Parentela di fatto e risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita del congiunto

Paolo Mariotti
Raffaella Caminiti
05 Giugno 2017

Ai prossimi congiunti o ai soggetti ad essi assimilabili, legati alla vittima da un forte vincolo affettivo, deve riconoscersi il ristoro per il danno non danno parentale
Massima

Sulla scorta della presumibilità del dolore e della perdurante ed irreversibile sofferenza derivante ai prossimi congiunti o ai soggetti ad essi assimilabili, legati alla vittima da un forte vincolo affettivo, agli stessi deve riconoscersi il ristoro per il danno non patrimoniale, quale turbamento psichico soggettivo identificato con la sofferenza provocata dall'evento dannoso, derivato dalla perdita del congiunto (c.d. danno parentale).

Il caso

Mentre circolava sul margine destro della carreggiata in sella alla propria bicicletta, un ragazzo viene travolto ed ucciso da un'autovettura.

I parenti di fatto, rappresentati da un procuratore speciale, agiscono in giudizio nei confronti dell'ente gestore della strada, del proprietario/conducente del veicolo investitore e del suo assicuratore per la RC auto, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, subiti.

Gli attori deducono l'esistenza di un forte legame affettivo con il defunto, riconducibile ai rapporti di natura familiare e di convivenza, avendo gli stessi rivestito un ruolo fondamentale nella sua vita, rispettivamente in veste di padre (poiché sposato per parecchi anni con la madre naturale del ragazzo), nonno e fratello di fatto.

L'ente gestore della strada, nel costituirsi in giudizio, eccepisce il difetto di legittimazione attiva degli attori non sussistendo la prova degli asseriti rapporti tra gli stessi e il defunto, respingendo comunque ogni addebito di responsabilità a proprio carico, per essere imputabile la verificazione del sinistro esclusivamente al proprietario/conducente della vettura investitrice e per essere stata la strada in buone condizioni di manutenzione.

Si costituisce la Compagnia di assicurazione eccependo anch'essa la carenza di legittimazione degli attori, in quanto meri parenti di fatto del defunto.

La questione

Sussiste anche in capo ai parenti di fatto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla morte del congiunto?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Roma, attribuita l'esclusiva responsabilità dell'incidente al proprietario/conducente del veicolo investitore non avvedutosi della presenza del velocipede sulla sede stradale, lo ha condannato in solido con il suo assicuratore per la RC auto a risarcire i danni subiti dagli attori, riconoscendo la legittimazione attiva di questi ultimi.

Il giudice giunge a questa conclusione osservando che «il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto familiare (cfr. per il caso, del tutto assimilabile, del convivente “more uxorio” in relazione al figlio naturale non riconosciuto, Cass. civ., sez. III, sent. n. 12278/2011)».

Nella fattispecie, pur non essendovi tra gli attori e il defunto un legame «di sangue» che consentisse di presumere la perdita del rapporto parentale, era stata dimostrata l'esistenza tra i medesimi (anche attraverso idonea produzione documentale) di una stabile comunione di vita derivante, anzitutto, dalla continuità della convivenza sino alla separazione dei coniugi avvenuta dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale il ragazzo aveva abitato, unitamente alla madre naturale, con il marito di questa, e i di lui padre e fratello.

Rileva il Tribunale che «sebbene la sofferenza provata dal parente di fatto sia un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l'attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, il quale non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione (Cass. civ., sez. III, sent. n. 8037/2016), relativa al caso della sofferenza del convivente “more uxorio” in conseguenza dell'uccisione del figlio unilaterale del partner), nella specie è dato nondimeno presumere che la coabitazione del defunto già dai suoi primi mesi di vita con il marito di sua madre ed i suoi parenti ed il protrarsi di essa per un lungo periodo (omissis), abbia necessariamente creato, tra i conviventi, un forte legame affettivo ed uno stabile vincolo di solidarietà familiare del tutto assimilabile a quello della famiglia naturale (anche senza ipotizzare il rivestimento di ruoli specifici)».

Una volta ammessa la risarcibilità a favore degli attori del danno non patrimoniale, «quale turbamento psichico soggettivo e transeunte identificato con la sofferenza provocata dall'evento dannoso, derivato dalla perdita del congiunto (c.d. danno parentale)», e dopo aver evidenziato che la liquidazione di tale danno può effettuarsi solo con ricorso all'equità, «tenendo conto delle particolarità del caso concreto al fine di adeguare l'equivalente pecuniario all'oggettiva entità del danno (cfr. Cass. civ., n. 134/1998; Cass. civ., n. 490/1999; Cass. civ., n. 475/1999) », il giudice adotta i parametri tabellari elaborati dal Tribunale di Roma (illustrandone l'evoluzione dal 1996 in poi), enucleando i fattori da considerare per garantire un'adeguata personalizzazione del risarcimento, ovvero: «1) il rapporto di parentela tra vittima e superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto; 2) l'età della vittima e quella del superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto minore è tale età, in quanto destinato a protrarsi per un tempo maggiore; 3) la convivenza o meno tra vittima e superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretta era la frequentazione tra vittima e superstite».

Pur essendo presumibile, in astratto, una sofferenza degli attori «assimilabile a quella dei congiunti effettivi parenti», essi non hanno assolto l'onere di allegazione e prova circa l'eventuale esistenza di parenti naturali, né in quale misura questi ultimi, se esistenti, fossero presenti nella vita del ragazzo; per contro, era certa la mancanza del requisito della convivenza con gli attori all'epoca del fatto.

Dall'esame del compendio probatorio, il Tribunale di Roma ha ritenuto equo operare una decurtazione delle somme riconoscibili a favore degli attori: difatti, pur essendo presumibili contatti telefonici e loro sporadiche visite al ragazzo, risiedendo all'estero, «la natura del legame (di fatto), la non convivenza tra il defunto e gli attori e l'impossibilità di apprezzare (l'esistenza e l'importanza de) gli altri legami affettivi posseduti dal defunto, sono circostanze concretamente valutabili, quali significativi fattori di affievolimento, ai fini dell'apprezzamento da parte del Tribunale, dell'intensità del legame e dell'orientamento dell'equità nella liquidazione, da effettuarsi nella misura del complessivo 30% del punto tabellare, non potendosi neppure presumere la riconducibilità di un eventuale distacco dalla famiglia, (omissis), a ragioni di necessità».

Osservazioni

La sentenza in commento affronta il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale da morte del congiunto quando la relazione esistente tra la persona deceduta e l'istante, pur non configurandosi un legame «di sangue» tra persone che discendono da un comune capostipite ex art. 74 c.c., ha tuttavia i requisiti sostanziali della parentela e, come tale, è idonea a legittimare la richiesta di analoga tutela risarcitoria nei confronti del danneggiante.

Oltre a registrare la tendenza del Legislatore, in ambito civile e penale, ad una sempre maggiore parificazione dei diritti dei familiari di fatto a quelli di diritto, la giurisprudenza, dal canto suo, ha individuato quali presupposti indefettibili per concedere l'invocata tutela anche ai rapporti di fatto la stabilità del vincolo affettivo, a prescindere dalla loro formalizzazione (come nel caso della convivenza more uxorio) o dalla previsione ex lege, così intervenendo nella disciplina dei rapporti sociali ed offrendo tutela a rapporti affettivi anche se non derivanti da consanguineità o da affinità in senso stretto (giuridicamente rilevanti come tali), ma pur sempre connotati dall'esistenza di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale (v. sul riconoscimento del danno parentale alla madre sociale, Trib. Reggio Emilia, sez. II, 2 marzo 2016, n. 315).

Occorre, dunque, che chi agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno conseguente al decesso della vittima primaria dell'illecito dimostri che il rapporto con quest'ultima fosse, per durata, solidità e continuità, in tutto assimilabile a un rapporto di parentela.

In altri termini, ciò che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei parenti di fatto della vittima è la prova dell'esistenza e della portata del legame instaurato con il defunto, così che possa essere ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, dimostrando, in particolare, la sussistenza di una relazione di convivenza avente le stesse caratteristiche di quelle dal Legislatore ritenute proprie del vincolo parentale, nonché di un rapporto saldo e duraturo, del tutto equiparabile a quello della famiglia naturale, intesa come un sistema di relazioni essenzialmente affettive, connotate da condivisione materiale e spirituale trai suoi componenti.