La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti

13 Aprile 2017

L'autore analizza il background della riforma Gelli-Bianchi, spiega le ragioni per cui, a suo avviso, la distinzione tra “obbligazioni di mezzi” e “obbligazioni di risultato” conservi una sua perdurante vitalità e motiva come l'importante novità introdotta dalla riforma Gelli Bianco, circa la natura extracontrattuale della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, non assuma in realtà la rilevanza di una “vera rivoluzione”.
Premessa

La l. n. 24 dell'8 marzo 2017, c.d. “legge Gelli-Bianco” (dai nomi dei relatori in Parlamento), in vigore dal primo aprile 2017, disciplina all'art. 7 la “Responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria”.

Da più parti si è detto che siamo davanti ad una “rivoluzione”, una vera e propria inversione di tendenza. Per circa un ventennio, infatti, la giurisprudenza ha elaborato principi di diritto volti a tutelare il soggetto debole (il paziente), ma, al contempo, espansivi della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, fino a lambire inammissibili confini della responsabilità oggettiva.

La riforma mira, in primo luogo, a scongiurare il noto fenomeno della medicina difensiva, con tutti i suoi corollari in tema di spesa pubblica ed inefficienza del sistema sanitario. La legge intende perseguire questa finalità (anche) con l'art. 7 (norma con forza imperativa), in cui conferma la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria e proclama, invece, che «L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente».

In secondo luogo, la voluntas legis sarebbe quella di “allontanare” l'esercente sanitario dal processo civile, disponendo:

  • un più gravoso onere probatorio della sua responsabilità;
  • una possibile diminuzione dell'entità del risarcimento del danno a suo carico (alle condizioni previste nel comma 3 dell'art. 7);
  • soprattutto, rilevanti limiti qualitativi e quantitativi all'azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa (art. 9), con conseguenti benefici anche in termini di costi di polizza assicurativa (art. 10).

Tuttavia, nutro forti dubbi che la riforma possa riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissati dal legislatore.

Per spiegare le ragioni di queste mie perplessità è necessario premettere una rapida ricostruzione (o, più esattamente, revisione) critica sia degli arresti giurisprudenziali cui sono approdate le Sezioni Unite l'11 gennaio 2008, sia del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi all'indomani dell'entrata in vigore della c.d. “legge Balduzzi”. A mio giudizio, infatti, sono queste le due vere ragioni giustificative poste a fondamento delle scelte effettuate nella riforma sanitaria in esame.

Il background della riforma Gelli-Bianco: i dicta delle Sezioni Unite nella sentenza n. 577/2008

Credo sia opportuno prendere le mosse dalla nota sentenza Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in cui le Sezioni Unite stigmatizzavano che:

  • Il rapporto che si instaura tra il paziente e la casa di cura (o l'ente ospedaliero) «ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (…) insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze». Ne deriva, allora, che la responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente ha natura contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. e può conseguire sia all'inadempimento delle obbligazioni direttamente poste a suo carico che, ex art. 1228 c.c., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta dal sanitario «quale suo ausiliario necessario, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale».
  • A sua volta, anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente ha natura contrattuale, ancorché non fondata su un contratto, bensì su un contatto sociale qualificato (vedi Cass. civ., n. 589/1999). Consegue che, relativamente a tale responsabilità, i regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale.
  • All'art. 2236 c.c. non va assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell'onere probatorio; incombe in ogni caso sul medico, che conosce le regole dell'arte e la situazione specifica, dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze del caso concreto.
  • Sulla distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, bisogna riprendere i dicta delle Sezioni Unite n. 13533/2001 circa la ripartizione dell'onere probatorio: il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento (o inesatto adempimento) della controparte; il debitore convenuto è gravato, invece, dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dal compiuto (ed esatto) adempimento. Tuttavia, relativamente alla prova del nesso di causalità, le Sezioni Unite del gennaio 2008 non condividono l'impostazione seguita dalla giurisprudenza successiva al 2001, la quale aveva ritenuto che gravasse sull'attore (il paziente danneggiato), oltre alla prova del contratto, anche quella «dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie, nonché la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso», e che restasse a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente. Le Sezioni Unite del 2008, infatti, ritengono che tale impostazione risenta implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, che «se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001». Secondo la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente se svolge l'attività richiesta secondo le modalità esigibili. Pertanto, in tali ipotesi, è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, mentre il risultato è caratterizzato dall'aleatorietà perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi. Viceversa, nelle obbligazioni di risultato ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, mentre è indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo; qui la diligenza opera solo come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore. In altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento del debitore, ad essere direttamente posto in obbligazione.
  • La distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, per le Sezioni Unite del gennaio 2008, non è immune da profili problematici, specialmente se viene applicata alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, data la struttura del rapporto obbligatorio e dato anche che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. «In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo».
  • L'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni di comportamento «non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno». Resta onere del debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur ricorrendo, non assurge a causa del danno nel caso specifico.
  • Nella fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria e il danno assunto (epatite), e avendo allegato l'inadempimento dei convenuti, che lo avevano sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, a questi ultimi competeva fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, perché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione (ad esempio, perché l'affezione era già in atto al momento del ricovero).

Criticità della sentenza n. 577/2008: la premessa fallace del superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato

Ritengo sia necessario vagliare la fondatezza delle enunciate soluzioni assunte dalla Suprema Corte, applicandole, in una visione di più ampio respiro, anche in fattispecie che (diversamente da quella oggetto di quel giudizio) non consentano all'interprete di individuare con immediata evidenza in cosa esattamente consistano l'adempimento, l'inadempimento ed il rapporto di causalità tra quest'ultimo e l'evento dannoso (per un maggior approfondimento, vedi anche D. ZORZIT, Obbligazione di mezzi/di risultato in Ridare.it).

A mio giudizio, proprio in relazione a tali questioni, la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi conserva una sua perdurante vitalità.

In primo luogo, la tesi secondo cui ogni obbligazione (di mezzi o di risultato) possa indifferentemente scomporsi in tanti risultati “intermedi” o “accessori” non regge alla critica che, nelle obbligazioni di mezzi, in relazione a tali specifici inadempimenti, il creditore potrebbe non essere portatore di un interesse giuridico concreto ed attuale a farli valere in giudizio. Si pensi all'ipotesi in cui l'inadempimento “intermedio” non sia eziologicamente correlato ad un peggioramento della salute del paziente: se il medico non ha somministrato l'anticoagulante, ma non si è verificato, in concreto, il temuto embolo, non potrà, infatti, contestarsi allo stesso alcun inadempimento giuridicamente rilevante. Per converso, nelle obbligazioni (sicuramente) di risultato (come, ad esempio, nel contratto di appalto, in cui il debitore si obbliga al «compimento di un'opera o di un servizio», ex art. 1655 c.c.), il comprovato adempimento delle “obbligazioni intermedie” (come, ad esempio, l'adeguatezza delle fondazioni in relazione alla struttura idrogeologica del terreno, l'impiego di cemento e ferro idonei, ecc.) non fa venir meno l'interesse del creditore a contestare l'inesatto adempimento se il risultato promesso, ed oggetto specifico dell'obbligazione assunta, non sia stato comunque conseguito (ad esempio: la casa costruita e consegnata al committente presenta vistose crepe). Ben si comprende, allora, che anche la corretta ponderazione dell'interesse del creditore della prestazione giustifichi la distinzione, ontologica e non meramente “descrittiva”, tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

Sulla base di queste premesse, devono ricondursi nell'alveo dell'art. 1218 c.c. tutte le ipotesi nelle quali sia stato accertato l'inadempimento oppure non sia stato, in concreto, provato l'esatto adempimento della prestazione da parte del debitore. Nell'ipotesi di responsabilità sanitaria contrattuale, al creditore sarà sufficiente provare il contratto e contestare l'inadempimento, alla luce del comprovato peggioramento della salute o dell'inutilità delle cure ricevute. Per converso, sul debitore della prestazione (struttura sanitaria o esercente la professione sanitaria) graverà l'onere di provare l'esatto adempimento, e cioè (a prescindere dal risultato positivo delle prestazioni eseguite) aver prestato al paziente idonee cure con diligenza, prudenza e perizia, ovvero l'onere di provare l'estinzione della propria obbligazione, sul presupposto che l'inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (artt. 1218 e 1256 c.c.); in mancanza di questa prova il debitore sarà tenuto al risarcimento del danno.

Se il debitore della prestazione sanitaria ha invece assunto un'obbligazione di risultato (come sovente accade nella chirurgia estetica), il creditore-paziente contesterà il mancato raggiungimento del risultato ed il debitore (la struttura sanitaria o l'esercente la professione sanitaria) dovrà provare (a prescindere dall'adempimento delle obbligazioni “intermedie” o accessorie, diagnostiche o terapeutiche) il raggiungimento del risultato o altra causa estintiva dell'obbligazione a lui non imputabile (v. Trib. Milano, sent. n. 7046/2010).

A ben guardare, peraltro, è la stessa Cassazione a non credere al superamento (solo conclamato) della distinzione. In recenti sentenze di legittimità è stato infatti affermato che:

  • l'architetto (o l'ingegnere o il geometra), nell'espletamento dell'attività professionale consistente nell'obbligazione di redigere un progetto di costruzione o di ristrutturazione di un immobile, «è debitore di un risultato», essendo il professionista tenuto alla prestazione di un progetto concretamente utilizzabile, anche dal punto di vista tecnico e giuridico, con la conseguenza che l'irrealizzabilità dell'opera, per erroneità o inadeguatezza del progetto affidatogli, dà luogo ad un inadempimento dell'incarico ed abilita il committente a rifiutare di corrispondere il compenso, avvalendosi dell'eccezione di inadempimento (Cass., sent. n. 1214/2017);
  • le obbligazioni, siano esse "di risultato" o "di mezzi", sono sempre finalizzate a riversare nella sfera giuridica del creditore una "utilitas" oggettivamente apprezzabile, fermo restando che, nel primo caso, il risultato stesso è in rapporto di causalità necessaria con l'attività del debitore, non dipendendo da alcun fattore ad essa estraneo, mentre, nell'obbligazione "di mezzi", il risultato dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da fattori ulteriori e concomitanti (in questi casi, la sentenza stigmatizza in motivazione che «l'obbligazione può continuarsi a qualificare quale obbligazione di mezzi»). Ne consegue che il debitore "di mezzi" prova l'esatto adempimento dimostrando di aver osservato le regole dell'arte e di essersi conformato ai protocolli dell'attività, mentre non ha l'onere di provare che il risultato è mancato per cause a lui non imputabili (Cass. civ., sent. n. 4876/2014);
  • a prescindere dalla qualificazione del contratto come vendita o appalto, «l'obbligo di fornire e mettere in funzione un sistema computerizzato di "software" applicativo è un'obbligazione di risultato», sicché, qualora il medesimo risultato contrattuale sia mancato, l'utente può chiedere la risoluzione del contratto (Cass. civ., sent. n. 19131/2013);
  • in tema di «responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato», si richiede la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, da commisurare alla natura dell'attività esercitata (Cass. civ., sent. n. 25234/2010).
Dal principio della vicinanza della prova alla premessa fallace sul riparto degli oneri di allegazione e prova del nesso di causa

Non sono affatto convincenti neppure le soluzioni proposte dalla Cassazione (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577) in relazione al riparto degli oneri di allegazione e prova del nesso di causa giustificato dal principio della vicinanza della prova.

Come si è accennato, la sentenza impone al creditore l'onere di allegare e contestare un «inadempimento qualificato astrattamente efficiente alla produzione del danno» (per un maggior approfondimento, vedi anche L.BERTI, Il nesso di causa nella responsabilità civile, in Ridare.it).

Anche per la giurisprudenza più recente (v. Cass. civ., sent. n. 8989/2015), in caso di "insuccesso" incombe sul medico o sulla struttura provare che il risultato "anomalo" o anormale, rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, rimanendo in caso contrario soccombente, in applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c. di ripartizione dell'onere probatorio fondata sul noto principio della vicinanza della prova (Cass. civ., sent. n. 21177/2015, Cass. civ., n. 23918/2006, Cass. civ., n. 11488/04, Cass. civ., Sez. Un. n. 13533/01); o, ancor più propriamente (come sottolineato anche in dottrina), «sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore, specializzato nell'esecuzione di una professione protetta» (così in motivazione, Cass. civ., sent., n. 8989/2015).

Questo principio di diritto è ribadito con ancor più forza dalla Cassazione quando trattasi di interventi di routine:

- «l'insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implicano di per sé la prova del nesso di causalità tra condotta sanitaria ed evento indesiderato, giacché tale nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio del «più probabile che non» (ex multis, Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975). Inoltre, in caso di prestazione professionale medico-chirurgica di routine, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento» (così, in motivazione, Cass. civ., sent. n. 12516/2016);

- «È principio di diritto consolidato in Cassazione quello secondo il quale, in presenza di interventi sanitari c.d. "routinari", sia onere del professionista provare l'assenza di colpa in relazione alla condotta tenuta - i.e. che la prova che l'insuccesso dell'intervento (nella specie, di tipo diagnostico-terapeutico) sia dipeso da fattori indipendenti dal proprio comportamento - dimostrando di aver osservato, nell'esecuzione della prestazione sanitaria, la diligenza normalmente richiesta ad uno specialista, ed esigibile in capo ad un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione» (così, in motivazione, Cass. civ., sent. n. 885/2016).

La giurisprudenza ha reso, quindi, (addirittura) largamente presuntiva la prova del nesso causale, consentendo al creditore di potersi limitare ad allegare l'inadempimento qualificato ed il nesso causale tra questo e l'evento di danno, ed addossando sul debitore l'onere di liberarsi dalla presunzione, dimostrando che l'esito lesivo sia stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero l'esistenza di una particolare condizione fisica del paziente non precedentemente accertata né accertabile e, quindi, l'assenza del nesso causale (Cass. civ., n. 5590/2015; Cass. civ., n. 22222/2014; Cass. civ., n. 20547/14; Cass. civ., n. 27855/2013).

Ma chiedere al paziente di allegare «l'inadempimento qualificato» dell'esercente o della struttura sanitaria non si traduce in una (possibile) sconfessione proprio del principio della «vicinanza della prova», enunciato dalle stesse Sezioni Unite (v. Cass. civ., Sez. Un., 20 settembre 2001 n. 13533 e Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577)?

L'attore-creditore, che contesti la colpa professionale, potrebbe non conoscere affatto (prima dell'istruttoria che verrà svolta nel giudizio civile) quale sia stato l'inadempimento in concreto verificatosi: ogni condotta “intermedia” o accessoria, rientrante nel più ampio oggetto dell'obbligazione di comportamento, potrebbe essere stata «astrattamente efficiente alla produzione del danno».

Le incertezze sulla responsabilità extracontrattuale dell'esercente nella c.d. “legge Balduzzi” n. 189/2012

Sulla gestazione della riforma Gelli-Bianco ha certamente influito, oltre che la giurisprudenza degli ultimi anni in tema di responsabilità in ambito sanitario, anche l'entrata in vigore della l. n. 189/2012, la c.d. “legge Balduzzi”.

L'art. 3 succintamente disponeva che «L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile»«. L'inciso ha suscitato tra gli interpreti non pochi dubbi circa la sua reale portata innovativa sul tema della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria. Non era infatti chiaro se dovessero considerarsi superati i descritti arresti giurisprudenziali.

Ferma restando la natura contrattuale della responsabilità cui era (come è) chiamata a rispondere la struttura ospedaliera (per avere il paziente concluso con questa il contratto atipico di spedalità), infatti, la dottrina e la giurisprudenza si divisero sul tema della natura (contrattuale o extracontrattuale) della responsabilità facente capo all'esercente. Sino ad allora, come si è detto, il rapporto medico paziente, seppur non nascente da un contratto, era stato inquadrato nella categoria delle obbligazioni contrattuali, perché ritenuto originato dal c.d. “contatto sociale qualificato” ex art. 1173 c.c. (per la ricostruzione dell'istituto, si rinvia a Cass. civ., sent. n. 14188/2016).

La l. Balduzzi, invece, da una parte citando la norma principe della responsabilità extracontrattuale, ma dall'altra non specificandone le concrete implicazioni, ha originato non pochi dubbi interpretativi.

Per un quadro esaustivo delle problematiche interpretative sottese, si richiama la celebre sentenza di Trib. Milano, 23 luglio 2014 n. 9693. In questa sede mi limito ad evidenziare che, in quella sentenza, si escluse dalla portata innovatrice della legge Balduzzi tanto la responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata), quanto quella del medico che avesse con il paziente stipulato apposito contratto d'opera professionale. In mancanza di contratto, invece, la responsabilità del medico nei confronti del paziente avrebbe avuto natura aquiliana. Pertanto, nell'ipotesi in cui il danneggiato avesse chiamato in causa sia la struttura ospedaliera che l'esercente la professione sanitaria, la disciplina della responsabilità si sarebbe dovuta atteggiare diversamente: secondo i dettami dell'art. 1218 c.c. nei confronti della prima, e di quelli dell'art. 2043 c.c. nei confronti del secondo, ferma restando la responsabilità solidale tra gli stessi ex art. 2055 c.c..

Tuttavia, anche a seguito di questo arresto giurisprudenziale, le pronunce non furono unanimi nel superare la visione tradizionale della responsabilità contrattuale da contatto sociale dell'esercente la professione sanitaria, che pertanto ha continuato a rispondere, ex art. 1218 c.c., con tutte le conseguenti implicazioni in punto di onere probatorio, prescrizione ecc.. È infatti rimasto prevalente, anche nella giurisprudenza di merito, il principio di diritto enunciato dalla Cassazione (Cass. civ., ord. n. 8940/2014): l'art. 3, comma 1 della legge Balduzzi non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve (in tal senso, anche Cass. civ., ord. n. 27391/2014).

Anche la mia personale opinione è che la legge Balduzzi non abbia affatto modificato la natura giuridica della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.

La ratio di quella norma consisteva nel disciplinare l'irrilevanza penale della condotta dell'esercente la professione sanitaria che si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma che cionondimeno fosse incorso in colpa lieve; “in tali casi”, la legge si limitava a confermare l'obbligazione risarcitoria in capo all'esercente. E, dunque, in quelle fattispecie il riferimento all'art. 2043 c.c. aveva per oggetto il fatto illecito, rispetto al quale, in sede penale (ma anche, eventualmente, in quella civile incidenter tantum), fossero stati già necessariamente comprovati tutti gli elementi costitutivi: condotta, evento dannoso, nesso di causa e l'elemento soggettivo (nella specie della colpa lieve).

A ben vedere, sarebbe stato davvero non pertinente il riferimento (nell'art. 3 comma 1 in esame) alla responsabilità contrattuale in una ipotesi in cui, lungi dall'inversione dell'onere della prova, risulti già essere stata in concreto accertata la colpa. Forse, in quel contesto, il riferimento più preciso (anche da un punto di vista di tecnica legislativa) era proprio all'obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c., essendone stati già altrove accertati (e nella norma presupposti) tutti gli elementi costitutivi. Si noti che la questione della corretta interpretazione dell'art. 3, comma 1 della legge Balduzzi non è diventata oziosa in conseguenza dell'abrogazione della stessa, prevista dal comma 2 dell'art. 6 della legge Gelli-Bianco. È' stato acutamente osservato, infatti, che anche quella norma abrogata possa ancora trovare applicazione, in talune fattispecie concrete, perché legge penale più favorevole al reo, ai sensi dell'art. 2 c.p..

La riforma Gelli-Bianco

Orbene, nel descritto quadro giurisprudenziale e normativo, si inserisce la legge Gelli-Bianco, che, certamente con maggiore chiarezza rispetto alla legge Balduzzi, dispone all'art. 5 che: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 […] In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali».

Il successivo art. 6 introduce nel codice penale l'art. 590-sexies, che esclude la punibilità solo per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose, qualora l'evento si sia verificato per imperizia, ma siano state rispettate le predette raccomandazioni e buone pratiche, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

All'art. 7, la Legge Gelli-Bianco ribadisce la responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c. della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitari.

Nel comma 3 la riforma sancisce espressamente che «L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall'articolo 6 della presente legge».

Ai commi 4 e 5, dispone che «Il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private» e che tali disposizioni costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile.

È giunto quindi il momento di verificare se il dichiarato intento del legislatore di offrire un maggior grado di tutela all'esercente la professione sanitaria (pur non trascurando le ragioni del creditore danneggiato) possa dirsi effettivamente realizzato con la recente introduzione della normativa in commento.

A tali fini è opportuno chiarire le modalità di prova dell'adempimento dell'obbligazione sanitaria, nonché gli effetti delle scelte sul riparto dell'onere probatorio circa il nesso di causa in ambito contrattuale e aquiliano.

La prova dell'adempimento dell'obbligazione

Il debitore, chiamato a rispondere dell'inadempimento dell'obbligazione, dovrà provare di avere adottato tutte le misure di diligenza (ex art. 1176 c.c.), prudenza e perizia nell'eseguire la prestazione dovuta, qualunque sia il grado di difficoltà della stessa, per evitare offese ad interessi diversi del creditore, avuto riguardo non solo all'osservanza delle istruzioni previste dalla normativa vigente, ma anche a tutte le comuni regole di diligenza e prudenza, che impongono agli operatori condotte comunque adeguate alle condizioni del paziente, mediante l'adozione delle determinazioni più idonee a scongiurare l'esito infausto (Cass. civ., sent. n. 21090/2015).

Incombe, quindi, sul debitore della prestazione l'onere di provare l'estinzione dell'obbligazione mediante la prova dell'adempimento dell'obbligazione oppure in conseguenza dell'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore medesimo (artt. 1218 e 1256 c.c.). In tutte le ipotesi in cui non sia stata invece provata l'estinzione dell'obbligazione e cioè, in altri termini, vi sia in concreto la prova dell'inadempimento o manchi la prova (positiva) dell'esatto adempimento, si pone il problema, necessariamente successivo, del risarcimento del danno subito dal creditore della prestazione (ex artt. 1218 e 1223 c.c.).

Consegue altresì che il medico diligente, cioè adempiente, non è neppure gravato dall'onere della prova del caso fortuito, vale a dire dell'evento imprevisto e imprevedibile che abbia determinato l'insuccesso o l'inutilità della prestazione sanitaria; tale onere presuppone infatti, in applicazione dell'art. 1218 c.c., non il mero insuccesso, ma l'insuccesso determinato da inadempimento dell'obbligazione assunta. È di tutta evidenza, quindi, che in questi casi non si pone neppure la questione dell'allegazione (da parte del paziente-debitore) dell'inadempimento qualificato che abbia cagionato l'evento avverso, per l'ovvia ragione che non si ravvisa alcun inadempimento!

In quest'ottica può trovare (finalmente) definitivo corretto inquadramento la problematica del verificarsi dell'evento indesiderato per complicanza senza colpa. Infatti, nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all'art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una "complicanza", rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione - indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile - priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (in questi termini, Cass. civ., sent. n. 13328/2015). Il medico, quindi, sarà adempiente solamente se riuscirà dimostrare (in applicazione delle regole generali) di avere tenuto una condotta conforme alle leges artis. In tal caso egli andrà esente da responsabilità, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente sia astrattamente riconducibile ad una possibile “complicanza”.

La premessa fallace, rappresentata dall'arresto giurisprudenziale delle Sez. Un. n. 577/2008, consiste invece nell'aver, (solo) teoricamente, affermato il superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, mentre, in concreto, ha ampliato i confini del regime della prova dell'adempimento tipico delle obbligazioni di risultato ad altri ambiti, ivi compreso quello sanitario. Conseguentemente, il debitore (medico o struttura) verrebbe dichiarato inadempiente anche qualora avesse agito diligentemente e nel rispetto delle linee guida o (in mancanza) delle buone pratiche clinico-assistenziali e avesse quindi provato l'adempimento della propria obbligazione e, ciò nonostante, si fosse comunque verificato l'evento indesiderato per mera probabilità statistica o per una diversa causa ignota.

A questo eccesso (non imposto dalle norme e dai principi generali) si è cercato allora di porre rimedio qualificando normativamente, con l'approvazione della l. n. 24/2017, la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria come extracontrattuale. Viceversa, sarebbe stato sufficiente procedere ad una serrata analisi critica dei menzionati arresti delle scelte interpretative effettuate dalle Sezioni Unite.

Inoltre, la legge Gelli-Bianco ha disciplinato più dettagliatamente il riferimento, già espresso nella Legge Balduzzi, alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali.

Ritengo, tuttavia, che, anche in questo caso, non si tratti affatto di una novità ai fini della prova dell'adempimento dell'obbligazione sanitaria.

Già con la sentenza Trib. Milano, 22 aprile 2008, n. 5305, in motivato dissenso con la sentenza Sez. Un. n. 577/2008, osservavo che «È di tutta evidenza che, allorquando il medico (o la struttura ospedaliera) ha provato di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione, e cioè di aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza e perizia, i protocolli e le linee-guida più accreditate nel proprio settore di competenza, il paziente non può invocare l'art. 1218 c.c., neppure in presenza di un acclarato peggioramento delle proprie condizioni di salute in rapporto di causalità con la prestazione sanitaria».

Anche la Cassazione (senza necessità di attendere la legge Gelli-Bianco) ha recentemente confermato l'esclusione della responsabilità del medico per una vaccinazione inoculata per via intramuscolo, eseguita nel rispetto dei protocolli per la localizzazione e le modalità operative dell'iniezione, riconducendo l'evento dannoso al caso fortuito (Cass. civ., sent. n. 21177/2015).

Ed ancora, è stata ritenuta responsabile per violazione delle regole di condotta esigibili dal professionista medio ex art. 1176, comma 2, c.c., ed è pertanto tenuta al risarcimento dei danni causati da un trapianto di cornee infette, l'Azienda ospedaliera che ometta di analizzare i tessuti corneali custoditi nella "banca degli occhi", così disattendendo le linee guida del Centro nazionale per i trapianti (Cass. civ., sent. n. 24213/2015).

Per converso, con la legge Gelli-Bianco la prova dell'adempimento dell'obbligazione, sul presupposto del rispetto delle linee guida, rischia di diventare addirittura più “ingessata”:

  • perché sono rilevanti solo le linee guida pubblicate con la modalità previste dalla legge;
  • perché l'esercente, ai fini civili e penali, deve provare l'adeguatezza della linea guida adottata in relazione alle specificità del caso concreto;
  • perché, in tal modo, risulta provato solo l'adempimento dell'obbligazione con perizia, rimanendo espressamente esclusi i profili della negligenza e della imprudenza, in un ambito nel quale la Medicina legale ha avvertito che le linee di demarcazione di questi diversi profili di colpa sono spesso sfumate;
  • perché la non punibilità penale è espressamente prevista solo per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose (limitazioni queste ultime non previste nell'abrogato art. 3, comma 1 della legge Balduzzi).
Analisi critica sulla prova del nesso di causa

La conferma nella legge Gelli-Bianco della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e la rinnovata necessità di scolpirne le reali differenze con quella (ora introdotta) extracontrattuale dell'esercente, rendono ancora più attuale le censure mosse nei paragrafi precedenti agli esposti indirizzi giurisprudenziali ed impongono ora di trarre le fila del mio dire.

Solamente quando la difettosa tenuta della cartella clinica non consenta al paziente-creditore la prova del nesso di causa tra la condotta colposa dei medici e la patologia verificatasi, il giudice potrà ritenerla accertata anche mediante presunzioni, sempre che sussista la (astratta) idoneità della condotta a provocarla, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato. Si condivide, in questo limitato ambito, il principio in tal senso espresso dal Cass. civ., Sez. Un., n. 577/2008 (poi confermato da Cass. civ., n. 22639/2016, n. 6209/2016, n. 6075/2015 e, da ultimo, anche dal Trib. Milano, sent. n. 4694/2016).

Ma, a parte questa residuale ipotesi, non mi sembra affatto convincente la tesi esposta nella sentenza n. 577/2008, secondo cui, a fronte della contestazione da parte del paziente di un «inadempimento qualificato astrattamente efficiente alla produzione del danno», incomba sul debitore (medico o struttura sanitaria) la prova della mancanza del nesso di causa con detto evento.

a) Un argumentum a contrariis: quid iuris nell'ipotesi di contumacia del convenuto (esercente o struttura)?

Se fosse vera questa tesi, l'attore, già con l'atto di citazione e la produzione della cartella clinica, potrebbe agevolmente provare il contratto e quindi la fonte delle obbligazioni assunte dall'esercente o dalla struttura e allegare una pluralità di “inadempimenti qualificati”(ad esempio, a seguito di tonsillectomia, il paziente è deceduto per mancata somministrazione di un anticoagulante, oppure per resezione di un organo vitale, oppure per la mancata sterilizzazione della sala operatoria, ecc.). Se il convenuto (esercente o struttura) non si costituisse in giudizio, è evidente che non sarebbe possibile in quel processo la prova non solo dell'adempimento delle obbligazioni assunte dalla parte convenuta, ma anche della mancanza del nesso di causalità materiale tra taluno dei menzionati “inadempimenti qualificati” e l'evento dannoso (onere anch'esso asseritamente gravante sulla parte convenuta).

Il giudice, già alla prima udienza, senza alcuna attività istruttoria e senza neppure disporre una consulenza medico legale, potrebbe/dovrebbe ritenere non solo provato l'inadempimento della parte convenuta, ma anche, e soprattutto, il nesso di causa con l'evento dannoso lamentato dall'attore; il giudice dovrebbe, quindi, istruire la causa ex art. 1223 c.c, ai soli fini dell'accertamento del danno risarcibile.

Non mi sembra però che sussistano precedenti giurisprudenziali in cui siano stati affermati questi principi di diritto e sia stato seguito il descritto iter procedimentale. Ciò comprova che, al di là delle tralatizie affermazioni circa la condivisione dei principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., n. 577/2008), nessun giudice ascrive all'esercente la professione sanitaria (o alla struttura) l'evento dannoso, in mancanza dell'effettiva evidenza della prova sul nesso di causa tra la condotta illecita e l'evento dannoso!

b) Una ragione di giustizia: la causa ignota o incerta

La tesi enunciata nella sentenza n. 577/2008 può determinare una palese ingiustizia sostanziale, limpidamente enunciata nel seguente principio di diritto: qualora, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore (Cass.civ., n. 20547/2014).

Talvolta, addirittura, la scienza medica potrebbe non essere in grado di spiegare le ragioni che, nella fattispecie concreta, abbiano determinato l'evento dannoso. La causa, in altri termini, potrebbe rimanere ignota.

Può darsi che solo oggi, con il progresso scientifico e con tecnologie più sofisticate, sia possibile comprendere le cause di un esito infausto non necessariamente riconducibile a malpractice medica, ma (ad esempio) ad altre concause naturali o ad altre cause addirittura indipendenti dalla prestazione sanitaria. E tuttavia il giudice, nel passato, in quelle medesime fattispecie ed in applicazione del principio di diritto qui contestato, avrebbe potuto condannare l'esercente e/o la struttura al danno conseguente ad un evento a costoro non imputabile.

Le soluzioni qui accolte potrebbero tuttavia non essere appaganti da un punto di vista sociale, nel senso che rimarrebbero a carico del paziente esiti pregiudizievoli causalmente riconducibili alle prestazioni sanitarie, ma dei quali non sia stata accertata – né positivamente né negativamente – l'imputabilità al medico.

Ciononostante, occorre ricordare, anche in ossequio ai principi posti a fondamento dell'analisi economica del diritto, che la regola di responsabilità, come ogni altra regola giuridica, è soluzione di conflitti di interessi e quanto si accresce a una parte si toglie all'altra.

c) Una ragione sistematica: la omogeneità della disciplina sull'onere della prova del nesso di causa

Ancora una volta la ragione giustificativa della vicinanza della prova diventa fallace e disomogenea rispetto ad altre fattispecie.

In altre ipotesi di obbligazioni di mezzi, infatti, una volta provato l'inadempimento o non provato l'adempimento, la prova del nesso di causalità materiale è posta a carico del creditore (e non del debitore) della prestazione.

Quando è allegata la responsabilità dell'avvocato, nelle ipotesi di contumacia del convenuto o di carenza di prova dell'adempimento della obbligazione da parte di quest'ultimo, il giudice, prima di liquidare il danno conseguenza, deve accertare e dichiarare che l'inadempimento ha cagionato l'evento negativo (la perdita della causa). Anche in questa ipotesi, a ben riflettere, la ratio decidendi non è il criterio della vicinanza della prova con il debitore della prestazione (l'avvocato), ma è proprio l'accertamento, in concreto, del nesso di causa tra l'inadempimento e l'evento negativo (la perdita della causa). In questi casi, d'altra parte, il giudice, avvalendosi del suo “sapere giuridico”, sarà in grado di accertare e ben motivare il nesso eziologico, senza necessità di CTU; e tuttavia ciò non significa affatto che tale nesso causale non sia stato comunque oggetto di specifico accertamento in corso di causa.

Alla luce di quanto esposto, quindi, in tutte le obbligazioni di mezzi, così come in quelle di risultato, la prova del nesso di causa con l'evento indesiderato, esterno all'inadempimento dell'obbligazione dedotta, incombe sul creditore della prestazione. Nessuno dubita, infatti, che spetta al creditore-committente provare (ad esempio) che la mancata consegna nel termine pattuito della casa da destinare a prima abitazione ed oggetto del contratto di appalto, abbia cagionato la lesione temporanea del bene salute del committente.

In ogni caso, quindi, il giudice, accertato l'inadempimento, in virtù della prove offerte dal creditore della prestazione e, se del caso, avvalendosi di un esperto della materia (e quindi mediante CTU ex artt. 61 e ss. c.p.c.), dovrà accertare l'esistenza, in concreto, del nesso di causa in esame ed, in difetto, rigettare, ex art. 2697 c.c., la domanda di risarcimento del danno lamentato dal creditore della prestazione.

Conclusioni sul nesso di causalità materiale e giuridica

Alla tesi qui esposta potrebbe obiettarsi che, nella sola responsabilità extracontrattuale, incomba sul creditore-danneggiato l'onere della prova del nesso di causalità sia materiale che giuridica, mentre in quella contrattuale, sullo stesso creditore gravi solamente la prova delle conseguenze dannose risarcibili e cioè della causalità giuridica.

È agevole replicare quanto segue.

a) Nelle ipotesi di responsabilità extracontrattuale

È pacifico che, nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, sia onere del creditore (danneggiato) provare tutti gli elementi oggettivi costitutivi del fatto illecito: la condotta dell'agente, la lesione dell'interesse protetto, il nesso di causalità e l'evento dannoso. A tal proposito giova ricordare come l'elemento del "danno" assuma rilevanza sotto due distinti profili: «come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica» (Cass. civ., Sez. Un., n. 581/2008). In altre parole sarà necessario che il giudice accerti, prima, il fatto lesivo che ha causato l'evento e, successivamente, se tale evento possa ritenersi “dannoso”, e cioè abbia effettivamente cagionato un danno risarcibile. Condotta, evento (lesione dell'interesse) e danno (conseguenza) sono pertanto elementi questi tutti determinanti per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno, uniti tra di loro secondo la regola della causalità materiale (i primi due) e di quella giuridica (il secondo ed il terzo).

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c..

In estrema sintesi, ai fini della causalità materiale in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., si sono affermate le teoria della condicio sine qua non, che trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, ed in quello della causalità adeguata o quella similare della c.d. “regolarità causale” (Cass. civ., Sez. Un., n. 581/2008).

« Ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non”»[…] «Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)» (in questi termini Cass. civ., sent. Sez. Un., n. 581/2008).

Nonostante la prova nei termini esposti del nesso di causalità materiale, non seguirà nessun risarcimento nel caso in cui non sia stato cagionato alcun danno-conseguenza. Quest'ultimo a sua volta potrà ritenersi risarcibile nei limiti imposti dalle regole proprie della causalità giuridica per quanto disposto dall'art. 1223 c.c. e quindi solo allorché ne sia stata comprovata la “conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo. L'art. 1223, dunque, assume la precipua funzione di delimitare, a valle, le conseguenze di una (già accertata) responsabilità risarcitoria, secondo i criteri della normalità e prevedibilità in chiave oggettiva, attribuendosi rilievo, all'interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l'evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (Cass. civ., sent. n. 26042/2010). L'art. 1223 c.c. è, in definitiva, un filtro che, tra tutti i danni conseguenza, seleziona quelli che il debitore inadempiente è obbligato a risarcire.

b) Nelle ipotesi di responsabilità contrattuale

Ma come si pongono le problematiche della causalità giuridica e materiale nella responsabilità contrattuale?

L'art. 1218 c.c. fa nascere l'obbligazione risarcitoria in conseguenza dell'acclarato inadempimento, mentre l'art. 1223 c.c. seleziona, come si è appena detto, il danno risarcibile.

Comunemente si afferma che la norma regoli solo la causalità giuridica ed è pacifico che la prova del danno incomba sul creditore. Nessuno dubita che, in ipotesi di malpractice medica, incomba sul creditore la prova del danno-conseguenza patrimoniale subito (per esempio esborsi sostenuti per medicine, analisi cliniche, terapie, ecc.) ovvero la durata della malattia (ad esempio, ai fini della richiesta del danno patrimoniale per occasioni di lavoro perdute). In questi casi non è certamente in discussione l'onere della prova a carico del creditore, in conformità al principio di vicinanza della prova.

Tuttavia, talora la prova di ulteriori esborsi o di voci di danno non patrimoniale presuppone anche la prova di un evento ulteriore, “intermedio”, e cioè quello innanzi definito “danno evento”, come accade certamente nell'ipotesi di lesione permanente del bene salute ovvero di perdita della vita.

In queste ipotesi valgono esattamente i principi esposti sul nesso di causalità materiale esaminato per la responsabilità extracontrattuale, con le seguenti avvertenze: non rilevano la condotta illecita del contraente inadempiente né altri criteri di imputazione (come nella responsabilità extracontrattuale), ma l'indagine investe esclusivamente il nesso di causa tra l'inadempimento dell'obbligazione dedotta e (ad esempio) la lesione del bene salute o della vita.

Non credo, in altre parole, che, in questa prospettiva, possa farsi ricorso a criteri diversi da quelli innanzi esaminati per la responsabilità extracontrattuale.

In definitiva, a mio avviso, sul creditore incomberà l'onere di provare tanto la causalità materiale, quanto quella giuridica, indifferentemente, nell'ipotesi in cui il debitore sia chiamato a rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale o di responsabilità contrattuale.

In quest'ottica si attenua anche la necessità scientifica della distinzione tra causalità materiale e quella giuridica, ma direi che certamente “l'autonomia ontologica” della causalità materiale si ravvisa nella responsabilità extracontrattuale, perché solamente l'art. 2043 c.c. ne richiede la prova non ai fini della selezione del danno risarcibile, ma per accertare un elemento costitutivo della fattispecie integrante il fatto illecito e, dunque, la nascita stessa dell'obbligazione risarcitoria.

L'onere della prova nelle ipotesi di “speciale difficoltà” ex art. 2236 c.c.

Ai sensi dell'art. 2236 c.c., la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi in cui ricorra il dolo o la colpa grave, qualora l'esecuzione della prestazione d'opera implichi “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. Questa nozione ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi particolarmente complessi, ma anche l'esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza (Cass. civ., sent. n. 16275/2015).

Per la Cassazione è pacifico che la norma si applichi, indifferentemente, alla responsabilità contrattuale e a quella extracontrattuale (Cass. civ., sent. n. 1544/1981 e Cass. civ., sent. n. 11440/1997).

Ebbene, questa norma, correttamente interpretata, a prescindere dalla natura “routinaria” o particolarmente complessa della prestazione sanitaria, presuppone già provati: nella responsabilità contrattuale, l'inadempimento (o non provato l'adempimento) dell'obbligazione; nella responsabilità extracontrattuale, tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del fatto illecito.

Ma prima di accertare e liquidare i danni, in conseguenza immediata e diretta dell'illecito ai sensi del citato art. 1223 c.c. (prova che incombe sul danneggiato), il prestatore d'opera potrebbe richiedere l'accertamento della speciale difficoltà della sua prestazione. Si noti che la Cassazione ha avvertito che, in materia di contratto di prestazione d'opera, acclarata la colpa del professionista, il rilievo che la prestazione eseguita comporti la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può essere compiuto anche d'ufficio dal giudice, sulla base di risultanze istruttorie ritualmente acquisite, non formando oggetto di un'eccezione in senso stretto (Cass., sent. n. 25746/2015).

E allora il giudice dovrà accertare la sussistenza dei due presupposti predetti: uno oggettivo, la “speciale difficoltà” della prestazione, e l'altro soggettivo, la colpa lieve.

L'onere di questa prova incombe sul debitore della prestazione, in ossequio al principio della vicinanza della prova e perché in effetti si tratta di comprovare una “giustificazione” dell'inadempimento (o del fatto illecito), diversa dall'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile (ex art. 1218 c.c., ultima parte).

L'art. 2236 c.c. è un ulteriore filtro del risarcimento del danno, che si pone, quindi, tra gli artt. 1218 c.c. (nell'ipotesi di responsabilità contrattuale) o 2043 c.c. (nell'ipotesi di responsabilità extracontrattuale) e l'art. 1223 c.c..

Il soggetto responsabile dovrà provare che la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà abbia “giustificato” il suo inadempimento o fatto illecito per (sola) colpa lieve. Se risultano provati entrambi i presupposti, il giudice dichiarerà la responsabilità, ma rigetterà la domanda di risarcimento del danno; se uno solo dei due presupposti non fosse provato, il giudice istruirà la causa anche per la liquidazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 1223 c.c..

Conclusioni

Responsabilità contrattuale: ricadute sostanziali e processuali

- L'attore-paziente deve provare il contratto ed allegare l'inadempimento. Il giudice dichiara più facilmente la responsabilità dell'esercente: non solo se sia provato l'inadempimento, ma anche quando non sia provato l'esatto adempimento.

- Il giudice, nell'ipotesi di inadempimento, disporrà comunque la CTU medico legale per accertare, ex art. 1223 c.c., il danno conseguenza ed, in primo luogo, il nesso di causa dell'inadempimento con la lesione del bene salute o il decesso e, poi, con tutti gli altri danni lamentati; la CTU potrebbe essere disposta anche per accertare la mancanza di colpa del soggetto obbligato, ex art. 1218 ultima parte, in combinato disposto con l'art. 1176 cpv. c.c.. Se vi è la prova in concreto che manchi il nesso di causa oppure la causa rimanga ignota, il giudice accerterà la responsabilità contrattuale e rigetterà la domanda di risarcimento del danno.

- Come si è detto, nella responsabilità contrattuale, il nesso di causa (materiale e giuridica) deve essere accertato non tra la condotta (commissiva od omissiva) in concreto effettivamente tenuta (come nella responsabilità extracontrattuale), ma tra inadempimento ed evento. Assumono quindi rilevanza non solo l'osservanza di norme cautelari generiche (imprudenza, negligenza e perizia) e specifiche (leggi, regolamenti, codici deontologici, linee guida, ecc.), ma anche l'inadempimento di specifiche ed ulteriori obbligazioni assunte dalla parte (ad esempio, l'obbligo che la terapia chirurgica o farmacologica adottata raggiunga risultati positivi entro un certo lasso di tempo).

Responsabilità extracontrattuale: ricadute sostanziali e processuali

- L'attore-paziente deve allegare nel processo, già con il primo atto difensivo, la condotta illecita, l'evento (interno) dannoso, il nesso di causa e la colpa o il dolo.

- Se l'attore non fosse in grado di allegare compiutamente la condotta illecita, la domanda sarebbe nulla, ex art. 163 n. 4 c.p.c.? Ma sarebbe esigibile una più specifica contestazione? Non credo che il giudice dichiarerebbe la nullità. Difficilmente la condotta illecita sarà comprovata compiutamente da documenti: cartella clinica, registrazioni, analisi cliniche e radiologiche.

- Il giudice, escluse le ipotesi di confessione o non contestazione (art. 115 c.p.c.), disporrà comunque la CTU medico legale per accertare la malpractice medica ed il nesso di causa. Dunque, inevitabilmente, anche la condotta illecita lungi dall'essere provata dal danneggiato (ex art. 2043 c.c.) sarà oggetto di CTU. Quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche, il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente). In tale ultimo caso, la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova; è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (tra le tante, Cass. civ., 13 marzo 2009, n. 6155). È sempre di tipo percipiente la consulenza nei casi di accertamento della responsabilità medica, per la innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo alla comprensione dei fatti, ma alla rilevabilità stessa di fatti che, per essere individuati, abbisognano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche. E proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale (Cass. civ., sent. n. 4792/2013). Se, all'esito della CTU, manca la prova del nesso di causa oppure la causa dell'evento rimane ignota, il giudice ex art. 2043 c.c. rigetterà la domanda perché non è stato provato il fatto illecito.

- Allo stesso modo, l'accertamento dell'elemento soggettivo, in tutte le sue declinazioni del dolo, della colpa lieve e grave (anche ai fini delle azioni di rivalsa), sarà necessariamente oggetto di faticose e spesso controvertibili CTU.

- Anche la prova della “speciale difficoltà” della prestazione ex art. 2236 c.c. spesso implica essa stessa una “difficile” valutazione tecnica e pertanto la relativa indagine sarà effettuata dal CTU.

- Importante differenza si ravvisa nel regime della prescrizione: quinquennale nella responsabilità extracontrattuale e decennale in quella contrattuale. Tuttavia anche questo aspetto ora non ha di regola importanza decisiva:

  • perché negli ultimi anni il paziente ed in generale tutte le vittime (anche secondarie) delle prestazioni sanitarie hanno una maggiore consapevolezza dei propri diritti e costituiscono subito in mora i possibili responsabili;
  • perché la giurisprudenza di legittimità ha spostato molto in avanti il dies a quo, ex art. 2935 c.c., per la decorrenza della prescrizione: «In materia di illecito civile, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dal momento in cui il danneggiato ha avuto reale e concreta percezione dell'esistenza e gravità del danno stesso, nonché della sua addebitabilità ad un determinato soggetto, ovvero dal momento in cui avrebbe potuto avere tale percezione usando l'ordinaria diligenza» (v., da ultimo, Cass. civ., sent. n. 4899/2016).

L'esercente la professione sanitaria sarà molto “presente” nel processo civile

A ben vedere, inoltre, l'ulteriore finalità, cui apparentemente sembra tesa la normativa in commento, di ridurre le ingerenze nella sfera giuridica dell'esercente la professione sanitaria, non pare aver colto nel segno neanche sotto l'ulteriore aspetto concernente la presenza (in alcuni casi anche necessitata, infra) di quest'ultimo nei giudizi che il danneggiato avrà incardinato per ottenere il ristoro dei danni subìti.

È infatti vero il contrario.

L'art. 8 prevede la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva, qualificandola obbligatoria per tutte le parti (con tutte le consequenziali criticità per l'instaurazione del contraddittorio nei confronti di una moltitudine di soggetti).

Ancor più incisiva in tal senso la previsione di cui all'art. 9, la quale dispone che l'esercente la professione sanitaria sarà soggetto all'azione di rivalsa in caso abbia agito con dolo o colpa grave. Ma la disciplina prevista dai successivi commi della medesima norma renderà pressoché imprescindibile la chiamata in causa dell'esercente, anche qualora il danneggiato non abbia sin dal principio mosso giudizio contro di lui.

Infatti, la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o l'impresa assicuratrice nel giudizio civile, per quanto disposto dal comma 3 dell'art. 9 citato, potrà far stato anche in quello di rivalsa, solo qualora l'esercente abbia preso parte al primo. In caso contrario non solo la pronuncia del giudice civile non avrà la medesima efficacia, ma l'azione di rivalsa non potrà essere promossa contro l'esercente se non dopo all'avvenuto risarcimento e non oltre un anno (a pena dei decadenza) dall'avvenuto pagamento (comma 2 dell'art. 9).

La presenza dell'esercente nel giudizio civile per danni assume maggiore rilevanza (e convenienza), tanto per la struttura sanitaria quanto per la compagnia assicurativa, anche perché, nel giudizio di rivalsa e in quello di responsabilità amministrativa, il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione se l'esercente la professione sanitaria ne è stato parte. (comma 7 dell'art. 9).

Qualora, poi, l'esercente abbia agito con dolo o colpa grave, dovrà anche preoccuparsi di subire l'ulteriore e diversa azione di responsabilità amministrativa esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei conti (comma 5 dell'art. 9).

Nel giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione dell'esercente la professione sanitaria è litisconsorte necessario l'esercente la professione sanitaria (art. 12).

Infine, con l'obiettivo dichiarato di garantire efficacia alle azioni di cui agli artt. 9 e 12, l'art. 10 dispone l'obbligatorietà per l'esercente di dotarsi di una personale e adeguata polizza assicurativa, per il caso in cui sia chiamato a rispondere del proprio operato per colpa grave.

Alla luce di quanto esposto è possibile prevedere la complessità di un processo con tante parti, che propongono domande che richiedono l'accertamento di diversi fatti costitutivi sulla stessa materia, ai fini dell'accertamento della responsabilità contrattuale, della responsabilità extracontrattuale, dell'elemento soggettivo (colpa presunta, lieve, grave), ecc..

Comunque ben si comprende la previsione contenuta nell'art. 13, che dispone in capo alla struttura sanitaria e all'impresa assicuratrice l'obbligo di dare tempestiva comunicazione, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell'atto introduttivo, all'esercente dell'instaurazione di ogni giudizio promosso dal danneggiato nei loro confronti; lo stesso dicasi per l'avvio di trattative stragiudiziali che riterranno opportuno instaurare con il danneggiato. Poiché in caso di omissione, tardività o incompletezza delle predette comunicazioni è preclusa l'ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa, è prevedibile che tale comunicazione sarà tempestivamente sempre eseguita.

Un'altra possibile soluzione?

Insomma, la “rivoluzione” della legge Gelli-Bianco mi sembra molto sbandierata, ma non tetragona all'analisi critica.

Forse per raggiungere i conclamati ambiziosi obiettivi perseguiti dalla legge Gelli-Bianco si sarebbe dovuto esplorare una diversa e più radicale soluzione: prevedere l'improponibilità della domanda giudiziale esperita nei confronti dell'esercente la professione sanitaria (ovvero la carenza di legittimazione passiva dell'esercente), salva la possibilità di una successiva azione di rivalsa (nell'ipotesi di condanna di una struttura privata) o di responsabilità amministrativa (nell'ipotesi di condanna di una struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica) per dolo o colpa grave dell'esercente e comunque entro ragionevoli limiti massimi prefissati. Un regime che potrebbe quindi ispirarsi alla responsabilità del personale delle scuole pubbliche, ex art. 61 l. n. 312/1980.

In considerazione della enorme rilevanza degli interessi sottesi - in relazione ai diritti inviolabili dei pazienti, ai rischi professionali degli operatori, alla sostenibilità economica del sistema sanitario e dei premi assicurativi, ad una più efficiente gestione del processo civile e penale, ad una maggiore serenità di tutti i soggetti coinvolti - spero sinceramente di sbagliarmi e che la riforma Gelli-Bianco abbia (comunque) successo nella pratica attuazione, magari con l'ausilio di successivi “accorti aggiustamenti” da parte del legislatore, della giurisprudenza e dei numerosi operatori coinvolti.

Tutte le questioni qui esaminate sono indubbiamente di “speciale difficoltà” e sarebbe auspicabile un confronto della Cultura giuridica (Dottrina e giurisprudenza) per ricercare soluzioni maggiormente condivise ed appaganti.

Ridare.it è ben felice di ospitare i preziosi contributi di tutti.

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