giudici, la stessa imposta di registro si è evoluta passando da imposta relativa all'atto come “documento” ad imposta relativa all'atto come “negozio”. L'interprete deve interessarsi, quindi, alla causa reale del negozio ad alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguiti dai contraenti. Può, quindi, verificarsi che i diversi atti e contratti, legati tra loro da un collegamento funzionale, pur conservando una loro causa autonoma, siano finalizzati ad un unico regolamento di reciproci interessi e debbano essere valutati unitariamente.

Né, secondo i giudici, rileva che i diversi atti siano posti in essere tra soggetti diversi. Infatti, “la fattispecie del collegamento negoziale è configurabile anche quando i singoli atti siano stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, onde consentire il raggiungimento dello scopo divisato dalle parti”.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento, si assiste al passaggio da una interpretazione (dell'art. 20 T.U.R.) strettamente formalistica, per la quale rilevano gli atti in sé considerati e, soprattutto, gli effetti giuridici dei medesimi, ad un approccio più sostanzialistico, secondo il quale contano il negozio giuridico e gli effetti economici complessivamente ottenuti.

Ma, come giurisprudenza di merito e dottrina sostengono, tale approccio porta a conseguenze disastrose sul piano del diritto e della tutela delle garanzie per il contribuente.

Pur non nascondendo apprezzamento per alcune considerazioni svolte nella sentenza in commento, come, senz'altro, il disconoscimento della natura antielusiva dell'art. 20 del T.U.R., tuttavia non si possono certamente condividerne altre.

In primo luogo, l'assunto secondo cui gli effetti giuridici dell'operazione di conferimento di azienda e successiva cessione delle partecipazioni sono equivalenti a quelli della cessione d'azienda.

È, infatti, evidente che la “cessione d'azienda” ed il “conferimento di azienda, seguito dalla cessione delle partecipazioni”, producono effetti giuridici del tutto diversi, con profili di responsabilità e di rischio non sovrapponibili sic et simpliciter.

Infatti, da un punto di vista strettamente giuridico, le due operazioni portano a risultati differenti in relazione al rapporto che si instaura con i beni aziendali: il titolare della partecipazione non può vantare alcun diritto né alcun potere sui beni che costituiscono il complesso aziendale (ad esempio la facoltà di concedere i beni in affitto, di ipotecarne le componenti immobiliari, di disporne nei modi consentiti dalla legge). Diversamente, il cessionario di un'azienda ottiene la piena proprietà di ogni bene che costituisce il complesso aziendale trasferito ed è titolato ad esercitare i diritti tipici del proprietario.

Sotto il profilo della responsabilità, l'acquirente di un'azienda risponde, con tutto il suo patrimonio, dei debiti inerenti l'esercizio dell'azienda ceduta e che risultano dai libri contabili (art. 2560 c.c.). Medesima responsabilità è posta a suo carico anche per le obbligazioni nascenti dai rapporti di lavoro dei dipendenti, che seguono l'azienda trasferita. Infatti, l'acquirente è solidalmente responsabile con il cedente per i crediti che i dipendenti vantano nei confronti del datore di lavoro, alla data del trasferimento dell'azienda (art. 2112, comma 2, c.c.). Quanto, infine, alle obbligazioni di carattere tributario, il cessionario è solidalmente responsabile col cedente ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997.

Preoccupazioni destano, inoltre, alcune affermazioni della sentenza relative all'attività probatoria dell'Ufficio.

Si afferma, infatti, che “priva di rilievo risulta, allora, la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dell'operazione in quanto, una volta riconosciuto, alla luce dei principi innanzi enunciati, che ci si trova di fronte ad un caso di cessione d'azienda (o di ramo d'azienda), non è richiesta alcuna valutazione circa l'esistenza o meno di valide ragioni economiche atte a giustificare l'operazione medesima, per come strutturata, né tantomeno incombe sull'Amministrazione finanziaria alcun onere probatorio al riguardo”.

Inoltre, poiché la cessione totalitaria delle quote di una società ha la medesima funzione economica della cessione d'azienda (Cass. n. 24594/2015, Cass. n. 11666/2009), “al fine di ravvisare il collegamento negoziale è sufficiente una considerazione complessiva delle operazioni”.

Un'ulteriore considerazione si impone con riferimento al corredo probatorio di cui deve munirsi l'Ufficio. Infatti, il consolidamento dell'orientamento della Cassazione rafforza l'operato degli Uffici accertatori, che possono ricondurre ad unità (cessione d'azienda) una pluralità di atti, senza doversi procurare il corredo probatorio richiesto dalla norma antielusiva di cui all'art. 10-bis dello Statuto del contribuente. Dalle considerazioni svolte nella sentenza in commento non risulta, infatti, che l'Ufficio, ai fini della riqualificazione dell'atto, debba dimostrare la sussistenza della condotta abusiva (assenza di sostanza economica ed ottenimento di vantaggi fiscali indebiti), come richiesto dal comma 9 dell'art. 10-bis. Si assiste, pertanto, ad una riduzione della tutela del contribuente.

Sembrerebbe, in conclusione, che il potere discrezione degli Uffici nell'esercizio dell'attività riqualificatoria subisca ben pochi limiti (o, addirittura, nessuno), andando così a detrimento del rispetto delle garanzie a favore del contribuente.

L'incongruenza, come evidenziato da autorevole dottrina (A. Carinci, Dubbi di compatibilità comunitaria sulla riqualificazione del conferimento d'azienda con cessione di partecipazioni, il Fisco n. 20 del 2017), consiste nel fatto che l'attività riqualificatoria dell'ufficio porta alla creazione e tassazione degli effetti di un atto che non esiste, perché mai stipulato e mai venuto ad esistenza. E, come se non bastasse, tale riqualificazione produce conseguenze solo ai fini dell'imposta di registro e non anche in ambito giuslavoristico, commerciale o fiscale: non è, ad esempio, applicabile la responsabilità del cessionario di azienda, prevista dal citato art. 14 D.Lgs. n. 472/1997, proprio perché manca un atto di cessione di azienda.

Conclusioni

Le considerazioni svolte dimostrano ampiamente che l'indirizzo seguito dalla giurisprudenza di legittimità porta a conseguenze che si pongono in forte contrasto con la ratio della norma e con la certezza del diritto, posta a tutela del contribuente.

È auspicabile, dunque, un ripensamento della Cassazione, che sottoponga il potere di riqualificazione degli Uffici a limiti certi ed imponga loro un codice di condotta che li porti a rispettare gli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione.

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