L'importanza dell'ATP per l'assolvimento dell'onere di allegazione di qualificate inadempienze
06 Luglio 2017
Introduzione
In un brillante articolo pubblicato in questo portale all'indomani della pubblicazione della legge Gelli-Bianco (D.SPERA, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti) l'Autore, con la consueta arguzia e capacità di approfondimento che lo contraddistingue, nel domandarsi se il chiedere al paziente di allegare «l'inadempimento qualificato» dell'esercente o della struttura sanitaria si traduca in una (possibile) sconfessione proprio del principio della «vicinanza della prova», enunciato dalle stesse Sezioni Unite con la nota sentenza n. 577 (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 577), ha, tra l'altro, richiamato l'attenzione sulla possibilità che l'attore-creditore, che contesti la colpa professionale, non conosca affatto (prima dell'istruttoria che verrà svolta nel giudizio civile) quale sia stato l'inadempimento in concreto verificatosi. Ciò in quanto ogni condotta “intermedia” o accessoria, rientrante nel più ampio oggetto dell'obbligazione di comportamento, potrebbe essere stata «astrattamente efficiente alla produzione del danno». Secondo Damiano Spera, mentre in termini generali incombe sul debitore della prestazione l'onere di provare l'estinzione dell'obbligazione mediante la prova dell'adempimento della stessa oppure in conseguenza dell'impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile (artt. 1218 e 1256 c.c.), il medico diligente, cioè adempiente, non sarebbe neppure gravato dall'onere della prova del caso fortuito (vale a dire, dell'evento imprevisto e imprevedibile che abbia determinato l'insuccesso o l'inutilità della prestazione sanitaria). In particolare, al di fuori dell'ipotesi residuale della difettosa tenuta della cartella clinica (nel qual caso, non essendo il paziente-creditore nelle condizioni di provare il nesso di causa tra la condotta colposa dei medici e la patologia verificatasi, il giudice potrà ritenerlo accertato anche mediante presunzioni), l'Autore non condivide la tesi esposta nella sentenza n. 577/2008, secondo cui, a fronte della contestazione da parte del paziente di un «inadempimento qualificato astrattamente efficiente alla produzione del danno», incomberebbe sul debitore (medico o struttura sanitaria) la prova della mancanza del nesso di causa con detto evento. Afferma il dr. Spera che se si aderisse fino in fondo alla tesi esposta nella citata sentenza di Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 577, nell'ipotesi di contumacia della parte convenuta (esercente o struttura), non essendo «possibile in quel processo la prova non solo dell'adempimento delle obbligazioni assunte dalla parte convenuta, ma anche della mancanza del nesso di causalità materiale tra taluno dei menzionati “inadempimenti qualificati” e l'evento dannoso (onere anch'esso asseritamente gravante sulla parte convenuta)», il giudice, già alla prima udienza, senza alcuna attività istruttoria e senza neppure disporre una consulenza medico-legale, potrebbe/dovrebbe ritenere non solo provato l'inadempimento della parte convenuta, ma anche, e soprattutto, il nesso di causa con l'evento dannoso lamentato dall'attore, istruendo, quindi, la causa ex art. 1223 c.c., ai soli fini dell'accertamento del danno risarcibile). Per il dr. Spera, invece, incombe sul creditore-paziente l'onere della prova del nesso di causa tra l'inadempimento e l'evento negativo verificatosi e, qualora, all'esito del giudizio, permanesse incertezza sull'esistenza di questo nesso di causa (potendo la causa dell'evento dannoso rimanere ignota), questa ricadrebbe sul creditore. In particolare, per il dr. Spera, «rimarrebbero a carico del paziente esiti pregiudizievoli causalmente riconducibili alle prestazioni sanitarie, ma dei quali non sia stata accertata – né positivamente né negativamente – l'imputabilità al medico». L'Autore evidenzia, infine, che, da questo punto di vista, non vi sarebbero differenze sostanziali tra le obbligazioni di mezzi e quelle di risultato, dovendo in entrambi i casi il giudice, nel caso di esito negativo dell'accertamento dell'esistenza, in concreto, del nesso di causa (tra l'inadempimento e la lesione del bene salute o il decesso), rigettare, ex art. 2697 c.c., la domanda di risarcimento del danno lamentato dal creditore della prestazione. Ciò in quanto sul creditore incomberà l'onere di provare tanto la causalità materiale, quanto quella giuridica, indifferentemente, nell'ipotesi in cui il debitore sia chiamato a rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale o di responsabilità contrattuale. Diventa, allora, decisivo individuare l'esatta linea di demarcazione tra onere di allegazione ed onere probatorio. Il vero punctum dolens, a mio modo di vedere, è, infatti, rappresentato non tanto (e, comunque, non solo) dalla ripartizione dell'onere probatorio, quanto dalla portata dell'onere di allegazione a carico dell'attore-danneggiato. Rappresenta principio ormai consolidato quello secondo cui, in tema di responsabilità per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è a carico del danneggiato la prova dell'esistenza del contratto e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia con l'allegazione di qualificate inadempienze, astrattamente idonee a provocare (quale causa o concausa efficiente; cfr. Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2015, n. 8473, in Guida al diritto 2015, 29, 60) il danno lamentato, restando a carico dei sanitari la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che il pregiudizio sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile. In particolare, rimane a carico del medico dimostrare o che tale inadempimento non vi sia stato ovvero dare la prova del fatto impeditivo, e cioè che pur sussistendo, il proprio inadempimento non sia stato causa del danno, e cioè che quest'ultimo non sia eziologicamente ascrivibile alla condotta, dovendo altresì indicare quale sia stata l'altra e diversa causa, non prevista e imprevedibile né superabile con l'adeguata diligenza qualificata, che tale danno abbia determinato (Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2015, n. 21782, in Guida al diritto 2016, 1, 75; Cass. civ., sez. III, 26 marzo 2015, n. 6102, in Guida al diritto 2015, 22, 59; Cass. civ., sez. III, 16 dicembre 2014, n. 26373, in Guida al diritto 2015, 8, 52; Cass. civ., sez. III, 6 ottobre 2014, n. 21025, in Dir. & Giust. 2014). Applicando tale principio, ad esempio, Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 27855, ha censurato l'operato della difesa attorea, la quale aveva operato un'inammissibile inversione, giacché, nel non allegare alcuno specifico inadempimento, aveva attribuito ai convenuti l'onere di dimostrare che la patologia del neonato non fosse conseguita ad un inadempimento medico, e che essa avesse tratto origine da un'affezione di natura genetica e, quindi, non eludibile dall'intervento del personale medico ospedaliero. Siffatta modalità configurava, per la Suprema Corte, un'azione giudiziale con mere finalità esplorative, in quanto essa appariva inammissibilmente volta a raggirare il necessitato rispetto dell'onere di allegazione e di prova, la cui attuazione costituisce condizione basilare ed ineludibile nel nostro sistema processuale. In dottrina, Occhipinti (E.OCCHIPINTI, È onere del paziente qualificare e provare l'inadempimento cui sia incorso il medico e la struttura ospedaliera, in Riv. It. Med. Leg. (e del Dir. san.) 2014, 03, 1051), nel richiamare la nota distinzione tra diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati (ex multis, Cass. civ., 12 ottobre 2012, n. 17408, in Giust. Civ. Mass., 2012, 10, 1204), sostiene che, nel caso di richiesta di risarcimento del danno vantato dal paziente nei confronti del medico e/o dell'azienda ospedaliera, trattandosi di azione relativa ad un diritto eteroindividuato, l'attore sia tenuto, sin dal primo atto introduttivo, a pena di nullità per violazione dell'art. 163, n. 4, c.p.c., a sufficientemente individuare ed a qualificare i fatti materiali lesivi del diritto, e la relativa fattispecie costitutiva, in modo da poter porre il convenuto in condizione di apprestare adeguatamente le proprie difese. Conseguentemente, se l'attività assertiva manca o risulta incompleta, nessuna attività “d'indagine” può essere compiuta nella fase istruttoria, giacché la successiva attività probatoria svolgerebbe in tal modo, come detto, una generica funzione esplorativa della verità storica. Invero, l'accertamento della verità processuale attraverso l'indagine esplorativa del consulente è ammissibile, solo ed esclusivamente, se essa rappresenta l'extrema ratio, e cioè solo se non vi sia altro mezzo per giungere all'accertamento richiesto che quello di demandarlo ad un soggetto dotato di speciali competenze tecniche (come avviene, per esempio, nel procedimento di riconoscimento della paternità, dove la compatibilità immunogenetica costituisce elemento di prova che può essere acquisito, per l'appunto, solo con l'espletamento di una consulenza tecnica). Solo in questi casi, sostiene l'Autore in precedenza menzionato, il giudice può incaricare il consulente non soltanto di valutare i fatti accertati (cd. “consulenza deducente”), ma anche di accertare i fatti stessi (cd. “consulenza percipiente”), essendo così necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. civ., 11 settembre 2012, n. 15157, in Dir. & Giust. online 2012, 12 settembre; sul tema cfr. anche Cass. civ., 5 febbraio 2013 n. 2663, in Dir. & Giust. online, 2013, 6 febbraio). D'altra parte, affinchè scatti l'onere di contestazione, è necessario, da un lato, che la parte avversa abbia nitidamente allegato i fatti costitutivi o a fondamento delle eccezioni e, dall'altro lato, che i fatti (o le situazioni) siano riferibili alla parte destinataria dell'allegazione, in quanto rientranti nella sua sfera di controllo e di conoscenza (nel senso che l'onere sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, e non anche per quelli ad essa ignoti, Cass. civ., sez. III, n. 14652/2016). Per Cass. civ., sez. III, n. 3023/2016, la mancata precisa allegazione esonera il convenuto, che abbia genericamente negato il reale accadimento dell'evento, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa. In una visione d'insieme del problema, è opportuno verificare, in primo luogo, se lo stesso si sia già in passato posto in settori diversi da quello sanitario, onde valutare se i principi enunciati in quella sede possano estendersi, se del caso con gli opportuni adattamenti, alla responsabilità medica. In questa indagine risalta che, nell'ambito delle azioni di responsabilità esperite da un curatore fallimentare nei confronti degli amministratori della società fallita resisi colpevoli di atti di mala gestio, Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100, ha messo bene a fuoco il profilo dell'allegazione, che della prova costituisce l'antecedente logico. In particolare, sulla stessa falsariga di quanto avviene nell'ipotesi di cartella clinica incompleta, ha ammesso, nel caso in cui gli amministratori della società fallita non abbiano depositato le scritture contabili oppure quando le scritture che abbiano depositato siano sostanzialmente inattendibili e/o incomplete (cfr. Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 1985, n. 6493, in Giur. comm. 1986, II, 813 ss.), che si realizza un'inversione del relativo onere, spettando, quindi, all'amministratore della società, per andare esente dalla responsabilità, dimostrare la mancanza del nesso causale tra il suo inadempimento e il danno al patrimonio sociale (quale si esprime nel deficit accertato in sede fallimentare), se del caso a mezzo del deposito in giudizio di scritture contabili attendibili o, comunque, dei documenti societari ad esse sottostanti. Peraltro, anche in questa ipotesi il creditore (e, dunque, il curatore) ha, di regola, un onere di allegazione di specifici, qualificati inadempimenti altrui. Più precisamente, questo onere ricorre, oltre che quando la contabilità esistente, per quanto lacunosa, consenta di distinguere le singole operazioni, quando le operazioni illegittime non si siano potute individuare per mancanza della documentazione necessaria, ma tale ultima situazione non sia imputabile agli organi amministrativi. In mancanza, il danno non potrebbe essere determinato nemmeno in via equitativa, atteso che la curatela non avrebbe assolto l'onere, pur possibile, di dimostrare e, ancor prima, di allegare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta materiale (compimento di operazioni illegittime) e l'evento di danno. Solo in questi casi l'onere probatorio sul nesso di causalità subisce un'inversione, nel senso che non deve il curatore provare che il danno sia derivato dall'atto illegittimo dell'amministratore, ma è questi a dover dimostrare che tale atto non abbia avuto alcuna incidenza causale sul prodursi del danno (cfr. Cass. civ., sez. I, 11 marzo 2011, n. 5876, in Giust. civ. Mass. 2011, 3, 399). In quest'ottica, Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 577 hanno affermato che «l'inadempimento rilevante nell'ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno», sicché «l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno». Occorre a questo punto domandarsi se la recente riforma della responsabilità medica abbia in qualche modo agevolato il paziente-creditore nella individuazione delle cause da porre a fondamento dell'allegazione degli altrui inadempimenti qualificati.
La nuova ipotesi di giurisdizione condizionata introdotta dalla legge Gelli-Bianco
È in questo contesto che si inserisce la nuova ipotesi di tentativo obbligatorio di conciliazione introdotta dall'art. 8 l. Gelli-Bianco, da espletarsi nelle forme del procedimento di cui all'art. 696-bis c.p.c., per le controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria. Il procedimento è previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nei confronti dei danneggianti ed è diretto ad acquisire elementi di prova direttamente rilevanti nel successivo eventuale giudizio di “merito”. In questo senso, può essere considerato una vera e propria “anticipazione” del tempo di espletamento della consulenza tecnica d'ufficio (M.VACCARI, L'ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria, in Ridare.it), che dei giudizi in esame costituisce accertamento istruttorio ineludibile (così C. cost., 22 ottobre 2014, n, 243 a proposito dell'ATP, ex art. 445-bis c.p.c.). In particolare, il procedimento precontenzioso, reso obbligatorio nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria, cumulerà nella maggior parte dei casi sia la funzione conciliativa, sia quella di anticipazione della prova, analogamente a quanto si può osservare in generale a proposito dell'istituto di cui all'art. 696-bis c.p.c. L'ultimo comma dell'art. 8 stabilisce che la partecipazione personale al procedimento è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione (del professionista sanitario o della struttura in cui si è verificato il fatto illecito), e ciò al fine evidente di assicurare un coinvolgimento dei soggetti che più concretamente possono contribuire alla definizione in via conciliativa della controversia. In tal modo si è voluto assicurare la partecipazione effettiva delle parti a tutte le fasi del procedimento e, quindi, anche agli incontri tra consulenti che dovessero aver luogo, e non al solo esame diretto della parte lesa. Peraltro, mentre la presenza del professionista non è necessaria qualora il danneggiato eserciti l'azione nei soli confronti della struttura sanitaria, allorché venga esercitata l'azione diretta a norma dell'art. 12 l. n. 24/2017 verso l'assicurazione, è richiesta anche la presenza dell'assicurato (a seconda dei casi, della struttura sanitaria o del professionista). Invero, nel giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione dell'esercente la professione sanitaria quest'ultimo è litisconsorte necessario (art. 12 ). La dottrina che si è occupata funditus della questione (A. BARLETTA, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nell'art. 8 della legge Gelli-Bianco, in Ridare.it) ritiene, tuttavia, che la partecipazione personale obbligatoria debba essere circoscritta ad un'apposita udienza da fissare dopo l'espletamento delle operazioni peritali, nella quale dovrebbe essere esperito il tentativo di conciliazione. Onde incentivare la detta partecipazione, in caso di inerzia, viene prevista la condanna, con il provvedimento che definisce il successivo giudizio, della parte che abbia disatteso la prescrizione normativa, pur vittoriosa, al pagamento delle spese di consulenza (se conclusa tempestivamente) edi lite, oltre che di una pena pecuniaria (a vantaggio della controparte cha abbia, invece, partecipato al procedimento). Si stabilisce altresì l'obbligo (e non la mera facoltà) per tutti i soggetti coinvolti nel procedimento (e non solo per le imprese di assicurazione) di formulare nel corso del procedimento una offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui non intendono formularla, in mancanza del cui adempimento le sanzioni saranno rappresentate, oltre che da quelle in precedenza indicate, dalla segnalazione, ad opera del giudice, all'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni (sia pure solo in caso di decisione favorevole al danneggiato). Resta da scrutinare quali siano le ricadute sul piano processuale di un rafforzamento evidente dell'accertamento tecnico preventivo con finalità conciliative.
Per quanto emerga nitido l'obiettivo legislativo di definire sul piano tecnico-scientifico, nell'ambito del procedimento precontenzioso in esame (id est, del procedimento di consulenza preventiva), tutte le controversie in materia di responsabilità medica e sanitaria, rimane, ovviamente, inalterata l'incertezza circa la concreta possibilità di raggiungerlo, anche considerando che le questioni fattuali da esaminare in sede preventiva sono lungi dell'essere definite nel contesto di un compiuto thema probandum. Il che potrà avvenire, in siffatta evenienza, solo nel giudizio di merito, successivamente alla vera e propria trattazione della causa nel contraddittorio tra le parti, sotto la direzione del giudice. Invero, la limitazione temporale (sei mesi) sancita dal legislatore all'art. 8 comporterà che gli accertamenti compiuti nella fase ante causam saranno, di norma, incompleti. Essi potranno essere più che altro funzionali ad acquisire i dati e le valutazioni necessari ad affrontare nel modo più ponderato possibile il tentativo di conciliazione, avendo a mente la complessità medico-legale delle questioni, che potranno essere eventualmente meglio affrontate ed approfondite, ripetesi, solo nel successivo giudizio di merito. Si assisterà, pertanto, normalmente ad un'anticipazione (quantomeno parziale) del momento acquisitivo e di valutazione medico-legale delle prove, in vista della definizione delle questioni fattuali e tecniche sottese alle controversie risarcitorie in materia sanitaria. Tuttavia, questa fase si rivelerà senz'altro utile al fine di individuare con la maggior precisione possibile quali siano le condotte (commissive o omissive) imputabili in concreto ai sanitari o alla struttura, in modo da porre il danneggiato nelle condizioni di allegare, nel contesto dell'atto introduttivo del successivo, eventuale giudizio di merito, qualificate inadempienze, idonee a provocare il danno lamentato. In passato, non di rado la giurisprudenza di merito affermava che, quando l'attore nell'atto introduttivo del giudizio ricostruiva l'evento in termini sintetici, appariva evidente che l'attività assertiva svolta a sostegno della prospettazione attorea, confusa ed approssimativa, sottendesse, in principalità, il riconoscimento della impossibilità di ricostruire la dinamica dell'evento in modo difforme ed autonomo rispetto a quello "ufficializzato" negli atti, ma, al contempo, manifestasse la volontà di "esplorare" l'accadimento, con l'evidente intento di ricondurlo nell'alveo di una pretesa responsabilità del convenuto (cfr., fra le tante, Trib. Milano, sez. X, 28 febbraio 2006, n. 2595). Ciò induceva ad ammettere comunque l'espletamento di una CTU medico-legale, se del caso avente ad oggetto l'individuazione, oltre che delle condotte (commissive o omissive) imputabili al medico o alla struttura, della causa dell'evento dannoso lamentato. Questo approccio non potrà, secondo me, più avallarsi in futuro, non dovendo essere all'attualità consentito ridurre l'attività assertiva ad una mera, sia pure, dettagliata esposizione degli esiti lesivi dell'accaduto, demandandosi alla successiva fase istruttoria l'esatta definizione della dinamica del fatto generatore, senza al contempo offrire elementi analitici (soprattutto sul piano delle allegazioni) che forniscano indicazioni circa l'utile esperibilità della prova, che, così operando, verrebbe richiesta quasi ad explorandum.
All'esito del procedimento di consulenza tecnica preventiva, e sempre, ovviamente, che lo stesso non si concluda con un verbale di conciliazione, si potranno in astratto, a mio modo di vedere, verificare due ipotesi nel successivo giudizio di merito: a) il danneggiato-attore omette di allegare qualificate inadempienze: in tal caso convenuto non è posto nelle condizioni di prendere posizione sui fatti contestatigli e l'eventuale espletamento di una CTU medico-legale si rivelerebbe meramente esplorativa; b) il danneggiato provvede, anche alla luce di quanto emerso nel corso dell'ATP ad individuare con precisione le condotte di malpractice medica eziologicamente riconducibili all'evento dannoso lamentato: dovrà essere il sanitario (e/o la struttura) a contestare analiticamente ed inequivocamente i fatti ascrittigli e, per il principio di vicinanza della prova, a dimostrare di non aver posto in essere quelle condotte (o, nel caso di illecito omissivo, di averne poste in essere, sulla base di un giudizio ex ante controfattuale, di idonee) o che le stesse non siano state la causa della lesione denunciata.
In definitiva, si è al cospetto, quanto alla posizione processuale dei convenuti, non già di mere difese (come tali non incidenti sulla ripartizione dell'onere probatorio), bensì di veri e propri fatti impeditivi. Da ciò consegue che, nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili (ormai limitatamente alla seconda) le regole sulla responsabilità contrattuale (ivi comprese quelle sul riparto dell'onere della prova), l'attore ha il solo onere - ex art. 1218 c.c. - di allegare e provare l'esistenza del contratto, e di allegare in modo “qualificato” l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'errore del medico e l'aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare o che inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dall'attore. Le argomentazioni a base di questa scelta ermeneutica sono sicuramente valide, in quanto porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato od inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni, in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova gravi a carico di chi l'abbia eseguita; tanto più che, trattandosi di obbligazione professionale, il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.
Il criterio che si è inteso privilegiare è tanto più, a mio modo di vedere, da percorrere se l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore, in quanto estranee al bagaglio della comune esperienza, e specificamente proprie di quello del debitore, nel caso di specie, specialista di una professione protetta (cfr. Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488, in Danno e resp. 2005, 23). Conseguentemente, una volta allegato da parte del paziente l'inadempimento degli obblighi contrattuali gravanti sulla struttura sanitaria, è onere di quest'ultima dimostrare che le prestazioni di cura, durante l'intervento chirurgico, sono state adeguatamente rese osservando le norme tecniche, e con la diligenza richiesta dalla specifica professionalità normalmente esigibile in base al tipo di intervento ad effettuarsi. A.BARLETTA, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nell'art. 8 della legge Gelli-Bianco, in Ridare.it , 7 aprile 2017; D.SPERA, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti, in Ridare.it , 13 aprile 2017; M.VACCARI, L'ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria, in Ridare.it 21 marzo 2017. |