Azienda e danno-web reputation. Casi e criteri di liquidazione del quantum
18 Maggio 2016
Azienda e danno-web reputation. Quadro giuridico.
L'azienda digitale deve fare i conti sia con le strategie di ingegneria reputazionale ordite dai suoi simili sia con le indicazioni dei provider del servizio di motore di ricerca o del servizio di social network; Google, Yahoo!, Facebook infatti dettano le regole delle dinamiche relazionali a cui l'azienda non può che adeguarsi. Certe volte, nonostante un impiego cospicuo di risorse nelle campagne di social branding, spunta fuori il post lesivo del lavoratore scontento, la recensione subdola commissionata ad arte dal competitor, la fuga di notizie partita dal device mobile (tablet o smartphone) del dipendente infedele. Le vie di tutela sono più o meno agevoli a seconda del “luogo” digitale in cui è avvenuta o da cui è partita la lesione. Si tratta di una piattaforma con sede legale oltre Atlantico o con sede legale in Europa? Si tratta di un commento anonimo o di paternità certa? Già queste prime domande ci lasciano intuire che le violazioni provenienti dall'esterno sono le più difficili da contrastare in quanto dipendono da aree elettroniche nel dominio dei Signori della Rete, aree su cui l'azienda digitale non ha nessuna possibilità di controllo. In quest' ambito giuridico complesso campeggia l'istituto tutto giurisprudenziale della responsabilità del fornitore dei servizi digitali (es.: motore di ricerca, social network, forum, chat, file sharing, ecc...). La direttiva 2000/31/CE, da cui origina la figura giuridica dell'intermediario di servizi Internet (ISP) e recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs.9 aprile 2003 n. 70, aveva stabilito che l'ISP non poteva essere passibile di responsabilità per gli illeciti che i terzi-utenti avrebbero commesso sulla piattaforma digitale. L'aspetto nobile del dogma della "non responsabilità" dell'ISP e' il famoso principio della "neutralità della Rete" e quindi il rifiuto di qualsiasi tipo di controllo sul web (divieto del cosiddetto "sceriffo della Rete") corrispondente, nella sfera giuridica del provider, all'esenzione da qualsiasi obbligo di sorveglianza. I casi sempre più complessi dell'illecito on line hanno impegnato la Corte di Giustizia UE in una poderosa attività interpretativa atta a estendere e ridisegnare i confini della responsabilità nel web coinvolgente anche la figura del provider. Il leading case CGUE (Grande Sezione) 23 marzo 2010 - (Causa riunite da C-236/08 a C-238/08) costruisce il modello dell'"hoster attivo" secondo cui il provider non può essere esentato da responsabilità in due ipotesi: se non è stato imparziale nella fornitura del servizio oppure se, ricevuta segnalazione dell'illecito, non si è attivato per bloccarlo. Il principio di responsabilità dell' "hoster attivo" invocato per la tutela del diritto all'immagine, alla proprietà intellettuale, al marchio si accompagna successivamente con ad un altro pilastro della giurisprudenza della Corte di Giustizia ovvero il diritto alla conservazione dell'attualità della propria identità digitale o anche detto diritto all'oblio (CGUE 13.05.2014, Costeja/Google Spain). E' vero che la Data Protection nella maggioranza dei casi non può essere invocata per la persona giuridica ma è anche vero che l'immagine e la reputazione del brand on line trovano concretizzazione mediante la tutela del diritto alla conservazione dell'attualità dell'immagine/identità digitale. Pensiamo, tra i vari casi francesi di richiesta di deindicizzazione, a quello contro Google Suggest a causa di un abbinamento lesivo in cui il nome di una nota società immobiliare campeggiava insieme alla parola truffa-escroc (Cour de cassation Premiere chambre civile Arret du 18.06.2013-Google Suggest/Lyonnaise de Garantie).La breve analisi condotta rivela l'insidiosa natura giuridica dell'ambiente digitale in cui le responsabilità si sovrappongono fino a nascondersi l'una con l'altra privando potenzialmente il danneggiato di rimedi soddisfacenti. Chi è responsabile del post lesivo caricato sul proprio profilo Facebook dal dipendente scontento che critica pubblicamente le policy interne del brand di appartenenza? E' responsabile il provider (Facebook) oppure il titolare del profilo (dipendente)? E' possibile far rimuovere quel commento lesivo? Lo stesso dicasi per la recensione falsa pubblicata su Tripadvisor da un utente, guarda caso anonimo, contro un ristorante o un albergo. E ancora: una volta ammessa la responsabilità del provider, in quale misura viene quantificata l'entità del danno? Quali criteri possono essere adottati? I social network hanno innescato la miccia della “on line brand reputation” o “web brand reputation” in cui le preferenze e i commenti del consumatore influenzano pesantemente l'immagine e la fortuna del marchio. Le imprese investono molte risorse nella costruzione e nella conservazione di una buona reputazione on line ma post lesivi e recensioni negative possono annullare in un baleno mesi e mesi di lavoro di social branding. Quando il post lesivo è immesso nel web 2.0 dal dipendente che critica certe politiche interne all'azienda di appartenenza il danno è ancora più grave. Pensiamo al caso riportato dalle cronache USA nel novembre del 2005 secondo cui un impiegato che aveva criticato anonimamente l'operato del management dell'azienda per cui lavorava su un forum Yahoo! venne licenziato per “rottura del dovere fiduciario e della lealtà all'impresa” (“Un messaggio anonimo può costare il licenziamento?” di Dario d'Elia).
L'impresa ha abbondantemente compreso l'importanza della propria reputazione on line a tal punto da licenziare il dipendente che si azzardi a criticarla pubblicamente sul web. Ha capito anche il ruolo fondamentale dell'ingegneria reputazionale e ha iniziato a dedicare un capitolo di spesa apposito del bilancio a questo tipo di prestazioni. Tuttavia la criticità più grande del settore rimane attualmente irrisolta: quante vale la “web brand reputation”? Ad oggi, adottando il metodo equitativo, possiamo formulare solo ipotesi sulla scorta di qualche caso pratico (mancando le statistiche) e in virtù delle costruzioni ermeneutiche sulla quantificazione del danno all'immagine dell'impresa o della P.A. Innanzitutto dobbiamo considerare che il danno-web reputation si costituisce di una componente patrimoniale e di una componente non patrimoniale. La componente patrimoniale attiene al danno emergente e al lucro cessante (perdita di chances). La componente del danno emergente si calcola stimando il costo di una campagna reputazionale di segno positivo atta a ripristinare lo stato ante sinistro. La componente del lucro cessante potrebbe essere calcolata nella misura del 10% sulla flessione delle vendite registrata dopo il sinistro, sulla scorta del ragionamento applicato dal Cons. Stato, sent. n. 491/2008 ad una fattispecie in materia di mancata concessione dell'appalto.
La componente non patrimoniale del danno-web reputation attiene a una dimensione determinante nel business ma impalpabile che è la sfera del“sentiment”. Si tratta dell'immagine che gli altri si sono fatti dell'azienda e che viene comunicata, diffusa e condivisa in Rete. A proposito di questo la già citata Sentenza del Cons. Stato, Sez. V, 12 febbraio 2008 n491 indica che: il danno esistenziale, posto che “il diritto all'immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone giuridiche”; diritto all'immagine che risulta senza dubbio compromesso da una informativa antimafia negativa e dall'atto che ne fa pedissequa applicazione”. Prima dell'avvento dell'Internet il marchio poteva “solo” avere problemi di audience in merito alle pubblicità trasmesse in TV, ora deve promuovere e monitorare il “sentiment” della Rete rispetto alla propria immagine. L'audience attiene a un criterio quantitativo di misurazione del gradimento del pubblico; il sentiment attiene invece a un criterio qualitativo.La reputazione di un marchio o di una persona non si costruisce più soltanto sull'elemento della diffusione e della popolarità ma anche e soprattutto sugli elementi della credibilità/affidabilità. Non esistono degli studi giuridici che possano illuminarci in merito alla misura del “sentiment” on line ma possiamo tentare qualche valutazione sulla scorta della giurisprudenza europea. In particolare il riferimento è al caso “Interflora/ Marks & Spencer”, Corte Giustizia UE 22 settembre 2011, C-323/09, in cui si registra la violazione della funzione di investimento del marchio che potrebbe assurgere, mutatis mutandis, a violazione della web reputation considerata nei termini della percezione del “consumatore medio”. La Marks & Spencer aveva acquistato da Google Adwords delle parole chiave di indicizzazione tra cui anche la parola “interflora”. E' chiaro dunque che quando l'utente googolova il termine “interflora” appariva subito la “Marks & Spencer” come azienda di distribuzione e consegna dei fiori in tutto il mondo. La diluizione dell'identità del brand porta il consumatore a pensare che “interflora” sia un sostantivo comune che indica la distribuzione e la consegna dei fiori in tutto il mondo. Sarebbe come dire: commissiono via web un mazzo di fiori a un negozio che dovrà consegnarli “con modalità interflora”. La Corte Giustizia UE 22 settembre 2011, C-323/09, Interflora/ Marks & Spencer: “La violazione della funzione di investimento. 60. Oltre alla sua funzione di indicazione di origine e, eventualmente, alla sua funzione pubblicitaria, un marchio può anche essere utilizzato dal suo titolare per acquisire o mantenere una reputazione che possa attirare i consumatori e renderli fedeli. 61. Pur se tale funzione, cosiddetta «di investimento», del marchio può presentare una sovrapposizione con la funzione di pubblicità, nondimeno essa si distingue da quest'ultima. Infatti, l'uso del marchio per acquisire o mantenere una reputazione avviene non solo mediante la pubblicità, ma anche mediante diverse tecniche commerciali” Da qui però scaturisce il dilemma: come misurare questa percezione del consumatore? L'elemento interessante della vicenda “Interflora/ Marks & Spencer” per gli aspetti qui trattati emerge nell'istruttoria inerente alla quantificazione del danno alla reputazione. Una volta appurata la responsabilità dell'intermediario e del competitor, la CGUE rinvia al giudice nazionale per il calcolo della liquidazione. La magistratura incaricata attiva un'istruttoria fondata sul “sondaggio” nei confronti dei consumatori. Questa metodologia non convince e come in un gioco dell'oca giudiziario si susseguono vari gradi di giudizio inchiodati sulla questione dell'affidabilità del sondaggio per valutare la percezione del consumatore. Attualmente la causa è ancora in corso. L'unico punto fermo posto dalla si sostanzia nell'assunto che il sondaggio può essere ammesso quale mezzo di prova ma deve seguire le Linee Guida di Whitford e comunque, nell'istanza al giudice, la parte richiedente deve preliminarmente dimostrare che l' “indagine pilota” sarà capace di fornire una prova reale atta a giustificare gli ingenti costi di una simile consulenza. La spina nel fianco dell'istruttoria è costituita dal tipo di consumatore da intervistare. Come si fa a individuare il modello standard, puramente teorico, del consumatore medio dell'Internet? Secondo la Corte di Giustizia UE il consumatore medio digitale è l"utente Internet normalmente informato e ragionevolmente attento" (caso su Adword, Google Francia e Google (proprietà intellettuale) [2010] EUECJ C-236/08, 23 marzo 2010).; La Corte di Appello inglese tuttavia sottopone una giusta perplessità. Il "consumatore medio" è un costrutto legale e non può essere chiamato a deporre. Inoltre la percezione del brand è squisitamente soggettiva e dunque non si può fare una media statistica sulla quantità ma occorre centrare la valutazione di qualità. Un altro elemento da valutare tra i criteri per la quantificazione del danno-web reputation attiene alla violazione dell'identità dell'azienda quantificata secondo i ricavi illeciti dell'intermediario intesa come frazione dell'intera web reputation (Tribunale Commerciale Parigi 30 giugno 2008, Dior/eBay- intermediario attivo). Il Tribunale di Parigi condanna eBay a risarcire il danno subito quantificandolo nella misura di 7.920.000 euro a titolo di danno patrimoniale, 10.260.000 euro a titolo di riparazione del pregiudizio d'immagine, di 1.000.000 euro a titolo di danno morale, condannandola altresì al pagamento delle spese di lite sopportate da Louis Vuitton. Nel caso specifico di eBay questo indice si misura sulla scorta di quanto ha percepito l'intermediario dallo sviluppo degli annunci illegali pubblicati su internet. Tuttavia questo indice deve considerarsi solo una frazione dell'intera web identity dell'azienda. Una costruzione ermeneutica simile si riscontra nella giurisprudenza della Corte dei Conti in tema di danno all'immagine della P.A che quantifica il danno nella stessa misura delle somme percepite a titolo di tangenti da parte di pubblici dipendenti responsabili di concussione (cfr., ad esempio, C. conti, sez. II, 9 ottobre 2003, n. 285/A). Alla luce delle riflessioni condivise, si rimette di seguito una sintesi degli indici indispensabili per iniziare a valutare il danno-web reputation per l' “azienda digitale”. Potremmo calcolare il danno patrimoniale e non patrimoniale secondo indici di estrazione mista: in parte derivanti dai costi e dai probabili guadagni di una campagna reputazionale; in parte derivanti dalla violazione del marchio e dalla violazione dell'identità dell'azienda. In conclusione
Alla luce delle riflessioni condivise, si rimette di seguito una sintesi degli indici indispensabili per iniziare a valutare il danno-web reputation per l' “azienda digitale”. Potremmo calcolare il danno patrimoniale e non patrimoniale secondo indici di estrazione mista: in parte derivanti dai costi e dai probabili guadagni di una campagna reputazionale; in parte derivanti dalla violazione del marchio e dalla violazione dell'identità dell'azienda.
|