Il mimetismo criptico del contributo di solidarietà sulle “pensioni d'oro” e la sua vera natura tributaria
12 Dicembre 2016
Il mimetismo criptico
Il mimetismo cosiddetto criptico rappresenta una delle dimostrazioni di adattabilità all'ambiente tra le più straordinarie rintracciabili in natura. Si tratta di una strategia di difesa che numerose categorie di animali hanno sviluppato nel corso dell'evoluzione al fine di aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza, minimizzando il rischio di essere predati. Tale strategia consiste in un camuffamento – morfologico, cromatico ed etologico – che l'animale realizza al fine di sfuggire all'occhio dell'osservatore, fingendosi parte stessa dell'ambiente in cui vive. Non sempre il camuffamento sortisce l'effetto auspicato, ma a volte sì. Il contributo di solidarietà previsto dall'art. 1, comma 486, della Legge n. 147/2013 è un esempio di mimetismo, un fasmide, un insetto stecco giuridico che, grazie all'evoluzione normativa della misura rispetto al triennio precedente, ha passato indenne lo scrutinio della Corte costituzionale.
Eppure, un insetto resta tale, anche se si dà il caso che assomigli ad un rametto. L'art. 1, comma 486, della Legge n. 147/2013 prevede un «contributo di solidarietà» per il triennio 2014-2016 gravante su tutti i trattamenti pensionistici obbligatori eccedenti determinati limiti stabiliti in relazione al trattamento minimo INPS (pari – secondo quanto riportato nella Circolare INPS n. 7 del 17 gennaio 2014 – ad euro 501,38 lordi mensili per 13 mensilità, ossia ad euro 6.517,94 lordi annui).
La disposizione, frutto di un emendamento peggiorativo (sia per aliquote che per importi) all'originario D.d.L. (secondo il testo originario del disegno di legge (AS 1120), l'aliquota del contributo era pari al:
Il comma 486, peraltro, non è che una delle ultime misure legislative che hanno inciso sui trattamenti previdenziali di ammontare più elevato.
Limitandoci a citare quelli intervenuti nel decennio immediatamente precedente al 2013, si possono rammentare: a) l'art. 3, commi 102-103, della Legge n. 350/2003, che ha disposto per il periodo 2004-2006 un contributo di solidarietà del 3% sui trattamenti pensionistici corrisposti dagli enti gestori della previdenza obbligatoria per importi complessivamente superiori a 25 volte il trattamento minimo delle pensioni nel regime generale INPS all'epoca previsto; b) l'art. 1, comma 2, lettera u), primo e secondo periodo, della Legge n. 243/2004, che ha delegato il Governo a prevedere un contributo di solidarietà del 4% per le pensioni di importo 25 volte maggiore del trattamento minimo, rivalutabile per gli anni successivi al 2007 e fino al 2015, in base alle variazioni del costo della vita; c) l'art. 1, commi 222-223, della Legge n. 296/2006, che ha previsto un contributo di solidarietà per il periodo 2007-2009 del 15% anche sui trattamenti pensionistici integrativi di importo complessivo superiore ad euro 1,5 milioni; d) l'art. 18, comma 22-bis, del D.L. n. 98/2011, che ha introdotto un contributo per il periodo 1° agosto 2011-31 dicembre 2014 sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie pari al 5% per gli importi da euro 90.000 ad euro 150.000 lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro; e) l'art. 2, comma 2, del D.L. n. 138/2011, che, per il periodo 2011-2013, ha previsto un contributo di solidarietà del 3% sugli importi superiori ad euro 300.000,00 lordi annui, anche se frutto di trattamento pensionistico, al lordo della trattenuta di cui al punto precedente, con conseguente effetto di cumulo (15%+3%).
Nel medesimo lasso temporale, peraltro, a tali misure se ne sono aggiunte di ulteriori che, seppur non consistite in un prelievo, hanno indubitabilmente penalizzato i medesimi trattamenti pensionistici: a) l'art. 1, comma 19, della Legge n. 247/2007 ha disposto, per l'anno 2008, l'azzeramento temporaneo della rivalutazione per quelli superiori a 8 volte il minimo INPS; b) l'art. 24, comma 25, del D.L. n. 201/2011, per gli anni 2012 e 2013, ha riconosciuto la rivalutazione automatica esclusivamente ai trattamenti di importo complessivo fino a 3 volte quello minimo INPS, nella misura del 100%. Anche a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione in questione (Corte cost., 30 aprile 2015, n. 70) l'art. 1, comma 1, n. 1, del D.L. n. 65/2015 ha riconosciuto la rivalutazione automatica dei trattamenti compresi tra 3 volte e 6 volte quello minimo INPS soltanto in misura percentuale, escludendola del tutto per quelli superiori a tale ultima soglia.
Il precedente excursus, seppur limitato all'ultimo torno di anni, evidenzia come le pensioni di ammontare più elevato abbiano subito una costante penalizzazione, rilievo che, da un lato, milita in senso contrario all'assunto – tutto demagogico e dunque non meritevole di particolare attenzione – secondo cui il più recente prelievo sia equo e, dall'altro, ne smentisce l'eccezionalità, se il contributo in considerazione non è che l'epilogo – peraltro, riproduttivo, da ultimo, di un precedente risalente al 1999 - di una serie crescente, dipanatasi lungo oltre un decennio, di misure di decurtazione adottate anche al di fuori di un contesto economico-finanziario emergenziale. Contributo di perequazione
Come accennato, per il periodo dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014 – ossia, per il lasso temporale immediatamente precedente a quello riguardato dal «contributo di solidarietà» di cui all'art. 1, comma 486, della Legge n. 147/2013 – l'art. 18, comma 22-bis, del D.L. n. 98/2011 prevedeva un «contributo di perequazione» sui trattamenti pensionistici più elevati, anch'esso progressivo, il cui provento doveva essere versato all'entrata del bilancio dello Stato.
Di tale prelievo la Corte costituzionale ha riconosciuto espressamente e senza margine di dubbio la natura tributaria in due occasioni, rilevando come esso integri «una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte per caratterizzare il prelievo come tributario» (Corte Cost., 31 ottobre 2012, n. 241 e Corte Cost., 5 giugno 2013, n. 116).
In effetti, secondo la Corte, «indipendentemente dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo: cioè la doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante» (Corte Cost., 11 ottobre 2012, n. 223; nello stesso senso, successivamente, Corte Cost., 12 dicembre 2013, n. 304, Corte Cost., 17 dicembre 2013, n. 310, Corte Cost., 4 giugno 2014, n. 154, Corte Cost., 18 luglio 2014, n. 219, Corte Cost., 10 aprile 2015, n. 58, Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 70 e Corte Cost., 23 luglio 2015, n. 178).
È nella destinazione delle risorse al sistema previdenziale piuttosto che al bilancio dello Stato che si rinviene la differenza tra la misura ora in considerazione e quella applicata alle pensioni più elevate nel triennio precedente. Ed è specificamente in questa differenza che si annida lo stratagemma mimetico attuato dall'art. 1, comma 486, della Legge n. 147/2013. Tuttavia, se solo avesse seguito le inequivocabili direttrici espresse dai propri precedenti, la Corte non avrebbe potuto misconoscere la natura tributaria del contributo in esame.
Anzitutto, scontata l'irrilevanza della qualificazione normativa, non è revocabile in dubbio che si tratti di un prelievo coattivo che realizza una decurtazione definitiva (sebbene temporanea), imposta dalla legge, del reddito pensionistico quale presupposto economicamente rilevante, idoneo a porsi come indice di capacità contributiva. Tale decurtazione, inoltre, si realizza in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti.
Premesso che la prestazione previdenziale non viene affatto modificata, permanendo integro nella sua originaria quantificazione l'ammontare su cui è temporaneamente operata la «trattenuta», non sussiste alcuna relazione di corrispettività tra prestazioni e contributi previdenziali. In tal senso si esprime sia l'attuale dottrina – evidenziando l'interesse pubblico che l'obbligazione contributiva e quella previdenziale sono destinate a soddisfare ed argomentando dal principio di automaticità delle prestazioni (art. 2116 cod. civ.), nonché dal grado di attuazione che esso ha ricevuto nell'ordinamento – sia la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. lav., 29 ottobre 2001, n. 13382, Cass. civ., sez. lav., 12 novembre 1999, n. 12596, Cass. civ., sez. lav., 6 novembre 1990, n. 10649, e Cass. civ., sez. lav., 24 maggio 1988, n. 3590) – la quale sottolinea, altresì, l'autonomia del rapporto contributivo da quello previdenziale (Cass. civ., sez. lav., 14 febbraio 2014, n. 3491) – sia, infine, la stessa Corte costituzionale, marcando la differenza tra il sistema mutualistico prevalso in passato e quello solidaristico che si è andato via via affermando (Corte Cost., 4 maggio 1984, n. 133 e Corte cost., 4 maggio 1984, n. 132) o pronunciando in ordine a prestazioni INAIL (Corte Cost., 27 luglio 2001, n. 327 e Corte cost., 7 febbraio 2000, n. 36) e pensioni di invalidità (Corte cost., 30 maggio 1995, n. 205).
Infine, sussiste anche l'ultimo requisito indefettibilmente richiesto per l'integrazione della fattispecie tributaria, vale a dire la destinazione delle risorse raccolte a sovvenire pubbliche spese (cui, testualmente, si richiama l'art. 53, primo comma, Cost.).
Che quelle affrontate dalle gestioni previdenziali obbligatorie rappresentino pubbliche spese sembra indubitabile, sol considerando che:
a) la realizzazione della tutela previdenziale è compito dello Stato (art. 38, quarto comma, Cost.) e dunque soddisfa un interesse pubblico, il cui perseguimento è affidato agli enti previdenziali;
b) lo Stato li istituisce, ne determina l'ordinamento, ne prevede gli organi e nomina i loro componenti, stabilisce l'indirizzo politico-amministrativo della loro attività, li sottopone a controllo;
c) lo Stato provvede al reperimento dei mezzi necessari al raggiungimento dei fini affidati alla loro cura, anzitutto imponendo ad alcuni soggetti l'obbligo di pagamento dei contributi previdenziali - cui la dottrina prevalente, giuslavorista e tributarista, e la Corte di cassazione in sede penale (Cass. pen., sez. III, 13 settembre 2013, n. 37528, Cass. pen., sez. III, 11 luglio 2013, n. 29755, Cass. pen., sez. III, 8 marzo 2013, n. 10938, Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2012, n. 47126, Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2012, n. 13973, Cass. pen., sez. III, 27 luglio 2011, n. 29975, Cass. pen., sez. III, 25 maggio 2011, n. 20845, e Cass. pen., sez. III, 20 ottobre 1999, n. 11962) attribuiscono natura tributaria, diversamente dalla Corte costituzionale (Corte cost., 17 marzo 1995, n. 88, Corte cost., 7 luglio 1986, n. 173 e Corte cost., 17 dicembre 1985, n. 349) – dovere che comunque rientra nella categoria delle obbligazioni pubbliche (Corte cost., 21 maggio 2014, n. 139);
d) lo Stato provvede anche direttamente a finanziare le gestioni previdenziali (ogni legge di stabilità contiene l'indicazione dei trasferimenti per svariati miliardi di euro alle gestioni previdenziali. Con riferimento al triennio 2014-2016, quello di applicazione del «contributo di solidarietà», si vedano: l'art. 1, commi 2, 3 e 4, della Legge n. 147/2013, l'art. 1, commi 2 e 3, della Legge n. 190/2014 e l'art. 1, commi 2 e 3, della Legge n. 208/2015; inoltre, il comma 5 del citato art. 1 della Legge n. 147/2013 ha trasformato in definitive le anticipazioni per oltre 25 miliardi di euro erogate all'INPS fino al 2011 per fronteggiare l'ammanco della gestione ex INPDAP. In mancanza di tale intervento il bilancio dell'INPS avrebbe già visto nel 2014 un grave disavanzo di gestione ed un patrimonio negativo per oltre 4 miliardi di euro).
Tale ultima notazione rende massimamente evidente come non abbia senso alcuno sottolineare il fatto che il precedente «contributo di perequazione» doveva essere versato alla parte entrata del bilancio dello Stato mentre il successivo «contributo di solidarietà» è destinato al bilancio delle gestioni previdenziali obbligatorie: non solo la circostanza è priva di importanza – rilevando, come accennato, la correlazione del prelievo con le pubbliche spese - ma dal punto di vista finanziario entrambi i bilanci sono alimentati dai proventi della fiscalità generale.
Riconosciuta – alla luce delle precedenti argomentazioni – la natura tributaria del «contributo di solidarietà», la conseguenza inevitabile è (avrebbe dovuto essere) la sua illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., così come ritenuto per il «contributo di perequazione» (Corte cost., 5 giugno 2013, n. 116).
Peraltro, tale soluzione avrebbe trovato assoluto conforto in un precedente in termini risalente al 1981 (Corte cost., 7 luglio 1981, n. 119). Nell'occasione la Corte costituzionale era stata chiamata a scrutinare la legittimità di un «contributo di solidarietà» progressivo sulle pensioni superiori ad un certo importo a carico del Fondo speciale di previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di telefonia e successivamente esteso ai titolari di pensione erogate dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, nonché dai fondi sostitutivi od integrativi dell'assicurazione medesima gestiti dall'INPS. Detto contributo, trattenuto direttamente dall'INPS in sede di liquidazione, era destinato al Fondo sociale istituito, con separata contabilità, presso l'ente stesso dall'art. 2 della Legge n. 903/1965 per erogare inizialmente una quota parte delle mensilità pensionistiche dei lavoratori indicati nel precedente art. 1 e successivamente, ai sensi dell'art. 26, comma 9, della Legge n. 153/1969, la pensione sociale ai cittadini ultrasessantacinquenni in condizioni economiche disagiate.
Poiché le pensioni attinte dal contributo – precedentemente esenti dall'imposta di ricchezza mobile ai sensi dell'art. 124, comma 1, del R.d.L. n. 1827/1935 – erano state frattanto assoggettate alla neoistituita IRPEF dall'art. 46, comma 2, del d.P.R. n. 597/1973, nel biennio in cui hanno coinciso sia l'uno che l'altro prelievo, entrambi tributari, la Corte ha ravvisato un vulnus al «principio dell'eguaglianza in relazione alla capacità contributiva, sancito dagli artt. 3 e 53 della Costituzione, atteso che, nei confronti dei titolari di altri redditi […] i titolari delle pensioni su cui si è applicato tanto l'IRPEF quanto la ritenuta a favore del Fondo sociale, sono stati, a parità di reddito e di capacità contributiva, colpiti in misura ingiustificatamente e notevolmente maggiore».
Come emerge in maniera evidente dalla disamina che precede, il contributo di solidarietà in allora previsto presenta fortissime analogie con quello scrutinato dalla sentenza in commento, in quanto prelievo coattivo e progressivo sui trattamenti pensionistici (comunque già assoggettati ad IRPEF) superiori ad una certa soglia realizzato attraverso una trattenuta diretta dell'ente previdenziale mantenuta all'interno della relativa gestione con marcate finalità solidaristiche endo-previdenziali. Nonostante gli argomenti che militavano a favore di una pronuncia di accoglimento della questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., la Corte è stata di diverso avviso.
Alla luce delle modalità di realizzazione della trattenuta e della destinazione endo-previdenziale del suo provento, ne ha escluso la natura tributaria, assestandosi su un altro precedente (Corte cost., 30 gennaio 2003, n. 22), per vero afferente ad un contributo del tutto analogo, che aveva ascritto il prelievo al «genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'art. 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori».
Nel far ciò, tuttavia, la Corte non ha motivato affatto in ordine all'insussistenza degli «elementi di identificazione dei tributi» (Corte cost., 10 aprile 2015, n. 58) come da essa stessa costantemente enucleati, tra i quali non si annovera la modalità con cui la trattenuta viene operata, né si è confrontata con la diversa conclusione raggiunta nella pronuncia del 1981. Ciò, peraltro, diversamente dal precedente specifico del 2003, che, viceversa, aveva sperimentato un tentativo di confutazione, seppur non convincente: la natura tributaria della misura scrutinata nel 1981 veniva confermata alla stregua della progressività delle aliquote e dell'assenza di limiti temporali della misura. Ebbene, da un lato la progressività è ravvisabile anche nel contributo di solidarietà oggi in esame e, dall'altro, l'imposizione tributaria ben può avere carattere temporaneo (Corte cost., 14 gennaio 2016, n. 3 e Corte cost., 31 ottobre 2012, n. 241). Rimane pertanto oscura la ragione per cui il prelievo vagliato dalla sentenza in commento difetti di consistenza tributaria e sfugga all'ambito applicativo degli artt. 3 e 53, primo comma, Cost. Insomma, se un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (Corte cost., 11 0ttobre 2012, n. 223); se «comporta una ablazione delle somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico» (Corte Cost., 10 aprile 2015, n. 58) e se richiede che la prestazione stessa sia «destinata allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell'ente impositore» (Corte Cost., 10 aprile 2015, n. 58), perché non ha natura tributaria il prelievo progressivo imposto dall'art. 1, comma 486, della Legge n. 147/2013 sulle pensioni più elevate, il cui provento, nella prospettiva della Corte, viene attribuito agli enti gestori della previdenza obbligatoria per essere destinato a cofinanziare la spesa pubblica affrontata dalle gestioni medesime nel perseguimento di finalità endo-previdenziali? La risposta a simile interrogativo non sovviene nemmeno esaminando l'ulteriore giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 8 giugno 2000, n. 178) evocata nella sentenza in commento, scarsamente significativa in quanto si riferisce ad un contributo di solidarietà imposto ai datori di lavoro come contributo previdenziale in senso lato – cui, abbiamo ricordato, la Corte, a dispetto di dottrina prevalente e giurisprudenza di legittimità, nega natura tributaria – che trovava giustificazione «quale “contropartita” dell'esclusione dei finanziamenti alla previdenza complementare dalla base imponibile per la determinazione dei contributi previdenziali». È evidente la differenza con la fattispecie in considerazione, in cui l'imposizione non attinge nessuno dei soggetti ordinariamente chiamati alla contribuzione previdenziale né trova giustificazione in contropartite di sorta. Nel richiamare l'ordinanza n. 22/2003, la sentenza in commento ha sostenuto che la trattenuta sui trattamenti pensionistici più elevati non contrasta con gli artt. 3 e 53 Cost. «in quanto volta a realizzare un circuito di solidarietà interno al sistema previdenziale». La motivazione si esaurisce nel richiamo al precedente, la cui lettura, a sua volta, non offre ulteriori chiarimenti. Sembra, pertanto, che la Corte abbia inteso affermare che la misura sfugge ai principi di uguaglianza e di capacità contributiva – il secondo «espressione particolare del primo» in materia tributaria (Corte cost., 28 maggio 2014, n. 142) – e si fonda su quello di solidarietà. Così argomentando, tuttavia, si propone una visione dicotomica dei principi in questione, che separa nettamente gli uni dall'altro e li colloca in rapporto di autonomia (se non di antitesi). Tale ottica non pare coerente con gli orientamenti rinvenibili nella stessa giurisprudenza costituzionale.
Alla già ricordata incompatibilità con l'elaborazione pretoria in ordine agli elementi identificativi del tributo – difformità inevitabile se si assume che un prelievo che li integra non è suscettibile di scrutinio alla stregua dei parametri che ne garantiscono la compatibilità con la Costituzione – si aggiunge il contrasto con quegli arresti giurisprudenziali che ravvisano nel principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost. anche e proprio una specificazione del principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost. Il dovere di concorrere alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva è infatti il principale dei doveri inderogabili di solidarietà (Corte Cost., 18 febbraio 1992, n. 51), la quale trova terreno d'elezione specificamente nell'ambito tributario in ragione dell'universalità dell'intervento correlato al presupposto impositivo (Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 223) e colà, dunque, la sua più autentica dimensione. D'altra parte, a riprova dell'intima correlazione tra i principi di cui all'art. 53 Cost. e quelli di uguaglianza e solidarietà, la giurisprudenza costituzionale ritiene che un indefettibile raccordo con la capacità contributiva in un quadro di sistema informato a criteri di progressività «si collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione» (di recente, Corte cost., 30 aprile 2015, n. 70).
Scindendola dai principi di uguaglianza e di capacità contributiva, la Corte costituzionale finisce per validare una solidarietà “a spicchi”, il cui onere viene addossato ad una sola categoria di soggetti, arbitrariamente identificata, lasciandone indenni tutti coloro che, nonostante siano parimenti capaci di sopportarlo, non ne facciano parte.
Tale conclusione non risulta smentita dal rilievo che, per il medesimo triennio 2014-2016, l'art. 1, comma 590, della Legge n. 147/2013, impone un «contributo di solidarietà» del 3% sui redditi eccedenti i 300.000 euro lordi. A parte l'evidente diversità di soglia e di impatto di tale ritenuta, a dispetto dell'identico nomen iuris essa non costituisce una prestazione patrimoniale imposta per legge non fiscale, bensì un vero e proprio prelievo tributario – trattandosi, secondo quanto sostenuto dalla stessa Corte (Corte Cost., 14 gennaio 2016, n. 3) solo pochi mesi prima della sentenza in commento, di una temporanea sovraimposta assisa sul reddito imponibile IRPEF – onde la sua riconducibilità, quantomeno, ad una diversa solidarietà.
In questo modo, accanto a (o, se si vuole, al posto di) una solidarietà “a spicchi” si accredita una solidarietà “a livelli diversi di intensità”: quella – particolarmente intensa («forte», secondo la sentenza in commento) – a cui sono chiamati, in esecuzione di una prestazione patrimoniale non tributaria, i titolari di redditi IRPEF di fonte pensionistica e quella – meno intensa – a cui sono tenuti, in virtù di una sovraimposta, i titolari di redditi IRPEF di altra origine. Corrispondentemente, i titolari di redditi IRPEF più elevati si distinguono in pensionati (secondo la stampa – si veda L'Irpef? La paga un autonomo su tre. Dai pensionati 58 miliardi di gettito, in www.corriere.it del 30 luglio 2016 – il gettito della dichiarazione dei redditi 2015 ammonterebbe a 167 miliardi di euro versati, di cui 58,581 miliardi deriverebbe dai pensionati (da pensioni e da altre rendite o entrate), per una percentuale pari al 35% del totale) “solidali solidali” – obbligati a farsi specifico carico, in crescendo, dei lavoratori cosiddetti “esodati”, del puntellamento del sistema previdenziale in crisi e, financo, del destino pensionistico delle generazioni future – e contribuenti meramente “solidali” – più genericamente tenuti a «concorrere alle spese pubbliche» – ove il reddito IRPEF non abbia fonte pensionistica.
Nell'ottica del legislatore, peraltro, non si tratterebbe di categorie ermetiche, alla luce del secondo alinea del citato comma 590, alla stregua del quale, ai fini della verifica del superamento del limite di 300.000 euro, rilevano anche i trattamenti pensionistici di cui al comma 486, fermo restando che su tali trattamenti il contributo di solidarietà del 3% non è dovuto. Cosicché la norma implica che, nel caso in cui un unico soggetto cumuli reddito pensionistico con altro reddito IRPEF, ove il primo ammonti a 300.000 euro, a tale soglia si arresti il livello di solidarietà più intensa cui fin lì, quale pensionato, è stato obbligato e cambi livrea, dismettendo quella “solidale solidale” – alla quale si correla l'onerosa responsabilità di contribuire a sovvenire alle esigenze finanziarie connesse al problema degli esodati e della crisi del sistema previdenziale, anche in prospettiva intergenerazionale – ed indossando quella di contribuente soltanto “solidale”, ben più leggera, sebbene goda di maggiori entrate. In conclusione
Per effetto del citato comma 486 – in uno con il successivo comma 487, che ha esteso agli organi costituzionali, alle Regioni ed alle Province autonome i «princìpi di cui al comma 486» – sono stati colpiti approssimativamente 45.000 pensionati, circa 35.000 dei quali collocati nel primo scaglione progressivo, per un totale trattenuto compreso tra i 320 ed i 330 milioni di euro – a fronte di una spesa pensionistica di oltre 277 miliardi di euro – con un prelievo medio pro-capite annuo superiore ai 7.000 euro (i dati, relativi all'anno 2014, sono tratti dal Casellario centrale dei pensionati, a cui il medesimo INPS deve far riferimento, ai sensi del comma 486, per l'effettuazione della trattenuta).
Al di là di ogni considerazione giuridica, sembra francamente evidente, alla luce delle cifre, come, da un lato, il provento complessivo del contributo di solidarietà in questione non possa che risultare insoddisfacente rispetto alle esigenze solidaristiche cui la norma ed, ancor di più, la Corte costituzionale, l'hanno inteso correlare e, dall'altro, come esso abbia viceversa un impatto significativo sul singolo pensionato, soprattutto, per numero, su quelli appartenenti allo scaglione progressivo più basso. Le perplessità aumentano ove si tenga presente che il risultato finanziario globale sarebbe stato ben superiore se a far fronte alle esigenze solidaristiche identificate dalla norma e dalla Corte fosse stata chiamata la generalità dei titolari di redditi oltre una certa soglia piuttosto che una sparuta minoranza, scelta che al contempo, incrementando la platea dei soggetti attinti dalla misura, avrebbe consentito di contenere l'incidenza su ciascuno di essi.
Diversamente, l'opzione del legislatore – certo meno impopolare, ma anche di gran lunga meno efficace di un generalizzato aumento della pressione fiscale – ha finito per colpire solo alcuni, peraltro i più deboli. E non inganni la circostanza che si tratti dei titolari dei trattamenti di quiescenza più elevati. Il pensionato, infatti, è ontologicamente debole per espressa affermazione della Corte, secondo la quale «il diritto alla pensione costituisce una situazione soggettiva di natura patrimoniale, imprescrittibile, assistita da speciali garanzie di certezza e stabilità e da una particolare tutela da parte dell'ordinamento (sentenza n. 116 del 2013), anche in ragione della condizione di oggettiva debolezza in cui il titolare viene a trovarsi, sia nell'ambito del rapporto obbligatorio che si instaura con l'amministrazione sia nella particolare fase della vita in cui l'uscita dall'attività lavorativa e l'età comportano un difficile adattamento al nuovo stato» (Corte cost., 16 luglio 2014, n. 208). La condizione di quiescenza, infatti, presenta scarsissimi margini di flessibilità per evidenti ragioni giuridiche ed anagrafiche combinate con il fisiologico affidamento che si ingenera nel pensionato in ordine alla stabilità della propria situazione, su cui si innestano scelte di vita spesso irreversibili. Di qui la marcata necessità di non alterare il contesto in cui esse sono maturate, pena una potenziale incidenza sulla sua vita e su quella dei suoi familiari oltre la soglia della tollerabilità.
È questa la ragione per cui ci si augura che stratagemmi mimetici come quello escogitato dall'art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013 non sortiscano più effetto ingannatorio. Anche se, si sa, la natura è spietata, soprattutto con i più deboli. Riferimenti bibliografici
N. M. Condemi, L'incidenza dell'errore di diritto sul provvedimento pensionistico definitivo (alla luce della sentenza della Corte costituzionale 16 luglio 2014, n. 208), in Riv. C. conti 2014; F. d'Ayala Valva, Il tributo previdenziale, in Riv. dir. trib. 2014 e La natura tributaria del contributo previdenziale può influenzare la giurisdizione?, in Riv. dir. sic. soc. 2014; M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2014; P. Puri, Destinazione previdenziale e prelievo tributario, Milano, 2005. Bussole di inquadramento |