La transazione fiscale impedisce nuovi accertamenti del Fisco
14 Aprile 2015
Inquadramento
In dottrina non vi è unanimità di vedute: da un lato vi è, infatti, chi ritiene sussistere una inibizione “assoluta” (nei termini di seguito meglio precisati) e, dall'altro, chi considera preclusa unicamente l'attività liquidatoria dei tributi (ovverosia i controlli formali), restando intatti gli ordinari poteri di verifica e accertamento. La prima tesi si fonda sostanzialmente sulla ratio dell'istituto, la cui funzione, nelle intenzioni del Legislatore della riforma del 2006, pare essere quella di consentire la definizione delle pretese erariali e, conseguentemente, di addivenire alla definitiva quantificazione dei debiti fiscali, al fine di favorire un esito positivo della procedura concordataria. Sarebbe dunque coerente con tale finalità interpretare la locuzione “consolidamento del debito fiscale” nel senso di precludere agli uffici dell'Amministrazione finanziaria la possibilità di rettificare in aumento l'ammontare dei crediti erariali, una volta condivisi i termini della proposta di transazione fiscale e, in particolare, l'ammontare del credito erariale ivi rappresentato. D'altra parte, essendo stato acclarato il carattere facoltativo (e non obbligatorio) del ricorso alla transazione fiscale nel concordato preventivo in presenza di debiti tributari, se si ammettesse la possibilità per il fisco di mantenere inalterati i propri poteri accertativi in ordine ai tributi e agli anni d'imposta oggetto di transazione, non si vedrebbe quali benefici potrebbe conseguire in concreto il debitore attraverso la formulazione della proposta di transazione fiscale. Questa conclusione troverebbe indiretta conferma nel disposto del comma 5 dell'art. 182-ter, che, quale norma di chiusura, si muove nella direzione di “stabilizzare” in toto il debito fiscale, ponendolo al riparo da successive contestazioni. In particolare, secondo una corrente di pensiero, la cessazione della materia del contendere, sancita dalla disposizione testé citata, obbligherebbe in sostanza il debitore a rinunciare alle liti pendenti aventi ad oggetto i tributi concordati; di conseguenza, la rinuncia all'esercizio della potestà accertativa da parte dell'Amministrazione finanziaria (che sarebbe implicita nell'accettazione della transazione fiscale) si presenterebbe come la naturale contropartita alla rinuncia del debitore/contribuente a contestare in sede giudiziale le pretese del fisco (comprese le liti già pendenti). Il Legislatore fiscale avrebbe dunque inteso contemperare il sacrificio del contribuente di dover accettare le pretese erariali, con il beneficio consistente - per lo stesso - nel “presentare un piano sostanzialmente esente dal rischio fiscale normalmente difficilmente prevedibile”. Di tutt'altro avviso è la dottrina che interpreta la locuzione “consolidamento del debito fiscale” in maniera strettamente collegata con il testo del comma 2 dell'art. 182-ter l. fall. La formulazione della norma succitata, infatti, sarebbe esplicativa della volontà del Legislatore di riferire gli effetti del consolidamento ai soli controlli automatici, ovverosia ai controlli formali disciplinati dagli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973 e dall'art. 54-bis del D.P.R. n. 633 del 26 ottobre 1972. Pertanto sia la documentazione richiesta al debitore, sia la certificazione del debito richiesta all'Amministrazione finanziaria, sarebbero dirette a consentire solo l'esatta determinazione del debito erariale discendente dalla liquidazione dei dati dichiarati dallo stesso contribuente. In sostanza, l'attività delle parti sarebbe finalizzata unicamente a “fotografare” il debito erariale alla data di presentazione della proposta concordataria, in modo da certificare l'ammontare nella stessa indicato. La contrapposta tesi della preclusione degli ordinari poteri accertativi viene respinta con una serie di argomentazioni, quali:
La sentenza 5485/14 della Commissione Tributaria Lombardia
In giurisprudenza la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con la sentenza n. 5485/2014, ha recentemente affermato che il perfezionamento della transazione fiscale preclude all'Agenzia delle Entrate ulteriore attività accertativa. Il caso esaminato dai giudici di appello concerne, per l'appunto, l'impugnazione di un avviso di accertamento da parte di una società, la cui domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (con transazione fiscale) era stata omologata nel novembre 2009 con il voto favorevole dell'Amministrazione finanziaria. In particolare, posto che l'avviso di accertamento concerneva un'annualità oggetto della transazione fiscale, la società proponente aveva impugnato l'atto impositivo, lamentando la violazione dei commi 2 e 5 dell'art. 182-ter; dal suo conto, l'ufficio aveva invece considerato legittimo il proprio operato in base alle indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate con la citata Circolare n. 40/E del 2008. L'impugnazione proposta era stata accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Mantova con la sentenza n. 141/1/12 depositata il 17 luglio 2012, in forza del disposto del comma 5 dell'art. 182-ter, che, a parere dei giudici di primo grado, avrebbe rilevato con tutta evidenza la volontà del Legislatore di considerare la transazione fiscale alla stregua di un “accordo tombale”, così vietando all'ufficio di rettificare l'ammontare del credito erariale definito in sede transattiva. Alla medesima conclusione sono pervenuti anche i giudici di appello che, pur premettendo di essere a conoscenza delle problematiche interpretative concernenti l'effetto del “consolidamento del debito fiscale”, hanno ritenuto non condivisibile la posizione assunta sul punto dall'Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 40/E/2008. I giudici di secondo grado hanno motivato tale conclusione, osservando che “qualora gli uffici potessero "mettere in discussione" i risultati concordati con la controparte privata, ponendo in essere una successiva attività accertativa, l'accordo transattivo perderebbe significativamente di efficacia, divenendo poco appetibile: così interpretata, infatti, la norma di cui all'art. 182-ter rischierebbe di non trovare applicazione alcuna nella pratica, in quanto il debitore non trarrebbe alcun effettivo giovamento dalla transazione, mentre tutti gli altri creditori sarebbero esposti all'alea della effettiva realizzazione del piano di concordato, compromessa proprio della sopravvenienza di nuovi o maggiori tributi conseguenti ad atti impositivi emanati successivamente alla chiusura della procedura concorsuale. L'interpretazione più ragionevole della nozione di "consolidamento", o meglio l'unica che consentirebbe di evitare il depotenziamento della transazione, si ritiene essere appunto quella che esclude del tutto la possibilità di emanare, successivamente all'intervenuta omologazione del concordato, atti di imposizione a carico dell'istante, con la conseguente preclusione di ulteriori controlli di merito sui tributi oggetto della proposta di cui all'art. 182-ter. La prevalente prassi e dottrina in materia di transazione fiscale osserva che la bontà di tale soluzione interpretativa sarebbe confermata anche dalla ratio che sottende l'istituto, ossia l'intento di consentire all'impresa in crisi di tornare in bonis e "ripartire da zero", anche per il tramite di una ristrutturazione definitiva”. Come si evince dalle motivazioni della sentenza, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia dimostra di avere condiviso le ragioni evidenziate da quella dottrina che attribuisce al perfezionamento della transazione fiscale una sorta di “effetto tombale”, tipico degli accordi transattivi e frutto del sotteso contraddittorio con il fisco, da cui consegue non solo la “fotografia” del credito erariale alla data di presentazione della proposta, ma anche (e soprattutto) la sua immodificabilità.
La sentenza testé illustrata fornisce doverosamente le (condivisibili) motivazioni su cui è stato fondato il convincimento dei giudici tributari, al quale possono peraltro essere aggiunte ulteriori considerazioni in ordine alla corretta interpretazione della locuzione “consolidamento del debito fiscale”. Per altro verso, in ambito giuridico il suddetto termine ricorre generalmente con riguardo:
Nessuno dei suddetti significati pare essere ragionevolmente utilizzabile ai fini di cui trattasi; infatti, anche il riferimento all'espressione “consolidamento del debito”, ricorrente nel settore creditizio, appare improprio nel caso di specie, non realizzandosi con la transazione fiscale alcuna riunione, compattazione o trasformazione dei crediti erariali, la cui suddivisione deve anzi essere mantenuta al fine di rispettare l'ordine delle legittime cause di prelazione. Infine, nel linguaggio corrente con il termine “consolidare” si intende “stabilizzare”, “rafforzare”, “compattare”; tutte accezioni che pure non si rivelano granché utili allo scopo. Ne discende che, al fine di individuare l'esatto significato della locuzione “consolidamento del debito fiscale” presente nel comma 2 dell'art. 182-ter, il dato letterale non si dimostra di sufficiente ausilio. Inoltre, in merito al profilo letterale, non sembra possa in ogni caso attribuirsi decisiva rilevanza al fatto che l'espressione “consolidamento del debito tributario” è collocata nel comma 2 dell'art. 182-ter. Da tale disposizione, infatti, si evince solo che l'espletamento dei controlli formali da parte dell'Amministrazione finanziaria è finalizzata al consolidamento del debito fiscale, ma ciò non significa che questo fine si possa intendere raggiunto con la mera conclusione dell'istruttoria formale. L'attività ermeneutica dell'interprete, quindi, pare doversi basare su ragioni di ordine logico-sistematico. In proposito risulta immediato e naturale collegare funzionalmente l'effetto del “consolidamento del debito fiscale” alla cessazione delle liti sancita dal comma 5 del medesimo art. 182-ter l. fall., costituente l'altro effetto tipico che consegue al perfezionamento della transazione fiscale. Appare infatti ragionevole ritenere che entrambi gli effetti convergano nella stessa direzione. È pacifico che, ai sensi di tale norma il perfezionamento della transazione fiscale comporta la cessazione delle controversie fiscali pendenti relative ai tributi cui essa si riferisce: tale norma lo prevede espressamente. Del resto, la prosecuzione di dette liti, dopo la conclusione della transazione fiscale, minerebbe la stessa funzione ad essa attribuita, ovverosia pervenire alla quantificazione del debito fiscale in maniera certa. Ci pare quindi che, se il Legislatore avesse voluto attribuire al perfezionamento della transazione fiscale unicamente l'effetto di “fotografare” il debito tributario maturato con certezza in un dato momento, non avrebbe avvertito l'esigenza di prevedere l'automatico venir meno dei contenziosi in essere. La cessazione delle liti pendenti (e di quelle potenziali), invece, pare soddisfare l'(ulteriore) esigenza di garantire che l'effetto della transazione fiscale si rifletta anche sul piano processuale, in modo da assicurare la compiuta definizione delle pretese erariali e, dunque, la quantificazione certa dei debiti tributari. Altrimenti detto, tale peculiare effetto costituisce il corollario naturale della definizione raggiunta con il fisco con riferimento alla posizione dell'impresa al momento della presentazione della proposta. E questa conclusione non muta se l'effetto della cessazione della materia del contendere, anziché essere inteso nel senso di definitiva rinuncia alla prosecuzione del contenzioso da parte dell'impresa debitrice e di conseguente cristallizzazione delle pretese impositive contestate (come sembrerebbe prima facie affermare la Corte di cassazione con le citate sentenze nn. 22931 e 22932 del 2011), venga interpretato diversamente (come noi riteniamo), e cioè nel senso che la proposta formulata dal contribuente deve essere tale da consentire all'Agenzia un vantaggio compensativo degli effetti negativi a essa generati dalla cessazione delle liti pendenti. Infatti, stante l'assenza nell'ordinamento giuridico di una norma definitoria del concetto di “cessazione della materia del contendere”, in giurisprudenza è stato affermato che la dichiarazione di tale cessazione può essere pronunciata, “anche d'ufficio, quando sia sopravvenuta una situazione …, riconosciuta ed ammessa, da entrambe le parti, che ne abbia eliminato la posizione di contrasto anche circa la rilevanza delle vicende sopraggiunte ed abbia, perciò, fatto venir meno oggettivamente la necessità di una pronuncia del giudice su quanto costituiva l'oggetto della controversia”. Pertanto, nonostante l'apparente assimilazione alle cause di estinzione del giudizio operata dall'art. 46 del D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 (da intendersi correttamente quoad factum), la cessazione della materia del contendere non è dovuta alla rinuncia al ricorso o all'inattività, ma alla sopravvenuta composizione della controversia tra le parti in un'altra sede, sicché “la cessazione della materia del contendere costituisce il riflesso processuale del venir meno della ragion d'essere sostanziale della lite”. Così stando le cose, sebbene possa risultare complesso condurre l'Amministrazione finanziaria a “rivedere” le proprie pretese, il debitore ha l'onere di “dialogare” previamente con il fisco, al fine di ottenere una ridefinizione dell'ammontare delle pretese tributarie (anche nella stessa transazione fiscale) che possa rendere conveniente per gli interessi erariali (rispetto a soluzioni alternative) la proposta transattiva, evitando di dovere integralmente accettare le pretese erariali (anche quelle considerate palesemente infondate).
In conclusione
Ciò posto, la “definitività” del debito fiscale non può comunque riguardare le obbligazioni tributarie sorte successivamente alla formulazione della proposta di transazione fiscale. Infatti detta preclusione deve essere circoscritta alle violazioni che gli uffici finanziari avrebbero potuto constatare, censurare o comunque valutare prima di esprimere la propria adesione alla proposta di transazione fiscale. In sostanza, ad avviso di chi scrive, l'accettazione della proposta deve essere il frutto della valutazione complessiva operata dall'Agenzia delle Entrate con riguardo alla posizione del debitore/proponente, tenendo conto anche delle eventuali violazioni (di carattere formale o sostanziale) dalla stessa riscontrate o riscontrabili con riguardo alle dichiarazioni fiscali presentate, nell'espletamento degli ordinari poteri di controllo e di accertamento. Dunque, l'effetto preclusivo non può riferirsi anche ad annualità in relazione alle quali - nel momento in cui formula la proposta di transazione fiscale - il contribuente non ha ancora presentato le dichiarazioni relative ai tributi oggetto della transazione stessa. FONTE: www.ilfallimentarista.it Riferimenti
Normativi: Art. 46 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 Art. 54-bis, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 Art. 1014 c.c.
Giurisprudenza: C.T.R. Lombardia, Bergamo, 21 ottobre 2014, n. 5485 C.T.P. Mantova, 17 luglio 2012, n. 141
Prassi: Agenzia delle Entrate, Circolare 18 aprile 2008, n. 40/E
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