Corruzione tra privati

02 Novembre 2015

L'art. 2635 c.c. esprime una discrasia tra rubrica e contenuto. Quantunque, nell'intenzione della L. n. 191/2012, cui si deve la sua formulazione attuale, esso fosse proiettato a dare attuazione agli obblighi internazionali – segnatamente risalenti alla Convenzione Penale sulla Corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 – di criminalizzazione della corruzione anche di e tra persone comuni, o privati, la sfera di applicazione della novella non rompe con il passato, a tal punto che non solleva neppure questioni di diritto intertemporale. Essa seguita a proteggere il patrimonio sociale, da intendersi al più in un'accezione allargata agli interessi economici degli investitori, attraverso una selezione di condotte che possono essere compiute solo da soggetti istituzionalmente o contrattualmente legati alla società di revisione, in combutta con i sodali nell'accordo illecito ai danni della medesima.
Premessa

L'art. 2635 c.c. esprime una discrasia tra rubrica e contenuto. Quantunque, nell'intenzione della L. n. 191/2012, cui si deve la sua formulazione attuale, esso fosse proiettato a dare attuazione agli obblighi internazionali – segnatamente risalenti alla Convenzione Penale sulla Corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 – di criminalizzazione della corruzione anche di e tra persone comuni, o privati, la sfera di applicazione della novella non rompe con il passato, a tal punto che non solleva neppure questioni di diritto intertemporale. Essa seguita a proteggere il patrimonio sociale, da intendersi al più in un'accezione allargata agli interessi economici degli investitori, attraverso una selezione di condotte che possono essere compiute solo da soggetti istituzionalmente o contrattualmente legati alla società di revisione, in combutta con i sodali nell'accordo illecito ai danni della medesima.

Siffatta limitazione di tutela traspare evidente dal regime ordinario di procedibilità a querela, derogato dalla procedibilità di ufficio laddove la gravità del fatto sia tale da determinare una “distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi” (come recita l'ultimo comma).

Vero quanto precede, è però anche vero che occorre adeguare in via interpretativa l'ordinamento interno all'ordinamento internazionale: sicché, fermo il divieto di travalicare la lettera della legge, pare doveroso percorrere opzioni ermeneutiche in grado di far leva su una ricostruzione “internazionalmente orientata del bene giuridico, onde sganciare la tutela apprestata, non già dal diritto civile, per tradizione rivolto ai singoli, ma dal diritto penale, per vocazione ultra-individuale, da una prospettiva incentrata soltanto sulla società di revisione. Ciò consente di attingere i due livelli superiori dei mercati in cui quest'ultima trae approvvigionamento ed opera, così da inglobare nel cono d'ombra del bene giuridico, al di là del patrimonio sociale, la fiducia nei medesimi riposta dalla generalità degli operatori.

Al riguardo, un utile spunto di riflessione pare rappresentato dalla circostanza che la distorsione della concorrenza, non altrimenti specificata, va rapportata ai mercati di riferimento, le cui dimensioni e caratteristiche si profilano in rapporto all'attività della singola società di revisione.

Inquadramento sistematico e figure soggettive

Il comma 1 dell'art. 2635 c.c. individua un delitto, proprio di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, punito con la pena della reclusione da uno a tre anni: si tratta degli organi di vertice di “società” non necessariamente di capitali, ma non anche di “enti”, come invece previsto dall'art. 2638, commi 1 e 2, c.c., atteso il riferimento alle sole società nella causazione del nocumento conseguente alla condotta. Ne deriva una polarizzazione sulle società quali moduli di esercizio dell'attività di impresa, ancorché l'impresa in quanto tale e, a capo di essa, l'imprenditore ex art. 2082 c.c., ne restino esclusi.

I predetti soggetti sono attivi in seno alla società e comunque nel suo interesse e perciò si contrappongono ai revisori quali soggetti esterni ad essa ed anzi da essa istituzionalmente indipendenti, ma parimenti punibili per corruzione già ex artt. 174-bis e 174-ter D.Lgs. n. 58/1998 ed ora ex art. 28 D.Lgs. n. 39/2010.

Amministratori, sindaci e liquidatori, poi, sono figure tipizzate nel ramo civile del diritto societario.

Rilevato che la responsabilità sia civile che penale degli amministratori è appaiata a quella dei sindaci, nonostante la diversità istituzionale dei loro compiti e conseguentemente dei loro obblighi (rectius, doveri), e che i liquidatori tengono luogo degli amministratori nella fase di dismissione dell'attività di impresa, alla triade classica il comma 1 dell'art. 2635 c.c. aggiunge i direttori generali. A proposito di questi ultimi, l'art. 2396 c.c. li pone in correlazione soltanto con gli amministratori e non anche con i sindaci, attesa la responsabilità che condividono con i primi quanto a scelte gestorie, sottoposte solo ex post al vaglio critico dei secondi, statuendo che le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali nominati dall'assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società”. Le fonti di compiti e conseguentemente responsabilità dei direttori generali sono lo statuto, la nomina assembleare ed il contratto di lavoro con la società: i primi due sono atti istituzionali; il secondo ha valenza privata e concorre alla specificazione dei poteri di cui i singoli prestatori, nei rispettivi settori, sono attributari.

Il delitto in parola può essere commesso non già dai dirigenti in quanto tali, bensì da quelli preposti alla redazione dei documenti contabili societari: la loro individuazione non può prescindere dall'analisi del contratto di lavoro che li riguarda, con particolare riferimento alla parte dedicata alle mansioni, nonché, se del caso, dell'atto di preposizione, che, sostanziandosi nell'assegnazione di un compito o di una serie di compiti, può avere natura unilaterale similmente all'ordine di servizio nel pubblico impiego.

Con la rilevante esclusione dei sindaci, la determinazione dei soggetti attivi nell'art. 2635 c.c. ricalca la previsione dell'art. 2434 c.c. il quale, in tema di azione di responsabilità, statuisce che l'approvazione del bilancio non implica liberazione degli amministratori, dei direttori generali, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e dei sindaci per le responsabilità incorse nella gestione sociale”.

Ciò consente di far emergere una base concettuale comune alla responsabilità civile ed alla responsabilità penale rispetto agli esiti dell'amministrazione, con riferimento ai quali a rilevare non è il bilancio ma la gestione sociale, tanto che l'approvazione del bilancio non impedisce l'attingimento, in sede di verifica, della realtà delle operazioni attuate.

I sindaci si inseriscono nel meccanismo sotto il profilo del controllo: sebbene l'art. 2403, comma 1, c.c. demandi loro compiti di vigilanza genericamente sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento, la circostanza che si tratti di una vigilanza sulla gestione sociale trova conferma sia nell'art. 2407, comma 2, c.c., ove è sancito il regime di responsabilità solidale dei sindaci con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”, sia nel coordinamento tra gli artt. 2408, comma 1 e 2409, comma 1, c.c., a termini dei quali i fatti censurabiliche ogni socio può denunciare al collegio sindacale possono consistere in gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate” compiute in “violazione dei loro doveri” dagli “amministratori”.

Conseguentemente l'estensione della responsabilità penale anche ai sindaci non supera la differenza tra organi di amministrazione ed organi di controllo, ma recepisce l'equiparazione civilistica degli organi di controllo agli organi di amministrazione circa il mancato esercizio da parte degli uni della vigilanza per le operazioni gestorie dagli altri effettuate. Prova ne è che tutto il diritto penale societario contempla i sindaci come responsabili a fianco di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e liquidatori (artt. 2621, comma 1, c.c.; 2622, comma 1, c.c.; 2638, commi 1 e 2, c.c.).

L'elemento materiale del reato, con specifico riguardo alla configurabilità del tentativo

I soggetti attivi sono puniti se compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società.

In evidenza: il concetto di nocumento

Puntualizza Cass., Sez. V, sentenza 13 novembre 2012, n. 5848, nel riconoscere la determinazione di un nocumento nella lesione dell'immagine e della reputazione di un istituto bancario, che “il nocumento per la società […] consiste nella lesione di qualsiasi interesse della medesima suscettibile di valutazione economica e non si risolve pertanto nella causazione di un immediato danno patrimoniale”.

Il compimento o l'omissione degli atti causativi del nocumento devono “seguire” alla “dazione” o alla “promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri”.

Prima facie pare ricorrere un reato di mera condotta, in quanto incentrato sul compimento o sull'omissione di atti costituenti violazione degli obblighi gravanti sul singolo. Tale lettura riduce la causazione del nocumento a mera qualificazione aggiuntivo-susseguente della condotta, quale sua potenzialità lesiva. Doppiato il compimento dall'omissione, il reato ammette una declinazione omissiva impropria sostanziata dalla mera inerzia. Azione ed omissione, poi, si combinano inscindibilmente qualora l'autore compia atti diversi da quelli impostigli dagli obblighi d'ufficio e comunque di fedeltà.

Peraltro questi ultimi – che, quanto ad amministratori e direttori generali, ricorrono nell'art. 2390, comma 1, c.c. sul terreno della non cumulabilità di cariche – destano perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, giacché la punizione della loro violazione corrisponde ad a una norma penale in bianco: a meno di pensare ad un pleonasmo, potendosi considerare in contrasto con tale ‘'obbligo di fedeltà'' il fatto stesso di avere ricevuto e/o accettato la promessa di ''denaro od altra utilità” (Melchionda, Art. 2635 c.c. («Corruzione fra privati»), in Giur. it., 2012, 2701), la nozione di fedeltà, intrinsecamente indeterminata, è priva di riferimenti normativi e – non potendo esaurirsi nella disciplina del conflitto tra società ed organi sociali – ammette un rinvio di secondo grado alle previsioni statutarie, non annoverabili però tra le fonti del diritto.

Un'esegesi invece incentrata sulla causazione del nocumento non come semplice estrinsecazione lesiva della condotta ma come sua realizzazione nelle forme vincolate del compimento o dell'omissione di atti violativi degli obblighi porta a leggere la fattispecie alla stregua di un reato di danno a condotta parzialmente tipizzata. Detta causazione – che entra nel fatto come determinazione di un pregiudizio almeno parzialmente economico, atteso il riverbero su un soggetto economico qual è la società (art. 2247 c.c.) – dovrebbe correlarsi alla condotta al punto da selezionare tra gli obblighi riconnessi alla qualifica dell'autore, di cui la condotta costituisce violazione, solo quelli volti a proteggere la società.

Posto che il legislatore, per la consumazione, configura il nocumento in derivazione dalla condotta, entrambe le prospettive ammettono il tentativo. Tuttavia, considerato che il nocumento investe la società e non il mercato, soprattutto in seno alla seconda, si svela la tensione tra la qualificazione in termini di mera circostanza aggravante della maggiore lesività della condotta ex comma 4 se i titoli sono quotati o diffusi e le spinte riformatrici di matrice internazionale volte alla tutela della concorrenza in via addirittura preferenziale. A maggior ragione, quanto al comma 5, l'introduzione della procedibilità di ufficio per le distorsioni della concorrenza determina un'ibridazione dell'oggetto di tutela che, da esclusivamente privatistico, è diventato di natura mista pubblico-privata. Con il paradossale risultato di relegare la tutela di beni giuridici oggi […] fondamentali, quali quello della concorrenza e del buon andamento del mercato […], a margine di una norma del Codice Civile affetta da ineffettività, priva di alcuna seria esigenza di tutela e gravata da problemi di coordinamento sia con il reato di cui all'art. 2634 c.c. che con altri reati previsti dalla legislazione speciale” (Silvestre, La riforma novellistica dei reati contro la P.A. nell'ottica del diritto penale sostanziale, in Giur. mer., 2013, 2324).

Da ultimo, ricondotta la fattispecie ad un reato bilaterale a concorso necessario, la cui integrazione deriva dalla convergenza di una condotta di dazione o promessa e un'altra di ricezione o accettazione”, l'idoneità e non equivocità vanno commisurate agli atti posti in essere da entrambi i soggetti del rapporto; ma, se, “rispetto ai reati di corruzione previsti dal Codice Penale, si richiede che l'intraneo e l'estraneo siano pervenuti allo stadio almeno delle trattative aventi ad oggetto l'atto dell'ufficio, mentre il tentativo unilaterale trova la sua sanzione nell'art. 322 c.p.”, nel comma 1 dell'art. 2635 c.c. le cose stanno diversamente: il fatto di reato cade “non sull'accordo corruttivo ma sul nocumento conseguente all'atto: questo slittamento strutturale implica che - ferma restando l'irrilevanza, agli effetti penali, del tentativo unilaterale - i requisiti dell'idoneità e univocità vanno piuttosto proiettati sulla condotta finalizzata, in esecuzione dell'accordo, al compimento o all'omissione dell'atto di ufficio (Seminara, Il reato di corruzione tra privati, in Le società, 2013, 65).

Dazione e promessa illecite nella struttura del fatto di reato

La violazione degli obblighi inerenti all'ufficio o degli obblighi di fedeltà “consegue” alla “dazione” o alla “promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri”: inversamente, la dazione o la promessa sono gli antecedenti della violazione perché si pongono in termini di corrispettività rispetto ad essa.

Talché la violazione presuppone non soltanto la dazione o la promessa ma a priori l'accordo a termini del quale esse costituiscono remunerazione per l'autore al fine del compimento da parte sua della violazione. Poiché la controprestazione è giust'appunto la violazione, a voler applicare il registro della corruzione nella P.A., l'accordo corruttivo è punibile in quanto deduce un fatto di corruzione passiva propria antecedente, ma, a differenza che nell'art. 319 c.p., non rileva la violazione sostanziantesi nel semplice ritardo.

La dazione o la promessa devono essere accolte o accettate, di modo che, in ossequio all'art. 1326, comma 1, c.c., dall'incontro delle volontà di chi dà o promette e dell'autore possa farsi discendere la conclusione dell'accordo. In tale prospettiva, fermo che l'accordo non pare assurga alla soglia della punibilità in difetto di ulteriori prodromi della condotta verso il compimento o l'omissione di atti violativi dei doveri d'ufficio, emerge la diversità dell'intendimento del nocumento come modo d'essere necessario ma aggiuntivo della condotta oppure come fuoco della condotta: nel primo caso, l'accordo copre solo l'infedeltà dell'autore, nell'altro lambisce quantomeno anche il nocumento destinato da tale infedeltà a riverberarsi sulla società.

Infine, dazione e promessa possono dedurre ad oggetto sia il denaro che altre utilità, le quali possono avere ma anche non natura economica; tanto l'uno che le altre possono essere rivolte a favore sia dell'autore sia di altri.

L'estensione soggettiva del comma 2 dell'art. 2635 c.c.

Il comma 2 prevede un trattamento sanzionatorio attenuato, pari alla reclusione fino ad un anno e sei mesi, se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza dei soggetti indicati al primo comma.

Il reato è quello del comma 1; il comma 2, però, realizza un'estensione soggettiva alla platea non tipizzata dei sottopostialla direzione e vigilanza di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori.

Detti sottoposti possono essere dipendenti della società ovvero anche delle persone fisiche investite delle cariche di amministratori, sindaci e liquidatori, le quali, se liberi professionisti, ben possono disporre di una propria struttura (in particolare, si ricorda che, a termini dell'art. 2403-bis c.c., “nell'espletamento di specifiche operazioni di ispezione e di controllo i sindaci sotto la propria responsabilità ed a proprie spese possono avvalersi di propri dipendenti ed ausiliari […]”).

I sottoposti di cui si tratta non necessariamente sono dipendenti, atteso che l'art. 2094 c.c. definisce tale chi presta il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”, mentre la disposizione in commento si riferisce alla posizione di prestatori soggiacenti “alla direzione o alla vigilanza” dei soggetti qualificati: pertanto, data l'alternatività tra la direzione e la vigilanza, accanto ai dipendenti, devono annoverarsi non solo i lavoratori parasubordinati ma anche i professionisti incardinati presso la società o la struttura di uno dei soggetti qualificati.

In evidenza: ratio dell'attenuazione del trattamento sanzionatorio per i sottoposti

La ratio dell'attenuazione del trattamento sanzionatorio sta nella minore autonomia decisione dei sottoposti rispetto ai soggetti qualificati, dalla “direzione” e dalla “vigilanza” dei quali dipendono: evidenziato che è impedito loro di esimersi da responsabilità invocando proprio dette “direzione” e “vigilanza” (che comunque sono alcunché di diverso dall'“ordine legittimo” viepiù “della pubblica autorità” di cui ragiona l'art. 51 c.p.), profili di criticità emergono laddove non si versi nell'ipotesi normale di concorso tra sottoposti e soggetti qualificati, ma siano senz'altro i sottoposti ad avere il dominio dell'iniziativa illecita eventualmente in unione con soggetti qualificati sì ma non estrinsecanti “direzione” e “vigilanza” in via diretta su di loro. Considerata l'enfasi che la lettera della disposizione pone sulla sottoposizione “alla direzione o alla vigilanza dei soggetti indicati al primo comma”, par di potersi affermare che, in tale ipotesi, esulando il rapporto in sé di sottoposizione, tornano ad applicarsi le regole generali del concorso dell'extraneus nel reato dell'intraneus.

Il concorso antecedente del corruttore

Chi dà il denaro o le altre utilità, definibile come corruttore, è punito con le pene previste rispettivamente nei commi 1 e 2. Classicamente dovrebbe affermarsi che il corruttore è un concorrente necessario: invero, sul modello dell'art. 321 c.p., la punibilità dei soggetti qualificati è ribaltata altresì su chi li remunera. Nondimeno, tenuto presente che gli artt. 318 e 319 c.p., nel descrivere le fattispecie di corruzione impropria e propria, colpiscono le condotte in sé di ricezione di denaro o altra utilità ovvero di accettazione della loro promessa e quindi l'esecuzione ovvero, ancor prima, la conclusione dell'accordo da parte del pubblico ufficiale, codificando figure di reati-contratto, in relazione al comma 3 in commento, una finezza interpretativa esige di rimarcare che, essendo la fattispecie del comma 1 incentrata sul compimento o l'omissione infedeli che i soggetti qualificati o loro sottoposti compiono “a seguito della dazione o della promessa”, il contributo del corruttore alla realizzazione del fatto di reato si arresta ad una soglia anticipata, qual è quella dell'accordo.

Pertanto l'ordinamento recepisce la figura del concorso antecedente, introducendo però una discriminazione: i soggetti qualificati e loro sottoposti sono punibili per il compimento o l'omissione infedeli, invece il corruttore è punito, con la stessa pena, per la conclusione dell'accordo ed al più l'esecuzione della prestazione monetaria in favore di detti soggetti.

La circostanza aggravante speciale ad effetto speciale del comma 6 dell'art. 2635 in relazione ai titoli quotati

Il comma 4 dell'art. 2635 c.c. raddoppia le pene stabilite nei commi 1 e 2 e conseguentemente anche 3 qualora la società che riceve il nocumento abbia emesso titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante” ex art. 116 T.U.F.

Considerato che i fatti di reato enunciati nei commi 1, 2 e 3 rimangono invariati salvo l'elemento specializzante dell'emissione di titoli quotati o diffusi, si versa in ipotesi di circostanza aggravante speciale ad effetto speciale.

La logica di detta circostanza risponde all'opinione secondo cui la quotazione e la diffusione dei titoli attingono un corteo di investitori indeterminati, con la conseguenza che un'infedeltà che colpisce una società i cui titoli sono quotati o diffusi colpisce indirettamente anche il predetto corteo. Potrebbe tuttavia replicarsi che, a parità di fatto di reato, un inasprimento sanzionatorio oltretutto assai marcato in funzione neppure dei tipi di società ma soltanto della collocazione dei suoi titoli obnubila che il comma 1 ed a cascata 2 e 3 deducono a realizzazione dell'infedeltà il nocumento ricevuto dalla società e non dagli investitori, d'altronde protetti proprio da una stringente regolamentazione di settore.

Il regime della procedibilità

L'osservazione critica riportata in chiusura del paragrafo precedente trova conferma nel comma 5, che sancisce il regime della procedibilità a querela anche nel caso del comma 4. L'interesse protetto è quello dell'integrità patrimoniale della società, che pertanto conserva il monopolio sulla punibilità del fatto di reato commesso, esclusivamente, in suo danno.

La procedibilità di ufficio, che presidia interessi ultra-sociali, scatta solo se dal fatto stesso deriva una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”: distorsione che non automaticamente si realizza per avere l'infedeltà interessato una società emittente titoli quotati o diffusi.

Sicché, una volta accettata l'impostazione che legge la fattispecie del comma 1 alla stregua di un reato di danno, combinando il comma 1 con il comma 5, il danno eccede in un'appendice che aggiunge al nocumento alla società la distorsione della concorrenza.

La rilevanza della corruzione tra privati nel sistema della responsabilità penale-amministrativa degli enti

La novità di maggior rilievo che investe l'art. 2635 c.c. concerne la sua rilevanza agli effetti della responsabilità penal-amministrativa degli enti. Infatti l'art. 25-ter, D.Lgs. n. 231/2001, alla lettera s bis), prevede per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell'articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote”.

L'ente andrà soggetto alla sanzione di cui si tratta in presenza di due condizioni:

  • se si versa in un'ipotesi di corruzione attiva;
  • se, in ossequio all'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, il reato è stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio:

a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;

b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).

Considerato che il comma 3 costituisce lo speculare ribaltamento dei commi 1 e 2, è interessante rilevare, sotto il profilo soggettivo, gli esiti dell'incastro con l'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001. La responsabilità dell'ente scatta solo se chi dà o promette denaro o altra utilità ai sensi del comma 3 dell'art. 2635 c.c. è un organo di vertice con funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente, compresi gestori e controllori in via di fatto, ovvero un sottoposto alla direzione o alla vigilanza dell'organo medesimo.

La dazione o promessa di denaro o altra utilità, giusta rispettivamente i commi 1 e 2 dell'art. 2635 c.c., deve essere indirizzata ad amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, ovvero a chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno di tali soggetti. Ne consegue che la corruzione commessa nell'interesse o vantaggio di un ente in danno di una società deve essere concordata dai responsabili (sia di diritto che di fatto) della gestione dell'ente e dai responsabili (in linea di principio di diritto) della gestione o del controllo della società. Agevolmente può concludersi che si tratta di un incontro al vertice.

Poiché l'ente risponde se il reato è commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, ciò, tanto più in funzione del principio di immedesimazione organica, è sufficiente ad escludere che esso sia legittimato a lamentare ragioni di danno: a contrario, sarà la società incisa dall'infedeltà del proprio personale colluso con quello dell'ente a subire un nocumento positivamente tipizzato e quindi a vantare la legittimazione alla costituzione di parte civile.

Formulazione attuale e previgente dell'art. 2635 c.c.

La formulazione attuale dell'art. 2635 c.c. sgorga dalla riscrittura del testo precedente ad opera dalla L. n. 191/2012. Riassumere le novità è semplice perché in realtà l'impianto della vecchia “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità” è stato mantenuto salve minime interpolazioni.

A parte il cambiamento elocutorio della rubrica, divenuta: “Corruzione tra privati”, nel comma 1 adesso figura una clausola di riserva, ad evitare il concorso formale di reati; la condotta dei soggetti qualificati contempla le violazioni non solo degli “obblighi inerenti al loro ufficio” ma anche degli “obblighi di fedeltà”; la dazione o la promessa di denaro o altra utilità può essere diretta all'autore ma anche ad un terzo.

Il comma 2 amplia il novero dei soggetti punibili ai sottoposti dei soggetti apicali, ancorché introducendo una cornice edittale più mite.

L'autonoma incriminazione, al comma 3, di chi effettua la dazione o la promessa palesa – rispetto al comma 2 previgente (che recitava: “La stessa pena si applica a chi dà o promette l'utilità) – l'altrettanto autonoma punibilità del medesimo, a prescindere dalla punibilità dei soggetti qualificati e dei sottoposti ai sensi dei commi 1 e 2.

Infine il comma 5 introduce la procedibilità di ufficio nel caso in cui dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Il perdurante inadempimento dell'Italia agli obblighi internazionali in tema di criminalizzazione della corruzione tra privati

È pacifico che l'art. 2635 c.c. non colpisce la corruzione tra privati, essendosi il legislatore della riforma limitato a cambiare nome a testi sostanzialmente immutati.

La L. n. 191/2012 ha inteso dare attuazione alla Convenzione Penale sulla Corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata dal nostro Paese (in enorme ritardo) con la L. n. 110/2012; considerato però che le fonti internazionali – contemplanti altresì l'Azione Comune 98/742/GAI sulla corruzione nel settore privato, adottata il 22 dicembre 1998 dal Consiglio dell'Unione europea; la Decisione-quadro 2003/568/GAI relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato, adottata il 22 luglio 2003 dal Consiglio dell'Unione europea, e la Convenzione dell'O.N.U. sulla corruzione fatta a Merida il 31 ottobre 2003 e ratificata dall'Italia (solo) con la L. n. 116/2009 – indicano la direzione della criminalizzazione della corruzione attiva e passiva, oltreché negli affari coinvolgenti la P.A., nelle attività professionali e commerciali tra privati (Huber, La lotta alla corruzione in prospettiva sovranazionale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, 467), l'adeguamento è incompleto e deludente. Ben poco è cambiato rispetto al passato, a sua volta segnato da un “‘tradimento' davvero eclatante” delle aspirazioni di completezza della tutela penale (Gullo, Spunti critici in tema di infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità, in Banca borsa tit. cred., 2003, 446).

Nondimeno gli obblighi di incriminazione ex artt. 7 ed 8 della Convenzione Penale sulla Corruzione (dedicati rispettivamente alla corruzione attiva e passiva nel settore privato) tratteggiano un'intelaiatura così fitta di previsioni entro cui le fattispecie di diritto interno devono trovare collocazione da fornire un potente strumento di interpretazione delle stesse in ossequio ad un principio di tassatività avente un respiro internazionale.

Interpretazioni evolutive del bene giuridico

L'esame dei rapporti tra la vecchia “infedeltà a seguito di promessa o dazione di utilità” e la nuova “corruzione tra privati”impone di cogliere l'evoluzione del bene giuridico.

Tradizionalmente l'infedeltà veniva considerata quale reato contro il patrimonio, tanto quello sociale, quanto, di riflesso, quello dell'investitore (Musco, I nuovi reati societari. Milano, 2007, 245 ss.). Poteva ravvisarsi anche una tutela in favore del mercato soprattutto in virtù del comma 3 previgente, antesignano, salvi minimi adeguamenti, del comma 4 attuale (Cerqua, Il nuovo reato di corruzione privata, in Il fisco, 2003, 2139 ss.); tuttavia il mercato, pur sempre da parametrare al patrimonio non dei risparmiatori ma di quelli interessati alla società, per l'indefettibile procedibilità a querela della stessa, non poteva sostanziare un bene giuridico superindividuale.

Oggi, invece, si intravedono le basi per affermare che la corruzione tra privati è un reato plurioffensivo perché, unitamente al patrimonio anzitutto sociale e poi individuale, entrano nel fuoco della tutela altresì l'economia pubblica, la fede pubblica ed il mercato nazionale e sovranazionale.

In tal senso preminente rilievo deve accordarsi all'intentio legis – fondamentale canone ermeneutico ex art. 12 prel. c.c. – tesa a conformare il bene giuridico, in ossequio alle istanze internazionali, sulla gestione pubblica dell'economia (da tutelare anche mediante la repressione della corruzione tra privati quale uno degli strumenti idonei a garantire obiettivi di trasparenza e concorrenza).

L'intentio legis emerge dal comma 5 del testo vigente, ove la procedibilità a querela è soppiantata dalla procedibilità di ufficio – chiaro sintomo della rilevanza pubblica del bene giuridico – in tutti i casi di “distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Comunque, nonostante il mutamento di nomen iuris che condensa tali barlumi di novità, sotto il profilo della successione di leggi penali nel tempo, tra il vecchio e il nuovo art. 2635 c.c. v'è continuità normativa ad eccezione di taluni profili marginali. Segnatamente, ai sensi dell'art. 2, comma 1, c.p., il fatto commesso dai sottoposti, di cui al comma 2 dell'art. 2635 c.c., potrà essere incriminato solo se successivo alla novella. In ogni caso, la pena applicabile, stante il comma 4 dell'art. 2 c.p., andrà individuata con riferimento alla norma vigente al momento del fatto, essendo intervenuto un inasprimento sanzionatorio. Infine, la procedibilità di ufficio, in ipotesi di distorsione della concorrenza, potrà operare solo per il futuro.

Riferimenti normativi, giurisprudenziali e bibliografici

Norme:

  • art. 2082 c.c.;
  • art. 2390 c.c.;
  • art. 2396 c.c.;
  • art. 2403 c.c.;
  • art. 2407 c.c.;
  • art. 2408 c.c.;
  • art. 2409 c.c.;
  • art. 2390 c.c.;
  • art. 2396 c.c.;
  • art. 2434 c.c.;
  • art. 2635 c.c.;
  • art. 2638 c.c.;
  • art. 318 c.p.;
  • art. 319 c.p.;
  • art. 321 c.p.;
  • art. 174-bis T.U.F.;
  • art. 174-ter T.U.F.;
  • art. 28 D.Lgs. n. 39/2010.

Giurisprudenza:

  • Cass. Pen., Sez. V, sentenza 13 novembre 2012, n. 5848.

Bibliografia:

  • Melchionda, Art. 2635c.c. («Corruzione fra privati»), in Giur. it., 2012, 2701;
  • Silvestre, La riforma novellistica dei reati contro la P.A. nell'ottica del diritto penale sostanziale, in Giur. mer., 2013;
  • Seminara, Il reato di corruzione tra privati, in Le società, 2013;
  • Huber, La lotta alla corruzione in prospettiva sovranazionale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001;
  • Gullo, Spunti critici in tema di infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità, in Banca borsa tit. cred., 2003, 446.
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