Infedeltà patrimonialeFonte: Cod. Civ. Articolo 2634
29 Aprile 2016
Inquadramento
La disposizione di cui all'art. 2634 c.c. punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, la condotta degli amministratori, direttori generali o liquidatori che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. La stessa pena si applica, secondo la previsione del secondo comma, se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale. Il comma 3 esclude l'ingiustizia del profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. La fattispecie incriminatrice di infedeltà patrimoniale, contenuta nell'art. 2634 c.c., è stata introdotta nell'ambito della più ampia riforma dei reati societari, con il fine precipuo di ancorare, da un lato, la sanzionabilità dell'infedeltà al principio di offensività, superando la criminalizzazione di scorrettezze formali caratterizzate da mero pericolo presunto e, dall'altro, di ricollocare nel loro ambito naturale figure di reato non destinate in origine a tutelare il patrimonio sociale da condotte abusive ed uso improprio da parte degli amministratori. Brevi cenni sulla natura del reato
Il reato di infedeltà patrimoniale, la cui formulazione oggi in vigore si deve al D.Lgs. n. 61 del 2002 (pubblicato in GU n. 88 del 15 aprile 2002), trova collocazione sistematica all'interno del codice civile, tra le disposizioni penali in materia di società e consorzi. Secondo il tenore letterale della norma, possono commettere tale reato solo alcuni autori qualificati, segnatamente “gli amministratori, i direttori generali ed i liquidatori”; conferendo con ciò alla fattispecie la natura di reato proprio. Non deve trascurarsi, tuttavia, che il novero dei possibili agenti si allarga attraverso la clausola di estensione contenuta nell'art. 2639 c.c., rubricato appunto “estensione delle qualifiche soggettive”, secondo cui ai soggetti sopra richiamati – quelli cioè formalmente investiti delle qualifiche o titolari delle funzioni previste dalla legge - sono equiparati, in primo luogo, coloro i quali sono “tenuti a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata” e, in secondo luogo, chi “esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”. Al capoverso, la norma appena citata, fatta salva l'applicazione delle norme riguardanti i delitti commessi dai pubblici ufficiali in danno della Pubblica Amministrazione, sancisce, limitatamente alle disposizioni sanzionatorie riguardanti gli amministratori, che queste si applicano anche a “coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni della stessa posseduti o gestiti per conto di terzi”. L'analisi della cerchia dei soggetti attivi del reato fa balzare immediatamente all'occhio l'esclusione, dal catalogo degli autori qualificati, dei sindaci e dei soci. Tale omissione rappresenterebbe non già una dimenticanza del legislatore, quanto piuttosto una scelta obbligata dalla descrizione della condotta esecutiva del reato, caratterizzata dal compimento o dalla partecipazione alla deliberazione di atti dispositivi di beni sociali, attività che generalmente esulano dalla competenza dei predetti soggetti. Può accadere, tuttavia, che anche tali soggetti siano investiti di poteri gestori e, in particolare, di poteri di disposizione del patrimonio sociale; in questo caso troverà applicazione, ricorrendone le condizioni, la clausola di estensione ex art. 2639 c.c., o, più in generale, l'istituto di natura penalistica del concorso di persone nel reato, ai sensi dell'art. 110 c.p.
Il presupposto della condotta illecita: il conflitto di interessi. Gli altri elementi costituitivi del reato
Per quanto concerne l'individuazione degli elementi della fattispecie, appare opportuno premettere che presupposto indefettibile della condotta infedele descritta e sanzionata dall'art. 2634 c.c. è, per espressa previsione legislativa, un conflitto di interessi esistente tra gli amministratori, direttori generali o liquidatori e la società. Non può dubitarsi, attesa l'eloquente collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice all'interno del codice civile, che il contesto normativo di riferimento – ai fini dell'identificazione del concetto di conflitto di interessi - debba essere, appunto, quello civilistico. Sotto l'egida del previgente art. 2631 c.c., che prima della riforma attuata dal D.Lgs. n. 61 del 2002 disciplinava il conflitto di interessi, si sono sviluppati due orientamenti giurisprudenziali del tutto antitetici. Un primo orientamento formalistico, riteneva idonea a far sorgere una situazione di interessi confliggenti la posizione di contrapposizione formale tra gli interessi dell'amministratore e quelli della società, secondo l'assunto per cui l'interesse tutelato dalla norma era rappresentato dalla correttezza formale delle deliberazioni societarie. Un diverso e contrapposto filone interpretativo, di carattere sostanzialistico, invece, riteneva che il conflitto di interessi sussistesse in presenza di oggettivi interessi patrimoniali. Secondo le elaborazioni interpretative dottrinali sviluppatesi sulla scia di quest'ultimo indirizzo, il conflitto di interessi avrebbe dovuto dunque essere oggettivamente valutabile attraverso parametri di natura economico–patrimoniale, effettivo e reale, con esclusione delle ipotesi di conflitto meramente ipotetico, preesistente all'operazione sociale, nonché attuale, sussistente cioè al momento dell'atto di disposizione (cfr. Musco, I nuovi reati societari, 2002, 212 e 213, Bellacosa, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni penali, 2006, 115; Foffani, L'infedeltà patrimoniale e conflitto di interessi nella gestione di impresa, Milano, 1997, 65 ss.). Non pare doversi dubitare, attesa la costruzione della fattispecie di infedeltà patrimoniale oggi vigente in termini di danno, in adesione al principio di offensività, che i criteri elaborati dall'ultimo orientamento giurisprudenziale siano senz'altro applicabili all'art. 2634 c.c. A fronte di un conflitto preesistente, effettivo, attuale e oggettivamente valutabile, pertanto, viene punito l'atto di gestione che direttamente o indirettamente persegue un interesse confliggente con quello sociale, provocando un effettivo nocumento patrimoniale per l'ente. Non è sufficiente, inoltre, per fondare la contestazione in oggetto, ravvisare il conflitto di interessi ogni qualvolta l'agente persegua un generico vantaggio economico proprio, in contrasto con quello societario, poiché così facendo l'ambito di operatività delle fattispecie comuni sarebbe pressoché nullo. Occorre, invero, che il conflitto, non solo sia preesistente all'atto di disposizione patrimoniale, ma soprattutto che attenga ad attività di tipo gestorio; escludendosi in tal modo, dall'ambito di operatività della norma, tutte quelle attività che nulla hanno a che vedere con la gestione dell'ente, ma che rappresentano solo l'occasione per perseguire il vantaggio o il profitto ingiusto.
Nella relazione illustrativa di accompagnamento alla riforma del diritto penale societario, in linea con la tendenza di ancorare la punibilità ad un'offensività concreta e reale della condotta, si dava atto dell'intento del legislatore di strutturare la fattispecie in esame come reato di azione con evento di danno, descrivendo la condotta come compimento di atti di disposizione dei beni sociali, dannosi per la società. A rendere penalmente rilevante la condotta, di per sé rientrante nell'ordinaria attività gestoria degli organi amministrativi e dirigenziali, è l'eccesso di potere per sviamento dell'interesse sociale, in favore di un interesse estraneo e incompatibile che determina un danno patrimoniale per la società. La realizzazione dell'evento, nello specifico, sanzionato dalla norma, è il danno patrimoniale subito dall'ente per effetto dell'atto di disposizione patrimoniale compiuto dagli autori, danno inteso come qualsiasi deminutio del complesso dei rapporti giuridici riferibile alla società. Secondo i più autorevoli autori, il nocumento deve risolversi in un'alterazione sfavorevole del rapporto, da determinarsi sulla base di criteri oggettivi, tra gli elementi attivi e passivi del patrimonio (cfr. Rossi, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, Milano, 2012, 287).
Il comma 3 della norma in esame, così come riformulato dall'art. 1 del D.Lgs. n. 61 del 2002, esclude la rilevanza penale dell'atto depauperatorio, difettando l'ingiustizia del profitto, in presenza dei cosiddetti “vantaggi compensativi”, dei quali la società abbia fruito – o sarebbe stata in grado di fruire - in ragione dell'appartenenza ad un gruppo. Tale locuzione appare essere la trasposizione dell'intento legislativo di ancorare la punibilità ad una concreta offensività dell'atto posto in essere dagli amministratori. Per cui non ogni atto che vada a nocumento di una società e a vantaggio di un'altra, collegata o facente parte del gruppo, sarà incriminabile, ma solo quelli effettivamente pregiudizievoli. L'intento della previsione in esame è quello di evitare che la fattispecie punisca operazioni che, se isolatamente considerate, possono risultare svantaggiose per la società, ma, se considerate nell'ambito del “gruppo”, siano idonee ad assicurare un equilibrio dei rapporti. Tuttavia, l'introduzione nel nostro ordinamento del comma 3, non permette di affermare che la sola presenza di un gruppo societario legittimi in qualsiasi caso l'atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole per l'ente. Saranno, invero, scriminate solo quelle condotte in conseguenza delle quali i benefici indiretti della società non solo risultino effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma siano anche idonei a compensare efficacemente gli effetti immediati negativi dell'operazione compiuta.
Il doppio elemento psicologico del reato
Di particolare rilievo, nell'analisi della norma in oggetto, è certamente l'elaborato profilo dell'elemento soggettivo del reato. Il legislatore, infatti, con l'intento di evitare interpretazioni giurisprudenziali eccessivamente severe e sfavorevoli all'imputato, ha previsto un doppio elemento soggettivo che deve sussistere in capo all'autore ai fini della sua responsabilità: dolo specifico e dolo intenzionale. Accanto alla locuzione “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”, il legislatore ha infatti posto l'avverbio “intenzionalmente”, così da rafforzare i profili di offensività della condotta anche dal punto di vista dell'animus dell'autore. Per buona parte della dottrina tale “irrobustimento” appare essere un doppione, atteso che nel dolo generico, nella rappresentazione cioè dell'interesse extra ed anti sociale, verrebbe assorbito anche il disvalore dell'ingiusto profitto o altro vantaggio, rendendo superfluo il dolo intenzionale (cfr. Foffani, Società, Artt. 2621-2644 c.c., in AA.VV., Commentario breve alle leggi penali complementari, a cura di Palazzo e Paliero, Padova, 2522). Ciò non toglie che il Giudice, stante il dato normativo oggi vigente, nell'analisi della vicenda posta al proprio esame dovrà verificare l'effettiva preferenza per l'interesse proprio o di terzi, in danno di quello sociale, oltreché l'intenzionalità del danno, non solo previsto, prevedibile o accettato come conseguenza certa o altamente probabile, ma vera e propria spinta motivazionale della condotta. Il riscontro nella pratica di tali requisiti soggettivi – segnatamente l'ingiusto profitto o altro vantaggio per sé o per altri e il danno patrimoniale della società – è talmente problematico che la fattispecie in esame risultata essere, in concreto, di difficile applicazione, tanto che la dottrina più accorta auspica un intervento modificativo della fattispecie.
Il secondo comma dell'art. 2634 c.c. rappresenta un'ipotesi autonoma di reato, che estende la punibilità d'infedeltà patrimoniale a quelle condotte commesse in relazione ai beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. L'elemento discretivo tra la fattispecie qui descritta e quella del primo comma è rappresentato dall'oggetto della condotta tipica, che qui ricomprende tutti i beni amministrati tramite lo strumento societario, prescindendo dall'appartenenza di detti beni alla società stessa o a terzi. Appare evidente l'intento della norma di tutelare i fenomeni di intermediazione bancaria o finanziaria e, in generale, i patrimoni gestiti, da atti di mala gestio. La formulazione della norma si differenzia, altresì, per la mancata previsione – nell'ipotesi di cui al secondo comma – dell'intenzionalità di causare un danno patrimoniale a terzi e quindi della necessarietà del dolo intenzionale. Il reato, pertanto, per come risulta formulato il disposto del secondo comma, risulta punibile anche a titolo di dolo eventuale. Conclusione, questa, che suscita diverse perplessità, attesa l'evidente (ed alquanto ingiusta) differenza di trattamento tra le due fattispecie, che soggiacciono del resto alla medesima sanzione penale.
Il vecchio testo dell'art. 2631 c.c., rubricato “Conflitto d'interessi”, recitava: “l'amministratore, che, avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società, non si astiene dal partecipare alla deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo relativa all'operazione stessa (2391), è punito con la multa da L. 400.000 a L. 4.000.000”. In tema di successione di leggi penali del tempo deve ritenersi che, riguardo all'art. 2631 c.c., sia intervenuta una vera e propria abolitio criminis, ai sensi del comma 2 dell'art. 2 c.p., poiché non sussiste continuità normativa tra la previgente disciplina del conflitto di interessi e l'attuale fattispecie di infedeltà patrimoniale. Del resto, le due fattispecie richiamate sanzionano fatti diversi, relativamente ai quali l'unico elemento in comune è il riferimento ad una situazione di conflitto di interessi, mentre si differenziano riguardo: alla tipologia dell'offesa, segnatamente un mero pericolo nell'art. 2631 c.c., e un effettivo danno patrimoniale nell'art. 2634 c.c.; alle condotte (partecipazione ad un delibera nel primo caso, atto di disposizione patrimoniale nel secondo); alla struttura dei reati ( di mera condotta e d'evento); ed infine all'elemento psicologico (dolo generico l'uno, e doppio dolo, specifico e intenzionale, l'altro). Quanto sopra è applicabile, mutatis mutandis, in rapporto all'abrogato reato di indebita concessione di prestiti e garanzie ad amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società commerciali, ai sensi del vecchio art. 2624 c.c. La norma richiamata sanzionava “gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori che contraggono prestiti sotto qualsiasi forma, sia direttamente sia per interposta persona, con la società che amministrano o con una società che questa controlla o da cui è controllata, o che si fanno prestare da una di tali società garanzie per debiti propri”. Anche dal confronto strutturale tra questa fattispecie e quella di infedeltà patrimoniale, infatti, emerge una evidente differenza degli elementi costituitivi; nello specifico l'art. 2624 c.c. era un delitto di mera condotta e di pericolo presunto, punito a titolo di dolo generico. Appare evidente che la disposizione dell'infedeltà patrimoniale non esaurisce la tutela penale apprestata dal legislatore verso le aggressioni ai beni sociali, da soggetti qualificati, ma piuttosto tipizza le condotte infedeli connesse all'attività di gestione, lasciando impregiudicata la rilevanza penale di quelle condotte illecite che sono prevista dal diritto comune. In quest'ambito, risulta interessante il confronto, nonché il rapporto intercorrente, tra la fattispecie qui in esame ed il reato comune di appropriazione indebita, ex art. 646 c.p. In particolare, il quesito che ci si pone è se permanga spazio di applicabilità per la seconda, in presenza di condotte di abuso ed uso improprio di beni sociali da parte dei titolari del potere gestorio. La giurisprudenza di legittimità ha dato risposta positiva a tale interrogativo, sancendo che tra le due fattispecie delittuose esiste un rapporto di specialità reciproca, atteso che ciascuna delle due norme presenta dei caratteri di specialità e di generalità, rispetto all'altra. Il reato di infedeltà patrimoniale si caratterizza, infatti, per l'indefettibile connessione tra gli interessi in conflitto e le finalità sottese all'atto, che sono, come detto, estranee e confliggenti con quelle societarie. Diversa è, invece, l'ipotesi in cui un soggetto si limiti a porre in essere atti di aggressione al patrimonio societario, appropriandosi del denaro o della cosa mobile di cui abbia la disponibilità, in ragione della carica ricoperta. Appare evidente, infatti, come entrambe le ipotesi normative abbiano quale comune elemento costitutivo del reato la deminutio patrimonii dell'ente e la locupletatio dell'agente; tuttavia, l'appropriazione indebita viene integrata con l'interversione del possesso e si qualifica, altresì, per l'assenza di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, presupposto necessario, come già detto, per determinare lo sviamento dell'atto di disposizione dal fine istituzionale e sussumere, quindi, la condotta nell'ambito di applicazione del reato societario. Ulteriore elemento specializzante dell'infedeltà patrimoniale è ravvisabile nella finalità del perseguimento di un qualsiasi vantaggio derivante dall'atto di disposizione, in alternativa all'ingiusto profitto richiesto per la configurazione del delitto di parte speciale del codice penale; mentre la specialità dell'appropriazione indebita risiede nella natura del bene oggetto di interversione (denaro o cosa mobile), che nella fattispecie di cui all'art. 2634 c.c. può essere un qualsiasi bene sociale, ovvero tutti i beni dell'ente in senso stretto, compresi quelli mobili, immobili, materiali ed immateriali e quindi anche crediti. Alla luce di quanto sopra illustrato, deve concludersi che – sussistendo il conflitto di interessi – rientra nell'alveo dell'art. 2634 c.c. qualsiasi atto di gestione che provochi un nocumento all'ente, senza che sia necessaria l'appropriazione di beni da parte del soggetto agente. Così come sarà, viceversa, integrata la fattispecie prevista dall'art. 646 c.p., allorquando l'agente, in assenza di qualsivoglia interesse confliggente con quello sociale, ponga in essere atti di aggressione al patrimonio della società, appropriandosi di beni ad essa appartenenti. Su questo punto è intervenuta più volte la giurisprudenza di legittimità, stabilendo che il reato di infedeltà patrimoniale non può configurarsi come una forma qualificata di appropriazione indebita, ma che le fattispecie de quibus sono in rapporto di specialità reciproca. A questa conclusione, il Supremo Consesso è pervenuto, nella sentenza n. 15879 del 2008, rilevando che l'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e la finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita, invece, presenta caratteri di specialità per la natura del bene e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto.
Anche tra le condotte di infedeltà patrimoniale e bancarotta patrimoniale per distrazione, punita ai sensi dell'art. 216 l. fall., è stato sostenuto che esiste un rapporto di specialità reciproca. La prima fattispecie, infatti, esige, sul piano materiale, un conflitto di interessi – come elemento presupposto della condotta – dal quale consegua un danno per la società e, sul piano soggettivo, che il comportamento dell'agente sia animato dalla finalità di ingiusto profitto per sé o per altri. Diversa, invece, l'ipotesi di cui alla legge fallimentare, che richiede unicamente una finalità di danno per i creditori. Appare evidente come gli interessi tutelati dalle norme de quibus siano differenti: i creditori sociali dal reato fallimentare e il patrimonio sociale dal reato societario. Diversità che spiega i suoi effetti sulla concreta punibilità delle condotte, per cui la condotta distrattiva assume rilevanza penale solo allorquando abbia determinato il dissesto della società, così da incidere sulle ragioni dei creditori. La Suprema Corte ha offerto un importante spunto riflessivo con la sentenza n. 13110 del 2008, laddove ha stabilito la possibilità che un'attività distrattiva non integri l'infedeltà patrimoniale, per mancanza di conflitto di interessi, ma anche che un'infedeltà patrimoniale non integri una distrazione, citando a titolo esemplificativo la stipulazione di un appalto di servizi oneroso, in situazione di conflitto di interessi. A sostegno della tesi della specialità reciproca sussistente tra le fattispecie delittuose in commento, il giudice di legittimità ha richiamato il disposto dell'art. 223 l. fall., che al primo comma prevede la punibilità degli amministratori di società dichiarate fallite resisi responsabili di fatti di bancarotta di cui all'art. 216 l. fall., tra cui la distrazione, e, al successivo comma, punisce i soggetti appena citati che abbiano cagionato il dissesto della società commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c. Risulta evidente dal dato letterale della norma che, pertanto, le condotte di cui al primo ed al secondo comma, quando siano attività distrattive a cagionare il fallimento, ben possono concorrere e, di conseguenza, altrettanto deve ritenersi – secondo il Supremo Consesso – nell'ipotesi prevista dall'art. 2634 c.c. Una diversa soluzione, secondo l'autorevole dictum della Cassazione, sarebbe infatti del tutto irragionevole.
Riferimenti
Riferimenti Normativi:
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