Processo all’ente e conflitto d’interessi del legale rappresentante

Andrea A. Salemme
29 Febbraio 2016

Stante l'incompatibilità di cui all'art. 39 d. lgs. n. 231/01, che impedisce al legale rappresentante contestualmente indagato o imputato del reato presupposto di spendere il nome dell'ente nel procedimento a suo carico, è inefficace la nomina del difensore di quest'ultimo dal medesimo effettuata e con essa l'atto di costituzione in suo favore da tale difensore sottoscritto.
Massima

Stante l'incompatibilità di cui all'art. 39 del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che impedisce al legale rappresentante contestualmente indagato o imputato del reato presupposto di spendere il nome dell'ente nel procedimento a suo carico, è inefficace la nomina del difensore di quest'ultimo dal medesimo effettuata e con essa l'atto di costituzione in suo favore da tale difensore sottoscritto; di conseguenza, dovendo ritenersi l'ente privo ab initio di assistenza difensiva, il procedimento, insanabilmente nullo, va fatto regredire al momento in cui esso avrebbe avuto diritto alla designazione di un difensore d'ufficio.

Il caso

Si verte di un'ipotesi di truffa aggravata ai danni dello Stato sfociata nell'applicazione di un sequestro preventivo per equivalente nei confronti di una società che, nell'occasione, si era vista designare un difensore d'ufficio. In un secondo momento era intervenuto atto di costituzione della medesima, nondimeno in persona del legale rappresentante chiamato a rispondere in proprio della truffa, con il ministero di un difensore da questi nominato. Detto difensore avrebbe assistito la società sia all'udienza preliminare che in primo grado, viepiù proponendo appello avverso la sentenza di condanna.

La Corte territoriale riteneva inammissibile l'appello per incompatibilità del legale rappresentante ex art. 39, comma 1, d. lgs. n. 231/2001.

Sia il legale rappresentante in proprio, ancorché nell'interesse della società, sia quest'ultima, previa però ulteriore costituzione in persona di un nuovo legale rappresentante, con il ministero di un altro difensore, propongono ricorso per cassazione. La Suprema Corte dichiara inammissibile il mezzo del primo, ma accoglie quello della seconda, annullando le sentenze di primo e secondo grado con trasmissione degli atti al G.U.P. presso il tribunale competente ai fini della celebrazione dell'udienza preliminare in ossequio alla disciplina sull'assistenza difensiva della società.

Le questioni giuridiche

Separatezza delle posizioni processuali delle persone fisiche e dell'ente.

La sentenza in commento presenta due motivi di interesse.

Il primo riguarda l'affermazione a termini della quale, pur in caso di simultaneus processus, l'imputato-persona fisica non ha legittimazione e a fortiori interesse ad impugnare il capo di sentenza relativo all'imputato-ente anche qualora ne sia amministratore e socio. La Suprema Corte ha buon agio a sottolineare il dato testuale dell'art. 7 D.Lgs. n. 231/2001, che, ai primi due commi, identifica nell'ente e soltanto in esso il soggetto titolare del potere di proporre impugnazione.

Il punto ha rilievo per dimostrare che, anche sul piano processuale, il rapporto giuridico corrente con l'ente si mantiene altro e distinto rispetto a quello, in ipotesi parallelo, corrente con la persona fisica, la cui responsabilità penale è pur tuttavia idonea a fondare la responsabilità sanzionatoria dell'ente (nell'interesse o a vantaggio del quale la prima – giusta il criterio di attribuzione soggettiva indicato dall'art. 5 – ha commesso il fatto di reato).

Del resto, già sul piano del diritto sostanziale, l'enunciazione della regola dell'autonomia della responsabilità sanzionatoria dell'ente è contenuta a chiare lettere nel comma 1 dell'art. 8, secondo cui la responsabilità dell'ente sussiste anche quando: a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia”.

Ragionando del ribaltamento processuale di detta regola, par chiaro che un collegamento tra il reato ascritto alla persona fisica e l'illecito amministrativo ascritto all'ente è di per se stesso necessario e comunque rilevante. Ha avuto occasione di occuparsene funditus Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170, che, a mo' di sviluppo del principio di correlazione tra imputazione e sentenza espresso dall'art. 521 c.p.p., si è data peso di chiarire che il reato contestato alla persona fisica deve corrispondere a quello chiamato a fungere da presupposto per la responsabilità della persona giuridica”. Tenuto presente che siffatto principio scaturisce da un caso in cui – sopravvenuto il fallimento della società, con conseguente imputazione alla persona fisica del delitto di bancarotta societaria impropria, non incluso nella lista nera ex artt. 24 ss. – il Massimo Consesso ha escluso la possibilità di proseguire l'azione contro l'ente per i delitti ex artt. 2621 ss. c.c. originariamente contestati e, per vero, assorbiti nella bancarotta, il collegamento dianzi evidenziato si risolve in una corrispondenza contestativa”, che deve sussistere parallelamente nel duplice ordine sostanziale e procedimentale sino al momento della decisione. Tale è il prezzo tributato al principio di legalità, questa volta in senso (solo) sostanziale e non più (anche) processuale, giacché, se, nello sviluppo del parallelismo, si ammettesse l'eventualità di una contestazione alla persona fisica concernente un reato non compreso nella lista nera, l'ente risponderebbe di un fatto, scaturente da detto reato, non preveduto dalla legge come amministrativamente sanzionato a suo carico.

Nondimeno il collegamento finisce qui, perché, laddove il discorso non investa profili di legalità sanzionatoria (che ripercorre, ancorché a livello soltanto di legge ordinaria, il principio di legalità penale), ma esclusivamente questioni processuali, gemma l'autonomia della responsabilità penale della persona fisica e della responsabilità sanzionatoria dell'ente sottoforma della separatezza delle azioni contro l'una e l'altro dirette. Infatti è noto come, sull'addentellato del comma 1 dell'art. 8, Cass., Sez. V, 4 aprile 2013, n. 20060, sia giunta ad affermare che all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione”, guarda caso perché entra in gioco il principio sotteso alla scelta legislativa di configurare la responsabilità dell'ente “anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato. Il lavoro di cesello dei Supremi Giudici è proseguito nell'ambito della fase conclusiva dello stesso procedimento, avendo Cass., Sez. I, 2 settembre 2015, n. 707, esplicitato che può configurarsi la responsabilità dell'ente anche quando l'autore del reato presupposto non è individuato e perseguito, in quanto all'ente è mosso un autonomo addebito di colpa, che consiste nel non aver ottemperato all'obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione dei reati tipizzati dagli artt. 24 ss. mediante la predisposizione di un idoneo, e dunque efficace, modello organizzativo.

Autonomia della posizione processuale dell'ente come specchio dell'autonomia della sua responsabilità sostanziale. Alla stregua di quanto detto sin qui, è conforme a sistema che la persona fisica imputata del reato presupposto non possa impugnare il capo condannatorio relativo all'ente anche riveste le qualifiche di rappresentante “o” – e persino “e” (come nel caso che occupa) – di socio. Dev'essere l'ente ad occuparsi di se stesso, perché è l'ente – indipendentemente dalla persona fisica – destinatario del precetto primario di prevedere e prevenire i reati inseriti nella lista nera e quindi chiamato a rispondere della sua violazione, per l'effetto a sé e solo a sé ascrivibile.

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, rigetta la tesi difensiva intesa a dimostrare il contrario attraverso il richiamo all'art. 72.

Non solo tale prospettiva è condivisibile, ma si può persino aggiungere che l'art. 72, replicante il comma 1 dell'art. 587 in tema di impugnazioni in generale e il comma 5 dell'art. 464 c.p.p. in tema di opposizione a decreto penale di condanna, rappresenta l'estensione di una regola di favore in realtà afferente in via originaria soltanto ai concorrenti nel reato ex art. 110 c.p. (come reso evidente dal tenore letterale del comma 1 dell'art. 587, cit., che esige di essere applicato nel caso di concorso di più persone nello stesso reato”, e del comma 5 dell'art. 464 c.p.p., per cui, ricorrendone i presupposti, “il giudice revoca il decreto di condanna anche nei confronti degli imputati dello stesso reato che non hanno proposto opposizione). A ben guardare, il simultaneus processus tra persone fisiche ed ente è solo il punto di convergenza processuale di azioni, non solo autonome, ma distinte per causa petendi in quanto scaturenti da fatti di per sé diversi: il fatto di reato per ciascuna persona fisica ed il fatto della mancata adozione di sistemi prevenzionistici rispetto a detto fatto di reato per l'ente. Al riguardo, insegna Cass., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, che la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto”.

Dicevasi che l'art. 72 enuncia una regola di favore. Lo si coglie dal predicato utilizzato dal legislatore nel descrivere gli effetti delle impugnazioni, prevedendo che le impugnazioni proposte dall'imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e dall'ente, giovano, rispettivamente, all'ente e all'imputato”. Si apprezza appieno la portata della precisazione considerando che la regola avrebbe potuto essere diversa. La riprova si ha sol che si rifletta che ben il legislatore avrebbe potuto adottare il canone dell'inscindibilità “formalmente” previsto, ad esempio, dal comma 2 dell'art. 463 c.p.p. in relazione ai rapporti tra l'opposizione dell'imputato e quella della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria [dicesi “formalmente” perché poi la dottrina argomenta un generale divieto di reformatio in peius dal comma 3 dell'art. 595 c.p.p. (CORDERO, Procedura penale, Milano, 2012, 1080 s.)].

Ad ogni buon conto, lo stesso art. 72 costituisce indice della separatezza delle azioni: per convincersene è sufficiente constatare che l'effetto sfavorevole dell'impugnazione, non ritorcendosi in capo al soggetto non impugnante, differenzia la posizione processuale delle persone fisiche da quella dell'ente.

Il legale rappresentante dell'ente in conflitto di interessi. Il secondo argomento scandagliato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, con riferimento alle conseguenze del non rilevato conflitto di interessi tra legale rappresentante imputato del reato presupposto ed ente, si espande su un terreno ormai più volte arato.

Suole insegnare che, quantunque l'ente rivesta il ruolo di imputato, la sua partecipazione al processo ricalca piuttosto le forme della costituzione di parte civile ai sensi dell'art. 100 c.p.p.

Viene in linea di conto l'art. 39 D.Lgs. n. 231/2001, il cui comma 1, su un piano generale inteso ad abbracciare l'intero procedimento, afferma che l'ente vi partecipa – se vuole parteciparvi attivamentecon il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo”. La regola della partecipazione a mezzo del legale rappresentante risponde alla normale operatività degli enti, che, in quanto personificati, esprimono la propria personalità attraverso le manifestazioni di volontà di chi è attributario dei poteri per impegnarne il nome. Ai sensi del comma 2, per partecipare attivamente al procedimento, l'ente deve costituirsi depositando in cancelleria una dichiarazione che, a pena di inammissibilità, contiene la denominazione dell'ente e le generalità del suo legale rappresentante” [lettera a)]; “il nome ed il cognome del difensore e l'indicazione della procura” [lettera b)]; “la sottoscrizione del difensore” [lettera c)]; e “la dichiarazione o l'elezione di domicilio” [lettera d)]. A sua volta, stante il comma 3, la procura [di cui alla lettera b)] è conferita nelle forme del comma 1 dell'art. 100 c.p.p., che prevede che il difensore può esercitare il suo ministero purché “munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata”. Completa il quadro l'osservazione che è la dichiarazione di costituzione e non l'effettiva presenza in udienza del legale rappresentante a determinare la partecipazione attiva: invece, giusta l'art. 41, solo in difetto di tale dichiarazione scatta la contumacia, mentre, ove l'ente s'è costituito ma il legale rappresentante è semplicemente assente all'udienza, per il comma 4 dell'art. 39, la rappresentanza si concentra in capo al difensore.

L'art. 39 – e qui sta il punto – non dice quel che accade se il legale rappresentante è imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo, giacché il comma 1 si limita a statuire la regola per cui l'ente sta bensì in giudizio, ma non può partecipare attivamente al procedimento, qualora il legale rappresentante sia anche imputato.

Osservazioni

La giurisprudenza costituzionale.
La circostanza che l'art. 39 d.lgs. n. 231/2001 taccia rispetto al legale rappresentante incompatibile individua un vero e proprio vuoto normativo già qualche tempo fa ritenuto sospetto di illegittimità costituzionale. Tuttavia, al giudice rimettente che denunziava il contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. della privazione della possibilità di un'effettiva tutela per l'ente a cagione della mancanza di un meccanismo di superamento del conflitto di interessi analogo, ad esempio, a quello dell'art. 71 c.p.p. in punto di sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato, la Corte Costituzionale, con ord. 12 giugno 2007, n. 186, si è limitata a ribattere dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale per difetto di motivazione a proposito della rilevanza.

Più recentemente, la stessa Corte, con la sent. 27 luglio 2011, n. 249, nel dichiarare inammissibile la denuncia di incostituzionalità del comma 2 dell'art. 43 sollevata con riferimento alla palese irragionevolezza di un meccanismo in forza del quale la notificazione all'ente è eseguita mediante consegna al legale rappresentante anche quando, essendo questi imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo, sussiste nei suoi confronti una presunzione iuris et de iure di incompatibilità, sottolinea come il giudice a quo muova dall'erroneo presupposto per cui le ragioni che determinano l'incompatibilità nel procedimento penale del legale rappresentante siano automaticamente trasferibili nell'ambito notificatorio e comportino l'inidoneità della notificazione degli atti diretti all'ente nel caso di consegna al legale rappresentante incompatibile, laddove, invece, diversa è la situazione relativa alla legittimazione a rappresentare l'ente, costituendosi nel giudizio, da quella relativa all'idoneità a ricevere materialmente in consegna gli atti destinati all'ente. Nel rilevare che la notificazione è preordinata semplicemente a porre l'ente a conoscenza dell'avvio e dello svolgimento del procedimento penale e che la finalità cognitiva ad essa sottesa non è necessariamente pregiudicata dall'eventuale divaricazione degli interessi del legale rappresentante imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo rispetto agli interessi dell'ente, tanto che, se del caso, l'infedeltà del primo nel porre gli altri organi dell'ente a conoscenza dell'atto notificato e permettere loro di valutare l'opportunità di far costituire l'ente con un diverso rappresentante, nominato anche solo per partecipare al procedimento, potrebbe essere superata a norma del comma 2 dell'art. 78 c.p.c., il giudice delle leggi osserva che l'art. 39, comma 1, del D.Lgs. n. 231 del 2001 prende atto della possibilità che tra l'ente chiamato a rispondere del reato commesso dal suo rappresentante e questo si verifichi un conflitto di interessi e per questa ragione, anche se si tratta di una mera eventualità, introduce un'incompatibilità processuale, escludendo che le due parti, imputato ed ente, possano essere impersonate nel processo dallo stesso soggetto; in tal modo viene garantita ad entrambe le parti la facoltà di elaborare autonomamente la propria strategia difensiva” (par. 3).

Sebbene l'attenzione del lettore sia catturata dall'affermazione di ragionevolezza della previsione del comma 1 dell'art. 39 rispetto all'introduzione di un'incompatibilità processuale assoluta posta – a fini semplificatori – per consentire sia al legale rappresentante sia all'ente la pienezza della difesa in fatto, pur quando il primo abbia ad additare la collusione del secondo ed il secondo l'aggiramento fraudolento dei sistemi prevenzionistici da parte del primo, centrale è invece l'accenno della Corte all'art. 78 c.p.c., alla stregua di una soluzione prospettata dallo stesso giudice a quo per risolvere quanto da questi ritenuto un conflitto di interessi significativo già sotto il profilo del procedimento notificatorio. Invero la Corte, nell'aggiungere un ulteriore profilo di inammissibilità della questione sottoposta alla sua cognizione, sostiene che il dubbio di costituzionalità, pur essendo stato prospettato con riferimento al regime delle notificazioni, attiene all'esistenza di un conflitto di interessi tra rappresentante ed ente, tale da far escludere che il primo metta gli altri organi dell'ente in condizione di conoscere la pendenza del procedimento e di deliberare sulla partecipazione allo stesso; nondimeno, la deduzione della necessità della nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. finanche per ricevere la notificazione dell'atto diretto all'ente appalesa che nella prospettiva fatta propria dal giudice a quo detto curatore non sarebbe un mero intermediario nel procedimento di notificazione, con la funzione di portare l'atto a conoscenza dell'ente, ma avrebbe il compito di interagire con i suoi organi abilitati a deliberare sulla partecipazione al procedimento, sicché la sua nomina e la sua funzione non si inserirebbero nel procedimento di notificazione ma ne sarebbero un presupposto, nel senso che avrebbero la funzione di individuare un diverso destinatario dell'atto da notificare. Se però, come prospetta il giudice rimettente, si dovesse modificare il sistema, in modo da anticipare normativamente l'incompatibilità prevista dal primo comma dell'art. 39 del D.Lgs. n. 231 del 2001 al momento della notificazione, sarebbe la regola sulla rappresentanza a dover essere in primo luogo investita dalla questione di legittimità costituzionale e non quella sulla notificazione, che della prima costituisce solo una derivazione” (par. 4).

Vero che la Corte, nel voler chiarire l'idea avanzata poco prima di ritenere la nomina del curatore speciale ex art. 78 comma 2 c.p.c. un ‘utile strumento' per ovviare ad eventuali comportamenti infedeli di chi agisce in nome e per conto dell'ente per legge o per statuto”, parrebbe indicare la strada per cui “la questione di legittimità costituzionale dovrebbe investire le regole sulla rappresentanza di cui all'art. 39 comma 1 d.lgs. n. 231/2001 e non quella sulla notificazione, ‘che della prima costituisce solo una derivazione' (VARRASO, Rappresentante legale «incompatibile» e notificazioni all'ente nel d.lgs. n. 231 del 2001, in Giur. cost., fasc. 4, 2011, 3216), sarebbe altresì vero, e concreto, il frontale contrasto con la giurisprudenza di legittimità, in seno alla quale Cass., Sez. VI, 19 giugno 2009, n. 41398, non ha mancato di giudicare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 D.Lgs. n. 231/2001, sollevata per la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui impedisce all'ente di partecipare al procedimento a suo carico con il proprio rappresentante legale, quando questi risulti essere imputato del reato presupposto della responsabilità dell'ente medesimo”. Un frontale contrasto permanente anche rispetto alla sentenza in commento, secondo cui non può sostenersi che “la disciplina dell'art. 39 cit. pregiudichi il diritto di difesa dell'ente, atteso che questi può comunque costituirsi nel procedimento sostituendo il rappresentante divenuto incompatibile ovvero nominandone uno ad hoc per il processo … ed anche qualora decida invece di rimanere inerte ... comunque rimane tutelato dalla previsione dell'art. 40 del decreto che impone gli venga nominato un difensore d'ufficio …(par. 2.3.2).

Lo stato attuale della giurisprudenza di legittimità.
Il punto di equilibrio tra la disciplina speciale degli artt. 39 e 41 – che formalizza la partecipazione dell'ente al procedimento importando il modo della costituzione del responsabile civile ai sensi dell'art. 84 c.p.p., i cui commi da 1 a 3 sono perfettamente sovrapponibili ai commi da 1 a 3 dell'art. 39 – e le previsioni degli artt. 34 e 35 – che rendono applicabile in via integrativa il Codice di Procedura Penale, con particolare riguardo, rispetto all'ente, alle disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili”, tra cui l'art. 96 c.p.p., il quale, al comma 1, sancisce che “l'imputato ha diritto di nominare non più di due difensori di fiducia” e, al comma 2, che “la nomina è fatta [semplicemente] con dichiarazione resa all'autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata” – è tracciato con maestria da Cass., Sez. Un., 28 maggio 2015, n. 33041, (in questo portale, con nota di Bertolini Clerici) che enuncia il seguente principio di diritto: “In tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile la richiesta di riesame presentata, ai sensi dell'art. 324 c.p.p., avverso il decreto di sequestro preventivo dal difensore di fiducia nominato dal rappresentante dell'ente secondo il disposto dell'art. 96 c.p.p., ed in assenza di un previo atto formale di costituzione a norma dell'art. 39 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sempre che, precedentemente o contestualmente alla esecuzione del sequestro, non sia stata comunicata la informazione di garanzia prevista dall'art. 57 del D.Lgs. medesimo" (par. 5).

Peraltro il ragionamento di Cass., Sez. Un., n. 33041 del 2015, cit., non si ferma qui, in quanto i Supremi Giudici si incaricano anche di trattare il tema della nomina di difensore dell'ente ad opera del legale rappresentante incompatibile.

In argomento era intervenuta ex professo Cass., Sez. VI, 31 maggio 2011, n. 29930, sostenendo che l'incompatibilità del legale rappresentante indagato” – e non soltanto imputato – per il reato presupposto rende invalidi sia l'atto di costituzione dell'ente sia, prima ancora, la procura speciale rilasciata al difensore dell'ente, con conseguente inammissibilità dell'impugnazione avverso un decreto di sequestro preventivo presentata da quest'ultimo per conto dell'ente. Già in precedenza, Cass., Sez. VI, n. 41398 del 2009, cit., aveva stabilito che i diritti di difesa, ancorché ad eccezione di quelli coinvolgenti atti personalissimi, “possono essere esercitati in qualunque fase del procedimento dal difensore nominato d'ufficio, anche qualora la persona giuridica non si sia costituita ovvero – e questo è il dictum saliente agli effetti del discorso che si va conducendo – quando la sua costituzione debba considerarsi inefficace a causa dell'incompatibilità del rappresentante legale perché indagato o imputato del reato presupposto”.

In un'ottica di continuità, Cass., Sez. Un., n. 33041/2015, cit., alla quale la sentenza in commento si attiene, muovendo dalla premessa per cui il divieto di rappresentanza in capo al legale rappresentante incompatibile è concepito – in mancanza di norme positive di segno diverso, come nel caso dell'art. 43, comma 2 – con riferimento al momento in cui diviene rilevante e cioè con riferimento agli effetti del mandato nel procedimento, ed è apprezzabile dunque anche prima ed a prescindere dall'atto di costituzione sia perché ciò fa intendere la consecutio dei principi fissati al primo ed al secondo comma dell'art. 39 sia perché costituisce principio generale quello in base al quale l'atto del soggetto non legittimato è improduttivo di effetti ed è sanzionato con la inammissibilità” (par. 6), conclude nel duplice senso che “il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore di fiducia dell'ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001", e che “è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell'art. 591, comma 1, lettera a), c.p.p., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell'ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo" (par. 7).

La sentenza in commento presenta però una novità. Essa, infatti, porta a termine la parabola argomentativa di Cass., Sez. Un., n. 33041 del 2015, cit. sostenendo che, se l'atto di costituzione e la nomina del difensore e procuratore speciale effettuati dal rappresentante incompatibile sono privi di efficacia, ne consegue che nel processo l'ente, privo di formale rappresentanza e di fatto non costituitosi, deve essere dichiarato contumace ai sensi dell'art. 41 del decreto e il giudice deve procedere a nominargli un difensore di ufficio. Soprattutto, nella fase della costituzione delle parti, deve ritenersi che al giudice spetti l'obbligo di verificare la regolarità dell'atto di costituzione e della nomina del difensore, che, ai sensi dell'art. 39 comma 2 lettera c), lo deve sottoscrivere, e, rilevata l'incompatibilità, di dichiarare l'inammissibilità della costituzione con la conseguente pronunzia dei provvedimenti sopra descritti” (par. 2.5).

Conclusioni

Plurimi sono i profili critici che gli approdi ermeneutici in via di consolidamento nella giurisprudenza di legittimità suscitano.

Se ne indicano tre.

Il primo attiene alla dichiarazione di inefficacia degli atti del legale rappresentante incompatibile, che risale sino alla nomina del difensore dell'ente e si riverbera a cascata sull'intera attività da quest'ultimo prodotta. Nella sentenza in commento, la Suprema Corte accede alla strada di un'affermata ma non illustrata nullità assoluta del procedimento perché l'ente, privo di assistenza difensiva, avrebbe dovuto essere destinatario della designazione in suo favore di un difensore d'ufficio. Ora, rilevato come la categoria dell'inefficacia attenga ad un piano d'analisi ulteriore rispetto a quello della qualificazione del contrasto con il modello legale, in difetto di una disposizione che commini e alcuna forma di nullità e, per vero, a maggior ragione, la pur ritenuta originaria inefficacia, con conseguente emersione di questioni inerenti alla possibilità di un allargamento in via interpretativa della categoria della patologia degli atti, ove si opinasse, con prudente misura, che la disciplina prevista sempre dall'art. 39, comma 1, attiene all'intervento nel procedimento dell'ente che è ‘equiparato' all'imputato”, di guisa che “il mancato rispetto della disciplina de qua potrebbe ricondursi proprio alla violazione di una norma relativa alla rappresentanza e alla partecipazione di quest'ultimo di cui all'art. 178, lettera c), c.p.p.”, occorrerebbe essere altresì “consapevoli che per tale nullità di ordine generale a regime intermedio varrebbero le regole dell'art. 182 c.p.p., per cui non può essere eccepita da chi vi ha dato o concorso a darvi causa, ovvero non ha interesse all'osservanza della disposizione violata, e deve essere eccepita o rilevata anche d'ufficio nei rigorosi tempi ivi previsti. Limiti che non sussistono a fronte della sanzione ben più radicale dell'inammissibilità (VARRASO, La partecipazione e l'assistenza difensiva dell'ente nel procedimento penale a suo carico: tra vuoti normativi ed “eterointegrazione” giurisprudenziale, in Cass. pen., fasc. 4, 2010, 1392): quest'ultima a sua volta usualmente predicata per gli atti in specie d'impugnazione proposti dal difensore dell'ente nominato dal legale rappresentante incompatibile, alla stregua di quanto ritenuto da ultimo dalla stessa Cass., Sez. Un., n. 33041 del 2015, cit., secondo cui è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell'art. 591, comma primo, lettera a), c.p.p., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell'ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo”.

Il riferimento all'art. 591, comma 1, lettera a), c.p.p. introduce al secondo profilo: per quanto esso si attagli perfettamente alle impugnazioni (e di appello ragionava la Corte territoriale nella sentenza oggetto di riforma da parte di quella in commento), pare ravvisarsi un salto logico nel far derivare l'inammissibilità dell'impugnazione proposta dal difensore nominato dal legale rappresentante incompatibile dalla nomina stessa senza che una norma di legge ne configuri ex se un'affezione invalidante. La questione è balzata agli occhi della dottrina quanto alle impugnazioni cautelari per la considerazione – innegabilmente eloquente – che una norma di protezione come il comma 1 dell'art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001 nella prassi finisce per ritorcersi contro l'ente, cui è negata la possibilità di far valere le proprie ragioni per il sol fatto della trasposizione dell'incompatibilità dal legale rappresentante al difensore, quantunque quest'ultimo deontologicamente costituisca figura – qualificata per la professionalità esigibile dalla sua abilitazione – a sé stante sia rispetto al legale rappresentante e sia anche, a voler essere precisi, rispetto all'ente [osserva PUGLISI, Processo agli enti: il rappresentante incompatibile non può nominare il difensore, in Cass. pen., 2011, fasc. 1, 250, che l'applicazione del conflitto di interessi è sempre emersa, nel dibattito giurisprudenziale, in occasione dell'impugnativa contro una misura cautelare. Il principio di presunzione assoluta di incompatibilità è stato richiamato dalla giurisprudenza, dunque, solo per dichiarare inammissibile un atto processuale che avrebbe potuto solo giovare alla persona giuridica; allora, può apparire paradossale che dalle garanzie, di cui si vorrebbe dotare l'ente accusato, siano scaturite esclusivamente restrizioni all'esercizio della difesa; quasi che le persone giuridiche abbiano meno potere di reagire contro la misura cautelare grazie alle (rectius, per colpa delle) tutele riconosciutegli dalla legge”]. Ma la questione di cui si tratta è viepiù stringente in relazione ai casi in cui, come nella vicenda decisa dalla S.C. nella sentenza in commento, non si controverte (solo) di un atto di impugnazione sindacabile alla stregua dell'art. 591, comma 1, lettera a), c.p.p. Può convenirsi, con la Suprema Corte, che, ai sensi della lettera b) del comma 2 dell'art. 39, la dichiarazione di costituzione deve contenere il nome ed il cognome del difensore e l'indicazione della procura; tuttavia, per un verso, nuovamente, si presuppone l'inefficacia – quale categoria processuale impropria – della dichiarazione di costituzione in dipendenza dall'inefficacia della procura derivante a sua volta dall'inefficacia della nomina del difensore dell'ente siccome incompatibile in quanto officiato da un legale rappresentante, quest'ultimo sì, incompatibile e, per altro verso, si pretermette che, in funzione di Cass., Sez. Un., n. 33041 del 2015, cit., la (previa) dichiarazione di costituzione non sempre è condizione di esercizio dell'attività difensiva da parte dell'ente (segnatamente non lo è quando l'ente non è stato reso destinatario di un'informazione di garanzia ex art. 57): talché, nei casi in cui la (previa) dichiarazione di costituzione non è necessaria, mancherebbe persino quel minimo di addentellato testuale rappresentato dalla lettera b) del comma 2 dell'art. 39. Vien fatto pertanto di domandarsi per qual ragione seguitare a percorrere quella che ci si permette di definire come una sovrastruttura oltretutto incompleta nonostante l'apparente suggerimento, promanante da C. Cost., n. 249 del 2011, cit., della via maestra della denuncia di illegittimità costituzionale della mancata previsione di un meccanismo di risoluzione in sé del conflitto di interessi così da rendere applicabile il comma 2 dell'art. 78 c.p.c. anche nel contesto del D.Lgs. n. 231/2001.

E qui si viene al nocciolo duro della questione, che consente di riprendere le osservazioni iniziali a proposito della separatezza delle posizioni processuali delle persone fisiche e dell'ente per sottolineare come esse, ben lungi dal rimanere relegate all'asserzione della non impugnabilità reciproca delle statuizioni a ciascuno pertinenti, debbano costituire, su tutti i fronti, e dunque anche su quello del conflitto di interessi, il parametro di valutazione della proiezione procedimentale di una realtà per forza di cose sostanziale, siccome dinamicamente relativa alla vita stessa dell'ente.

Le soluzioni extra-processuali al conflitto di interessi, per quanto rispettose dell'autonomia dell'ente, descrivono un apparato rimediale che non sempre la persona giuridica può attuare (MARANDOLA, Sulla validità costituzionale del regime delle notificazioni all'ente effettuate al rappresentante legale imputato del medesimo reato, in Giur. cost., fasc. 4, 2011, 3210). Ciò vale in specie nei casi più problematici, di pervasiva antigiuridicità dell'ente, il cui organo amministrativo è adeso ad una maggioranza compatta che ne condivide l'asservimento ad una gestione illecita. Non è necessario teorizzare sopra i massimi sistemi; basta pensare ad una società a ristretta base partecipativa, dove peraltro spiccato è l'interesse – per le esposte ragioni, meramente fattuale – del socio amministratore di sovrapporre la sua posizione a quella dell'ente (sino al punto di pretendere di spiegare impugnazione sostanzialmente surrogandosi allo stesso).

È ben vero che finanche nel caso in cui l'ente scelga di non partecipare attivamente al processo – rectius, al procedimento – è provvisto di un difensore d'ufficio, che ne garantisce il diritto di difesa a fronte dei tecnicismi procedimentali; ma resta da chiedersi se, così opinando, non si cada in una fictio iuris di per se stessa lesiva per l'ente, il quale potrebbe agire sia dentro che fuori il procedimento per uscirne nel modo più piano – e persino indolore – possibile. In realtà la questione è più complessa di quanto appaia a prima vista: fermo che l'autonomia dell'ente è un valore degno di tutela in forza del tributo alla soggettività ed in fondo alla personalità dell'ente, pare non estemporaneo domandarsi se l'assolutezza della tutela che le soluzioni extra-processuali involgono non si ponga di per sé in contrasto con l'art. 41 Cost., sia quanto alla prescrizione di libertà” dell'“iniziativa economica privata” (comma 1) sia, e forse soprattutto, quanto all'imposizione che detta iniziativa non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (comma 2).

Lasciare l'ente in mano al legale rappresentante e più in generale al gruppo di comando che lo ha portato a rispondere di un fatto inserito nella lista nera potrebbe avere il significato – ed in tal senso si è consapevoli di dar sfogo ad una riflessione provocatoria – di abbandonarlo al suo destino: ciò che però segnerebbe l'abdicazione da parte dell'ordinamento giuridico al compito di instillare gocce di legalità nella sua struttura in vista di un nuovo corso.

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