Eccessiva durata del processo

Rosaria Giordano
24 Aprile 2014

La nozione della responsabilità dello Stato per eccessiva durata del processo si ricava, in primo luogo, dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberà fondamentali (CEDU) che ricomprende, tra le garanzie dell'equo processo, la ragionevole durata dello stesso. In seguito, anche l'art. 111 Cost., così come modificato dalla legge cost. n. 2/1999, ha espressamente contemplato, nel novero delle garanzie del giusto processo, la ragionevole durata dello stesso.
Nozione

La nozione della responsabilità dello Stato per eccessiva durata del processo si ricava, in primo luogo, dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberà fondamentali (CEDU) che ricomprende, tra le garanzie dell'equo processo, la ragionevole durata dello stesso.

In seguito, anche l'art. 111 Cost., così come modificato dalla l. cost. n. 2/1999, ha espressamente contemplato, nel novero delle garanzie del giusto processo, la ragionevole durata dello stesso.

È peraltro solo con la l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto che è stato introdotto uno specifico mezzo di ricorso, nel nostro ordinamento, che consente, all'art. 2 a chi abbia subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, di ottenere un'equa riparazione, facendo valere la relativa responsabilità dello Stato (cfr. Tarzia, L'art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, 1 ss; Monteleone, Il processo civile alla luce dell'art. 111 Cost., in Giust. civ.,2001, 523).

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall'art. 6, par. 1, CEDU, solo con riferimento alle cause "proprie" e, quindi, esclusivamente in favore delle "parti" della causa, nel cui ambito si assume avvenuta la violazione. Almeno ai fini della legittimazione attiva alla proposizione della domanda di equa riparazione, non assume alcuna rilevanza la circostanza che la parte ricorrente sia rimasta soccombente nel giudizio c.d. presupposto del quale denuncia l'irragionevole durata (Cass. civ., sez. I, sent., 3 maggio 2012, n. 6685).

Sempre in tema di legittimazione attiva a proporre la domanda di equa riparazione, soltanto di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risolvendo il contrasto che si era formato sulla questione nella giurisprudenza di legittimità, hanno chiarito che anche la parte rimasta contumace può agire per richiedere l'indennizzo previsto dalla legge c.d. Pinto. Tale orientamento si fonda sulle seguenti considerazioni:

a) sia nell'art. 6 CEDU che nella l. 24 marzo 2001, n. 89, manca qualsivoglia limitazione per il contumace al diritto ad ottenere una conclusione del giudizio in tempi ragionevoli anche se non si è costituito in giudizio;

b) la decisione di quel processo è comunque destinata a produrre effetti nei confronti della parte contumace, la cui condotta processuale, del resto, nel nostro ordinamento giuridico assume valenza neutra ai fini dell'accoglimento della domanda;

c) la scelta di non costituirsi può dipendere da svariate ragioni, come, ad esempio, «la convinzione circa la totale plausibilità o al contrario l'assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio»(Cass., Sez. Un., sent., 14 gennaio 2014, n. 585).

Quando l'azione di equa riparazione per i danni determinati dall'irragionevole durata del processo è proposta dagli eredi della parte già costituita nel giudizio presupposto è fondamentale distinguere tra la domanda formulata dall'erede per i danni subiti in proprio per l'irragionevole durata del processo e quelli richiesti iure hereditatis, dovendo il danno iure proprio essere liquidato soltanto avendo riguardo al segmento del processo irragionevolmente lungo successivo alla costituzione in giudizio dell'erede (Cass., sez. I, sent., 3 ottobre 2011, n. 20155). Pertanto, ne deriva che la determinazione del danno non patrimoniale in favore degli eredi che non siano stati parti nel processo presupposto o non abbiano potuto esserlo (come nel processo penale nel quale la responsabilità è personale) deve effettuarsi esclusivamente in relazione al patimento subito dal defunto, in relazione al quale gli eredi hanno diritto alla partecipazione pro quota (Cass., sez. I, sent., 20 gennaio 2011, n. 1360).

Elemento oggettivo

Il diritto ad un'equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, ha carattere indennitario e non risarcitorio e, pertanto, non richiede l'accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall'art. 2043 c.c., né presuppone la verifica dell'elemento soggettivo della colpa a carico di un agente. Tale diritto è ancorato all'accertamento della violazione dell'art. 6, par. 1, CEDU, ossia di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, l'obbligazione avente a oggetto equa riparazione configurandosi, non già come obbligazione ex delicto ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico (v., tra le tante, Cass. civ., sez. I, sent., 21 marzo 2011, n. 6457).

L'art. 2, comma 2-bis, legge c.d. Pinto, introdotto dalla l. n. 134/2012 ( per saperne di più, sugli aspetti sostanziali della nuova disciplina, AZZALINI, L'eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Resp. civ. prev., 2012, 1702; IANNELLO, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. Merito, 2013, 13; MAZZEO, Risarcimento per irragionevole durata dei processi: cambia la legge Pinto, in Resp. civ. e prev., 2012, 634; SALVATO, La disciplina dell'equa riparazione per irragionevole durata del processo nella morsa della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle specificità del nostro ordinamento, in Corr. Giur., 2012, n. 8-9, 993) stabilisce che il termine “presuntivo” di durata ragionevole del processo è pari a tre anni in primo grado, due anni in secondo grado e di un anno in sede di legittimità.

Inoltre, deve considerarsi ragionevole una durata complessiva, ossia considerati tutti i gradi di giudizio, del processo pari a sei anni.

Corte Cost. n. 36/2016 ha dichiarato costituzionalmente illegittima tale previsione normativa nella parte in cui trova applicazione proprio nel procedimento, in unico grado, di equa riparazione per irragionevole durata del processo.

Il processo inizia, ai fini del computo della durata dello stesso, con la notifica dell'atto di citazione ovvero con il deposito del ricorso (a seconda del rito applicabile) e si conclude con l'emanazione di una decisione definitiva, ossia non più assoggettata ad impugnazioni ordinarie.

In accordo con la più recente giurisprudenza di legittimità, inoltre, ove sia necessario incardinare un procedimento esecutivo per ottenere concreta soddisfazione del diritto accertato in sede cognitiva, dovrà aversi riguardo anche alla durata dello stesso (Cass., Sez. Un., sent. 19 marzo 2014, n. 6312). Peraltro, il medesimo art. 2, comma 2-bis, l. 24 marzo 2001, n. 89, precisa, a riguardo, che durata ragionevole - da ritenersi “ulteriore” rispetto a quella del processo di cognizione – del procedimento di esecuzione forzata è pari a tre anni.

Elemento soggettivo

La natura indennitaria dell'equa riparazione per eccessiva durata del processo esclude, per l'affermazione della relativa responsabilità dello Stato, l'accertamento della colpa.

Tuttavia, l'irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2, l. n. 89/2001 va accertata tenendo presente la complessità della causa ed, in relazione ad essa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione (per saperne di più, Edel, La durée des procédures civile set pénales dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l'homme, Strasbourg 2007, 20 ss.).

Il giudizio sulla complessità del caso - che costituisce un apprezzamento di merito, il quale, se logicamente e congruamente motivato, sfugge alla censura di legittimità - attiene alla materia ed al tipo di procedura trattata, nonché alla novità o serialità delle questioni discusse, al numero delle parti e delle domande, alla tipologia (quantitativa e qualitativa) dell'istruttoria espletata, alla presenza di sub-procedimenti sommari, etc. (v., tra le molte, Cass. civ., sez. I, sent. 2 agosto 2006, n. 17552).

Nella valutazione del comportamento del giudice, premesso che il superamento del termine ragionevole di durata del processo non può essere giustificato con il carico di lavoro gravante sull'ufficio giudiziario (Cass. civ., sez. I, sent. 2 ottobre 2009, n. 21110), il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi dell'art. 175c.p.c., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti (Cass. civ., sez. lav., sent. 1 marzo 2012, n. 3189).

I comportamenti delle parti che possono incidere negativamente sulla durata del processo sono, invece, quelle condotte esclusivamente dilatorie, come, ad esempio, le richieste di rinvio non correlate ad esigenze dell'istruttoria o del contraddittorio.

Nesso di causalità

Il diritto all'equa riparazione per l'eccessiva durata di un processo si correla all'aver assunto la qualità di parte in un processo che abbia avuto una durata irragionevole “in concreto” ossia avendo riguardo alla durata del giudizio unitamente alla complessità dello stesso, al comportamento del giudice (o delle altre autorità intervenute), ed a quello delle parti.

Il bene giuridico tutelato è il diritto primario fondamentale di ciascuno alla definizione entro termini ragionevoli di una controversia della quale è parte, sebbene il danno risarcibile consista nei pregiudizi consequenziali ex artt. 1223 e 2056 c.c., applicabili anche in tema di danno non patrimoniale (nesso di causalità giuridica).

Onere della prova

Occorre distinguere tra la dimostrazione del danno non patrimoniale e del danno patrimoniale derivante dall'eccessiva durata del processo.

In particolare, per giurisprudenza consolidata, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 CEDU. Pur dovendo, quindi, in conformità alle sentenze di San Martino (Cass. civ. n. 26972/2008 e ss.) escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. civ., sez. VI, sent. 6 febbraio 2013, n. 2843). In sostanza, va riconosciuto il danno non patrimoniale subìto dal cittadino quando la durata eccessiva del processo gli ha cagionato un senso di frustrazione ed impotenza che, secondo l'id quod plerumque accidit, prende qualunque cittadino, causandogli un innegabile stato di stress, allorquando, per ingiustificati ritardi e disfunzioni del servizio giustizia, non riesce ad ottenere tempestivamente il riconoscimento dei propri diritti (App. Reggio Calabria, sent. 17 luglio 2012).

Diversamente, nelle cause per equa riparazione introdotte a norma della l. n. 89 del 2001, l'onere di dimostrare il danno patrimoniale derivante dall'eccessiva durata del giudizio deve essere pienamente assolto dal ricorrente, senza il beneficio di presunzioni di ordine generale, trattandosi di fornire la prova di uno dei fatti costitutivi della sua domanda (pertanto, ad esempio, quando il pregiudizio lamentato si risolva nell'asserita impossibilità di fare valere gli effetti della condanna emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere nel frattempo il debitore divenuto insolvente, è onere del ricorrente dimostrare che tale circostanza ha compromesso la soddisfazione del suo credito, quantunque questo sia stato ammesso a partecipare al concorso con gli altri creditori dell'insolvente: cfr. Cass. civ., sez. I, 6 dicembre 2006, n. 26166).

Aspetti medico-legali

La Suprema Corte ha più volte ribadito che in tema di equa riparazione per la durata irragionevole del processo, ildanno biologico, che si assuma derivare da tale durata eccessiva, non può ritenersi presuntivamente sussistente come voce autonoma (ed ulteriore rispetto al patema d'animo e alla sofferenza morale, normalmente insiti nell'accertamento che il processo non si è concluso nei termini fisiologici), essendo necessaria la prova dell'esistenza del pregiudizio alla salute, fisica o psichica, e del nesso di causalità tra l'irragionevole durata del processo e il danno (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, sent. 24 agosto 2012, n. 14636). Pertanto, ai fini dell'accertamento, ad esempio, per il riconoscimento del danno alla salute in senso stretto, di una depressione reattiva conseguente alla durata eccessiva di un processo sarà di regola necessario espletare una CTU medico-legale.

Criteri di liquidazione

La circostanza che, secondo quanto precisato dallo stesso art. 2 legge Pinto, il diritto all'equa riparazione trova fondamento nella violazione dell'art. 6 CEDU comporta che l'indennizzo riconosciuto debba essere conforme nel quantum a quello erogato, in fattispecie analoghe, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (v. Cass., Sez. Un., sent. 26 gennaio 2004, nn. 1338-1339-1340-1341).

In altri termini, ai fini della liquidazione dell'indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della l. n. 89/2001, l'ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, di casi simili a quello portato all'esame del giudice nazionale. Pertanto, è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purché in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili (Cass. civ., sez. VI, sent. 3 maggio 2012, n. 6696). A questo riguardo, si ritiene che gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possano essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, «a condizione che le decisioni pertinenti» siano «coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato», e purché detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45% del risarcimento che la Corte europea avrebbe attribuito. In ogni caso,, stante l'esigenza di offrire un'interpretazione della l. 24 marzo 2001 n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l'art. 6 Cedu, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata (Cass. civ., sez. I, sent. 8 luglio 2009, n. 16086).

Rispetto a tale costante orientamento giurisprudenziale, occorre ricordare – ferme le ipotetiche problematiche di compatibilità della nuova normativa con la giurisprudenza europea – che ai sensi dell'art. 2-bis legge c.d. Pinto, introdotto dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (link legislazione) la misura dell'equa riparazione era stata stabilita in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

Più di recente, la legge di stabilità per l'anno 2016 (l. 28 dicembre 2015, n. 208) ha modificato la predetta previsione normativa riducendo in modo ancora più significativo l'entità dell'indennizzo accordabile, in una misura tra 400 e 800 euro per ciascun anno eccedente il termine di ragionevole durata del processo.

È evidente, sotto un distinto ma correlato profilo, sia in base al citato art. 2-bis (ed in precedenza all'art. 2, comma terzo, della stessa legge Pinto) che in considerazione della giurisprudenza di legittimità in tema di equa riparazione ildanno deve essere liquidato non avendo riguardo all'intera durata del processo ma per il solo periodo eccedente la durata ragionevole (Cass. civ., sez. I, sent. 13 gennaio 2010, n. 401). Per la Corte europea, invece, in caso di durata irragionevole del processo, l'indennizzo calcolato in ragione d'anno deve essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento e non per ogni anno di ritardo.

Per la S.C. tale rilevante differenza non suscita alcun dubbio di legittimità costituzionale della normativa interna per violazione della norma interposta costituita dall'art. 117 Cost. poiché il diverso parametro di calcolo dell'equa riparazione, introdotto dalla Corte europea, produce il solo effetto di aprire alla vittima della violazione la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della Convenzione da parte della Corte stessa (Cass. civ., sez. I, sent. 3 gennaio 2008, n. 14).

L'art. 2-bis, l. 24 marzo 2001, n. 89, individua una serie di criteri per la liquidazione dell'indennizzo, che deve avvenire comunque ex art. 2056 c.c., ossia l'esito del processo presupposto, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, anche in considerazione delle condizioni personali della parte.

Si specifica, altresì, che l'entità dell'indennizzo non può superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice: tale norma pone il problema, almeno secondo alcuni, della persistente legittimazione del soccombente ad agire per ottenere l'equa riparazione ai sensi della l. n. 89/2001. Peraltro, la mera soccombenza non è contemplata dall'art. 2, comma 2-quinquies, legge Pinto tra le fattispecie di peculiare responsabilità, ad esempio ai sensi dell'art. 96 c.p.c., della parte istante nel processo presupposto, fattispecie nelle quali viene escluso radicalmente il diritto all'indennizzo.

Aspetti processuali

Il ricorso ex lege Pinto – in conformità a quanto previsto dall'art. 35 anche in ordine alla ricevibilità dei ricorsi dinanzi alla Corte europea – deve essere proposto nel termine di decadenza di sei mesi dall'emanazione della decisione definitiva nel processo presupposto.

La richiamata legge di stabilità per l'anno 2016, in parte qua ovviamente applicabile ai soli giudizi c.d. presupposti incardinati dopo la sua entrata in vigore, ha introdotto un'autentica condizione di procedibilità per i procedimenti di equa riparazione ex lege Pinto, mediante l'introduzione dell'art. 1-ter. In particolare: a) per i giudizi rientranti nell'ambito di cognizione del tribunale in composizione monocratica, tale condizione è integrata dall'aver introdotto il procedimento nelle forme di quello sommario di cognizione ovvero di avere richiesto la conversione in tale rito ex art. 183-bis c.p.c.; b) per le controversie demandate al tribunale in composizione collegiale, la condizione in questione è integrata dalla richiesta di decisione mediante discussione orale ai sensi del'art. 281-sexies c.p.c.

Sotto altro profilo, in accordo con le previsioni originariamente contenute nella l. n. 89/2001, sotto il profilo processuale, al fine di consentire al privato di denunciare l'irragionevole durata del processo era stata esclusa la via del processo ordinario, prevedendo un processo tipico ed esclusivo per l'accertamento di tale diritto mediante il rinvio alle «disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., integrate da alcune previsioni contenute nella l. n. 89/2001.

La competenza è attribuita in unico grado di merito, alla Corte d'appello del distretto nel quale è stato deciso il processo presupposto in primo grado, in accordo con criterio di collegamento della competenza per territorio innovativo, introdotto dalla medesima legge n. 208 del 2015.

La l. 7 agosto 2012, n. 134, ha modificato in modo rilevante il procedimento per ottenere l'equa riparazione derivante dall'irragionevole durata del processo (v. CONSOLO-NEGRI, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della – supposta – spending review), in Corr. Giur., 2013, n. 11, 1429 ss.; DE SANTIS DI NICOLA, Durata irragionevole e rimedio effettivo. La riforma della legge Pinto, Napoli 2012; GHIRGA, Le modifiche alla c.d. legge Pinto: contributo effettivo alla crisi del sistema giustizia?, in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc.; MARTINO, Legge 24 marzo 2001, n. 89, in (PANZAROLA), Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, Torino 2013, 503 ss.).

Nella prima fase c.d. necessaria, infatti, il giudizio è stato strutturato sul modello di un procedimento monitorio documentale, incardinato da un ricorso – al quale l'istante dovrà allegare in copia autentica tutta la documentazione relativa al processo presupposto - che si propone al Presidente della Corte di Appello, chiamato a provvedere entro trenta giorni con decreto motivato prima dell'emanazione del quale potrà, sempre in senso analogo a quanto previsto nel procedimento monitorio per ingiunzione, ex art. 640 c.p.c., espressamente richiamato nei primi due commi dall'art. 3, paragrafo quarto, legge c.d. Pinto come modificata, ottenere dalla parte ricorrente la documentazione integrativa eventualmente necessaria ai fini dell'accoglimento del ricorso. Se accoglie il ricorso, il giudice, ingiunge all'Amministrazione contro la quale è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando, in ogni caso, la provvisoria esecuzione. Peraltro, se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, a differenza di quanto avviene nel procedimento monitorio, anche con riferimento al rigetto parziale delle domande: cfr. Cass., Sez. Un., 1° marzo 2006 n. 4510, per la quale il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo alle domande, o ai capi di domanda, non accolti. La regola contenuta nell'art. 640 comma ultimo c.p.c. (secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria), infatti, trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale (e, quindi, di accoglimento solo in parte della richiesta).

Avverso il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento ovvero dalla sua notificazione, con ricorso depositato davanti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. La Corte d'appello provvede ai sensi degli artt 737 e seguenti c.p.c.: tuttavia, a differenza di quanto previsto dall'art. 3 della medesima legge Pinto nella formulazione originaria, non è espressamente stabilito il necessario rispetto delle fondamentali regole del contraddittorio tra le parti, inteso come parità delle armi, e nei rapporti con il giudice. Nondimeno, trattandosi di procedimento camerale c.d. su diritti, sembra che debba imporsi, in accordo, peraltro, con una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, il rispetto, almeno, del nucleo essenziale del principio del contraddittorio.

La decisione resa dalla Corte d'Appello è ricorribile per cassazione.

Casistica

Sulla legittimazione attiva

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, specificamente richiamato dall'art. 2, l. 24 marzo 2001 n. 89, solo con riferimento alle cause "proprie" e, quindi, esclusivamente in favore delle "parti" della causa, nel cui ambito si assume avvenuta la violazione, e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo (Cass. civ., sez. I, sent. 12 luglio 2011, n. 15250).

Sulla decorrenza del termine semestrale di decadenza per la proposizione dell'azione

In tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, qualora il diritto al relativo indennizzo si fondi sulla durata non ragionevole di un processo di cognizione, per "definitività" della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, deve intendersi il passaggio in giudicato della sentenza, non essendo conclusiva del procedimento una pronuncia suscettibile di impugnazione (Cass. civ., sez. I, sent. 16 novembre 2006, n. 24450).

In tema di complessità del caso

In materia di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, il giudice nazionale può discostarsi dai parametri tendenziali fissati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (tre anni per il giudizio di primo grado, due anni per il giudizio di appello, un anno per il giudizio di legittimità) soltanto con argomentazioni complete, coerenti e congrue. Pertanto, non è a tal fine sufficiente motivare la particolare complessità del giudizio con riferimento alla pluralità delle disposte consulenze tecniche d'ufficio, ove non risulti che essa sia dipesa da oggettiva difficoltà dell'indagine anziché da lentezza e scarsa professionalità dei tecnici incaricati o da sopravvenuti mutamenti legislativi, né è consentito detrarre i rinvii chiesti dalle parti per la pendenza di trattative, ove non risulti che essi vadano ascritti a intento dilatorio o a negligente inerzia delle parti stesse, tanto più ove le trattative siano in parte andate a buon fine (Cass. civ., sez. I, sent. 5 dicembre 2011, n. 25955).

Sulla condotta del Giudice in relazione ai disposti rinvii

Ritenuto che, in tema di equa riparazione per l'eccessiva durata del procedimento ex l. n. 89/2001 (c.d. legge Pinto), può ritenersi che i rinvii istruttori, anche se richiesti dalle parti o resi necessari dal compimento di attività processuali, devono produrre un intervallo che, se pur rispettoso del dettato di cui all'art. 81 disp. att. c.p.c., sia accettabilmente ragionevole, può considerarsi in esubero, rispetto a tale durata "ragionevole", ogni rinvio istruttorio di durata superiore ai quattro mesi (termine che, ove rispettato, consentirebbe di dedicare almeno tre udienze all'anno all'istruttoria di una controversia), come può ritenersi in esubero a tale limite accettabile un tempo superiore a due mesi per l'emissione di una ordinanza riservata, ed, ancora, un tempo superiore a sei mesi per la stesura di una sentenza (App. Lecce, 18 settembre 2007, in Dir. famiglia, 2009, n. 1, 143).

Sull'incidenza della c.d. posta in gioco per il ricorrente nella determinazione dell'indennizzo

In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della legge n. 89/2001, il giudice di merito, ai fini della determinazione del quantum dell'indennizzo, deve procedere ad un giudizio di comparazione tra la natura e l'entità della pretesa patrimoniale (cosiddetta «posta in gioco») e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l'impatto dell'irragionevole ritardo sulla psiche di questo ed, egli, pertanto, può discostarsi dai parametri indennitari fissati dalla Corte Edu, sia in senso migliorativo che peggiorativo, solo sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalle parti, dandone puntuale spiegazione, e tale comparazione costituisce valutazione di merito non sindacabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia di secondo grado che, liquidando un indennizzo di 800 euro per anno, in riferimento ad un giudizio in materia di lavoro, si era discostata immotivatamente dai parametri della Corte di Strasburgo, oscillanti tra 1000 e 1500 euro: Cass. civ., sez. I, sent. 24 luglio 2009, n. 17404).

Sommario