Le Linee Guida nella pratica clinica e nella sua valutazione
05 Maggio 2014
La costante attenzione per la ricerca scientifica ed il relativo incremento del bagaglio esperienziale richiesto alle professioni sanitarie per svolgere correttamente il loro servizio, hanno portato alla riflessione sugli elementi di criticità circa l'attività decisionale degli operatori del campo della sanità e su come tali criticità possano essere valutate ed emendate. In tale contesto, la legge n.189 dell'8 novembre 2012 ha sottolineato il rilievo giuridico che le linee guida e la “buona pratica clinica” hanno nella dinamica della valutazione della responsabilità del medico. La Giurisprudenza italiana appare concorde nel ritenere che le linee guida possano guidare nell'indirizzo dell'operato dei sanitari, laddove esse risultino promulgate da fonti autorevoli e siano basate sulle più recenti acquisizioni del campo scientifico e di ricerca. Tuttavia, è da tenere a mente il carattere non draconiano delle stesse, stante l'insita variabilità propria dell'arte medica ed i limiti che le linee guida stesse sottendono. Lo scopo delle linee guida, difatti, è favorire l'operato medico, minimizzando le variabilità delle decisioni cliniche legate a possibili carenze di conoscenze o alla soggettività delle scelte terapeutiche da adottare; esse non nascono e non ambiscono a divenire strumento di valutazione dell'operato medico in sede giudiziaria. Tuttavia esse, se correttamente interpretate, forniscono un utile elemento nel giudizio circa l'appropriatezza degli atti medici svolti, fermo restando il mancato sillogismo tra aderenza alle linee guida e comportamento non censurabile del sanitario, non potendosi configurare l'osservanza delle linee guida come un'aprioristica deresponsabilizzazione dell'esercente la professione sanitaria. Se così fosse, evidenti sarebbero le conseguenti ripercussioni nel sempre più attuale tema della medicina difensiva, con ulteriore svalutazione di quei criteri di indipendenza, autonomia e discrezionalità propri dell'arte medica, che in ultima analisi minano il diritto del malato ad ottenere le prestazioni mediche più appropriate L'eterogeneicità delle patologie umane, il perpetuo sviluppo delle conoscenze mediche e la non omogenea diffusione delle metodiche sanitarie fanno sì che i professionisti del settore sanitario siano costantemente posti dinanzi all'eventualità di affrontare medesime problematiche con diverse opportunità diagnostico-terapeutiche. Al fine di garantire la qualità delle cure erogate, diviene pertanto imprescindibile estrapolare concetti cardine che possano adiuvare nei processi decisionali volti a mettere in opera la scelta più appropriata tra le varie opzioni, fondata sulle più attuali e validate acquisizioni scientifiche disponibili. A tal fine, sin dagli anni '80 del secolo scorso, vi fu l'affermazione della “Evidence Based Medicine” o medicina basata sull'evidenza, la quale è definita come “l'uso cosciente, esplicito e coscienzioso delle migliori evidenze (prove di efficacia) biomediche al momento disponibili al fine di prendere decisioni per l'assistenza del singolo paziente” (D.L. Sackett et al., Evidence based medicine:what it is and what it isn't, BMJ 1996;312-71 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.312.7023.71). Tale medicina basata sulle prove di efficacia, nacque in territorio francese nella prima metà del XIX secolo con la “Médecine d'Observation”, secondo la quale i medici, piuttosto che affidarsi all'esclusiva esperienza personale, avrebbero dovuto agire in rispetto di ampie serie sperimentali in grado di fornire conoscenze riguardo ai possibili effetti, in termini numerici, di un determinato trattamento (J.P. Vandenbroucke, Evidence-Based Medicine and "Médecine d'Observation". J Clin Epidemiol 1996;49:1335-8). L'epidemiologo inglese Archibald Cochrane, nel 1972, consigliava – stante il problema, presente già allora, della limitatezza delle risorse impiegabili – di rendere disponibili a tutti i pazienti soltanto gli interventi sanitari di comprovata efficacia, sottolineando tuttavia la mancanza di un'affidabile ed autorevole fonte che ne attestasse la validità (A.L. Cochrane, Effectiveness and Efficiency.Random Reflections on Health Services . Royal Society of Medicine Press, 1999). e' solo nel 1990, attraverso l'Institute of Medicine di Washington, che si iniziò a parlare di linee guida, identificate come "raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di esperti, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche” (M.J. Field et al., Clinical Practice Guidelines: Directions for a New Program, Institute of Medicine, Washington, DC, National Academy Press, 1990). Esse hanno dunque lo scopo di “formulare esplicite raccomandazioni con il preciso intento di influenzare la pratica clinica” (R.S.A. Hayward et al., Users' Guides to the Medical Literature.VIII. “How to Use Clinical Practice Guidelines. A. Are the Recommendations Valid? ”, JAMA 1995;274:570-574). Il fine dei metodi evidence based, estrinsecantesi non solo tramite l'elaborazione di linee guida, ma anche attraverso “consensus conferences” e rapporti di “technology assessment”, è dunque di esplicitare il miglior grado di appropriatezza degli interventi medici, traducendo le molteplici – e a volte discordanti – nozioni scientifiche in raccomandazioni, al fine di agevolare decisioni basate sulle conoscenze scientifiche più aggiornate e validate del momento storico. Esse devono essere corroborate da studi oggettivi e riproducibili, illustranti il beneficio dell'impiego di tali scelte terapeutiche, vale a dire fornendo una correlazione scientifica tra azione effettuata e outcome previsto. Risulta manifesto come talvolta, termini quali “linea guida”, “protocollo”, “procedura” e “percorso diagnostico-terapeutico” vengano utilizzati impropriamente come sinonimi, creando confusione a riguardo: risulta utile, perciò, riprenderne in breve le appropriate definizioni. Nella prassi medica, si definisce “protocollo” un algoritmo di condotta professionale predefinito, estrinsecantesi attraverso l'indicazione di una successione puntuale di interventi che devono essere posti in essere per raggiungere un determinato obiettivo; esso contribuisce a dare una logica comportamentale che orienta i clinici su cosa fare ogniqualvolta si verifichino segni e sintomi specifici. Secondo la definizione proposta da Cantadore, il protocollo costituisce “un insieme logico e sequenziale di atti, manovre e indagini, finalizzato a raggiungere un determinato obiettivo” (R. Cantadore, I protocolli del soccorso nel politraumatizzato, in Regione Emilia Romagna-ISS, Traumi, Atti del Convegno nazionale, Bologna 24-26 gennaio 1990, pag. 83). Con “procedura”, si identifica, invece, una sequenza dettagliata e logica di azioni tecnico-operative rigidamente definite e standardizzate, le quali descrivono singole fasi di un processo, al fine di uniformare attività e comportamenti. I protocolli e le linee guida possono confluire nella realizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici, che consistono nella descrizione cronologica di interventi medici e infermieristici posti in essere per fronteggiare una specifica patologia, al fine di conseguire il massimo livello di qualità con i minori costi e ritardi nel contesto organizzativo nel quale si opera. Se le linee guida identificano quali debbano essere i requisiti clinici di un paziente per essere inserito in un percorso clinico – diagnostico o terapeutico – che meglio risponda alle caratteristiche di segni e sintomi presentati, le procedure identificano come i singoli segni e sintomi debbano essere trattati appropriatamente nel caso di specie.
Per essere oggetto di una linea guida, il problema clinico per cui si propone la stessa deve risultare rilevante in termini di prevalenza, gravità e/o costi sanitari implicati e la sua soluzione deve essere materia di discussione all'interno della comunità scientifica, sussistendo opinioni divergenti degli esperti sulle conoscenze disponibili. Tale disomogeneità delle opinioni si riflette, in ultima analisi, nella varietà delle pratiche cliniche. L'oggetto della linea guida, inoltre, deve essere stato necessariamente protagonista di numerosi studi scientifici, cosicché esistano evidenze sulle quali sia possibile fondare una riflessione critica e multidisciplinare, preordinata alla formulazione delle raccomandazioni. Le raccomandazioni espresse dalle linee guida sono caratterizzate da “livelli di prova” e da “gradi di forza”. Con i primi s'intende la probabilità che un certo numero di conoscenze sia derivato da studi pianificati e condotti in modo da produrre informazioni valide e prive di errori sistematici. Il “grado di forza”, invece, rappresenta la probabilità che l'applicazione della raccomandazione nella pratica clinica determini un miglioramento dello stato di salute della popolazione. L'importanza e la difficoltà nell'emanazione di linee guida rende ragione dell'esistenza, a livello internazionale, di plurimi Istituti che si occupano della loro produzione – a titolo esemplificativo di tale molteplicità: il National Institute of Clinical Excellence (NICE); lo Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN); la Canadian Medical Association (CMA) che implementa le Clinical Practice Guidelines canadesi; la National Guideline Clearinghouse (NGC) in America; la neozelandese New Zealand Guidelines Group (NZGG); le Clinical Guidelines Australia (MJA) –. Nel territorio italiano è presente il Piano Nazionale Linee Guida (PNLG) previsto dal Piano sanitario nazionale 1998-2000 e dal d.l. n. 229/1999 “Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419”, pubblicato in G.U. n. 165 del 16 luglio 1999. Tale PNLG è coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità e dall'Agenzia per i Servizi Sanitari Nazionali, e si occupa della “elaborazione di linee guida e di altri strumenti di indirizzo finalizzati al miglioramento della qualità dell'assistenza” (Istituto Superiore di Sanità, Agenzia per i servizi sanitari regionali (a cura di), PNLG – Piano nazionale per le linee guida - Manuale metodologico - Come produrre, diffondere e aggiornare raccomandazioni per la pratica clinica”, Ed. Zadig, Maggio 2002, aggiornamento Maggio 2004. Consultabile all'indirizzo: http://www.snlg-iss.it/PNLG/, ultima consultazione marzo 2014). Il Decreto del Ministero della Salute del 30 giugno 2004 ha istituito il “Sistema Nazionale Linee Guida”, avente la finalità di pervenire ad un maggiore coordinamento a livello centrale delle istituzioni operanti nell'elaborazione di linee guida. La difficoltà nella produzione e nella diffusione delle linee guida non può comportare tuttavia la mancanza di analisi della stessa da parte dell'operatore che mette in pratica quanto emanato; l a consapevolezza che nell'utilizzo di un metodo è necessario conoscere le peculiarità ed i limiti dello stesso è insito nella matrice dell'evidence based medicine. L'utilizzo e l'impersonale aderenza alle linee guida non può automaticamente identificarsi con la pratica della medicina evidence based, in quanto “sono i medici ad assumere le decisioni, non le evidenze ”(R.B. Haynes et al., Physicians and patients choices in evidence-based practice.Evidence does not make decisions, people do., in BMJ 2002; 324: 1350 . Vedasi inoltre M. Barni, Evidence Based e medicina legale, in Riv. it. med. leg. 1998; 20, 3). Per tale motivo il medico, in primo luogo, nell'affrontare il caso concreto, dovrà identificare la linea guida più opportuna, analizzarla ed infine validarla per il caso di specie. Elemento fondamentale perché una linea guida possa essere assunta come modello operativo è che essa risulti accreditata da ampia e consolidata comunità scientifica. Le linee guida presentano “varietà delle fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l'impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti” (Cass. pen., sez. IV, sent., 29 gennaio 2013 n. 16237). Oltre a tali problematiche vi possono essere criticità di “back translation” – allorquando una linea guida venga meramente tradotta nella lingua del territorio ove s'intende applicare, senza una opportuna validazione della stessa –. E' attualmente disponibile uno strumento di valutazione della qualità di una linea guida già validato in lingua italiana, che permette di scegliere quale documento recepire in un'Azienda Sanitaria. Tale strumento è l'Appraisal of Guidelines for Research & Evaluation in Europe, nato nell'ambito di un progetto collaborativo europeo - EU BIOMED2 (BMH4-98-3669) –, cui ha partecipato anche l'Italia, in particolare la regione Emilia Romagna, che ne ha anche curato la traduzione in italiano. Si tratta di una check list di valutazione il cui uso è metodologicamente definito: valuta linee guida già prodotte, in fase di elaborazione o anche in fase di aggiornamento, a prescindere da chi le abbia prodotte o dalla lingua di origine. In buona sostanza, è uno strumento generico che indaga sulla qualità di produzione della linea guida, andando a declinare le aree semantiche che caratterizzano il documento.Stante quanto finora esposto, appare come il sanitario debba necessariamente adoperare un atteggiamento critico e di selezione nella valutazione delle linee guida da seguire. Successivamente a tale selezione, dovrà altresì applicare i principi generali enunciati da tale linea guida adattandoli al caso concreto, avendo in considerazione le precipue caratteristiche clinico-patologico-assistenziali del caso di specie. Non risulta possibile prospettare alcun automatismo tra discostamento dalle linee guida e colpa dell'operatore sanitario, come richiamato nelle “considerazioni giuridiche” contenute nel PNLG citato in precedenza: “le linee guida fanno infatti riferimento a un paziente astratto, non a quel «particolare» paziente che il medico deve in concreto curare, con la sua complessità clinica e la sua specificità patologica”. La dottrina medico-legale, pur affermando che per valutare la condotta professionale dei medici si deve fare riferimento anche a questi documenti, nel momento di realizzazione dell'atto diagnostico o terapeutico incriminato, sottolinea correttamente il valore relativo delle linee guida per i singoli casi (A. Fiori, La medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè Editore, 1999, 511-15). Le linee guida devono quindi essere utilizzate a fini medico-legali con prudenza ed equilibrio, tenendo presente non solo la discrezionalità tecnica dell'agire del medico nel singolo caso, ma anche la coesistenza in un determinato contesto storico di più alternative di cura scientificamente convalidate per una stessa malattia (A. Fiori, opera precedentemente citata). Conclusioni
La valenza delle linee guida quali parametri di riferimento della condotta del personale sanitario non può essere considerata assoluta, essendo il loro scopo precipuo quello di guidare e favorire il corretto operato del medico, senza con ciò divenire strumento per valutarne la condotta in sede giudiziaria. La valutazione della condotta, difatti, necessita indubbiamente del decisivo apporto di consulenti tecnici e periti, al fine di evidenziare le peculiarità del caso clinico di specie. Citando la Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, n. 35992/2012: “[…] può ritenersi conclusione condivisa […] che l'adeguamento o il non adeguamento del medico alle linee guida, quindi, non escluda né determini automaticamente la colpa. E' evidente, infatti, che le linee guida contengono valide indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest'ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici […] La verifica circa il rispetto delle linee guida va, pertanto affiancata ad un'analisi – svolta eventualmente attraverso una perizia – della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico si è trovato ad intervenire […] Il medico, nella pratica della professione, deve con scienza e coscienza perseguire un unico fine: la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui dispone al tempo la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità […] In definitiva non vi sarà esenzione da responsabilità per il fatto che siano state seguite linee guida o siano stati seguiti protocolli, ove il medico non abbia compiuto colposamente la scelta che in concreto si rendeva necessaria”. Per configurare una responsabilità professionale a carico del medico, non sarà dunque sufficiente accertare la violazione della regola cautelare rappresentata dalla linea guida, essendo necessario verificare se il professionista avesse di fatto la possibilità ed il dovere, stante le conoscenze scientifiche più attuali, di osservare tale regola. Le linee guida, anche alla luce della legge n.189 dell'8 novembre 2012, devono essere considerate come il compedio delle regole generali di buona pratica medica: esse rivestono sussidio scientifico alle scelte mediche. La valutazione finale dell'agire prudente, perito e diligente dovrà comunque essere opportunamente valutato in accordo con la peculiarità del caso concreto, in quanto “le linee guida non costituiscono strumento di precostituita, ontologica affidabilità” (Cass. pen., sez. IV, sent., 29 gennaio 2013 n. 16237).
|