Reati tributari e risarcimento danni all'immagine

Saverio Capolupo
18 Settembre 2017

“Il danno all'immagine è configurabile anche con riferimento ai reati tributari. È da escludere, però, che qualsiasi illecito penale determini un danno all'immagine all'Agenzia delle Entrate.La risarcibilità del danno non patrimoniale va comunque declinata nelle sue diverse manifestazioni e, soprattutto, non può mutuare del tutto i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di responsabilità dei funzionari pubblici, sia essa contabile che penale. Ai fini della liquidazione è da escludere l'utilizzo del criterio legislativo fissato in materia di responsabilità contabile in mancanza di una espressa previsione normativa. Essa è affidata, per contro, alla valutazione del giudice e va determinata, di volta in volta, in relazione alle caratteristiche delle singole fattispecie”.
Il danno non patrimoniale

L'art. 2059 c.c. dispone che “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

Senonché, l'evoluzione della giurisprudenza ha ampliato di molto la portata della previsione giuridica, grazie al contributo anche di autorevole dottrina, tanto da configurare una pluralità di ipotesi di danni morali risarcibili.

Sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. affinché il danno non patrimoniale possa essere risarcito devono ricorrere tre condizioni: il fatto illecito deve essere astrattamente configurabile come reato, ricorre una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro non patrimoniale anche al di fuori di un'ipotesi di reato; il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona (cfr. Cass. civ, sez. un. 11 novembre 2008, n. 26972).

In realtà, la norma civilistica disciplina una categoria unitaria ed omogenea di danno non patrimoniale all'interno della quale le distinzioni tradizionali (perdita del apporto parentale, danno esistenziale, danno alla vita relazione, danno estetico, danno biologico, ragionevole durata del processo, ecc.) sono utilizzate per indicare in modo sintetico quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame ai fini della liquidazione autonoma disciplina di illecito limitandosi, per contro, a regolamentare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c. (condotta illecita, ingiusta lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento, sussistenza del nesso causale, concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso).

Parallelamente alla disposizione civilistica, l'art. 185 c.p. dispone che “ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale e non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma di legge, debbono rispondere per il fatto di lui”.

Per quanto interessa in questa sede, è importante, da un lato, verificare il rapporto che intercorre tra le due richiamate norme giuridiche; dall'altro la individuazione della legittimazione attiva degli enti ed associazioni.

Relativamente al primo aspetto, la giurisprudenza, da tempo, ritiene che l'evoluzione del giudizio penale, anche in caso di proscioglimento, non pregiudica gli interessi del danneggiato tanto che il giudice civile, ove adito per il risarcimento del danno, conserva piena ed autonoma facoltà non solo per la ricostruzione dei fatti ma anche per accertare, agli effetti dell'art. 2509 c.c., se in essi ricorrano gli elementi costitutivi del reato (cfr. Cass. civ., 21 aprile 1979, n. 2243; 21 novembre 2000, n. 1522).

Ne deriva che il danno contemplato dall'art. 185 c.p., definito "morale" in senso stretto o danno morale soggettivo, riguarda ed è strettamente collegato alla commissione di un reato e prescinde dal carattere patrimoniale degli effetti, ma è volto a risarcire la pena arrecata dal soggetto danneggiato dalla commissione del reato ed è indicato, nel lessico di dottrina e giurisprudenza, come pretium o pecunia doloris; diversamente, il pregiudizio arrecato a beni diversi, che abbiano natura patrimoniale o immateriale, conserva il proprio carattere patrimoniale, nel senso che tale pregiudizio si misura in termini di valore o valori economici necessari per il loro ripristino.

Pertanto, accanto a quello che viene comunemente indicato come danno in senso stretto, rientrante nella giurisdizione del giudice penale e rimesso, quanto alla sua esistenza, alla relativa cognizione, esiste, all'opposto, il danno a beni, che possono essere "materiali" o "immateriali", purché riconducibili ad interessi giuridicamente protetti, il quale determina comunque un pregiudizio di carattere patrimoniale ed è suscettibile di corrispondente valutazione (Cass. civ., ss.uu., 25 giugno 1997, n. 5668; 2 aprile 1993, n. 3970).

La legittimazione attiva degli enti

Con specifico riferimento ai reati tributari, recentemente la giurisprudenza ha riconosciuto all'Agenzia delle Entrate la legittimazione ad essere risarcita anche con riferimento al danno all'immagine (Cass. civ., sez. III, 6 giugno 2017, n. 38932).

La pronuncia, certamente innovativa ed importante, esige, tuttavia, una preventiva verifica della sussistenza dei presupposti con riferimento agli enti pubblici, categorie molto ampia (cfr. L. 20 marzo 1975, n. 70; L. 31 dicembre 2009, n. 196).

Il problema, in verità, si è posto in passato per le amministrazioni pubbliche con riferimento ai reati commessi dai dipendenti (in particolare, per i reati di abuso, d'ufficio, peculato, corruzione, concussione, ecc.).

La giurisprudenza, al riguardo, è pacifica nel ritenere sussistenti i presupposti per il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione degli interessi di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (Cass. civ., ss.uu., 21 aprile 2010, n. 15208), orientamento confermato successivamente dalle sezioni unite penali (Cass. sez. un. 23 giugno 2010, n. 15209) anche in esito al danno all'immagine.

Né, al riguardo, vale obiettare che, in passato, soprattutto la giurisprudenza di legittimità, ha tendenzialmente ritenuto non configurabile il danno morale per la pubblica amministrazione o enti pubblici e che, nei casi in cui si è registrato invece l'orientamento opposto, il danno morale era stato in realtà riconosciuto solo in forza di comportamenti illeciti di funzionari dell'amministrazione statale o di altri enti pubblici.

L'orientamento negativo, infatti, prescindeva, in realtà, dalla esistenza di un rapporto organico tra ente pubblico ed autore del reato basandosi, per contro, sulla considerazione di fondo che il danno morale, in quanto correlabile ad una sofferenza fisica o psichica, sia più propriamente riferibile al soggetto privato danneggiato e non ad un ente della pubblica amministrazione (Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2001, n. 32957).

Fermo restando quindi che, come principio generale, la risarcibilità del danno non patrimoniale è sempre concepibile anche a favore di un ente pubblico (Cass. civ., sez. VI, 7 maggio 2004, n. 21677), affinché sussista una legittimazione attiva è necessario che gli enti pubblici e le associazioni abbiano ricevuto dal reato un danno ad un interesse proprio. Tale interesse è stato riconosciuto anche agli enti di fatto, privi di personalità giuridica, qualora agiscano iure proprio in qualità di soggetti danneggiati dal reato (Cass. civ., sez. IV, 11 giugno 2010, n. 38991).

Va da sé che la sussistenza dell'interesse dell'ente al risarcimento non patrimoniale è affidato all'apprezzamento del giudice di merito cui compete, altresì, la verifica dell'eventuale lesione cagionata dal fatto illecito ad un interesse tutelato in via diretta ed immediata da una norma giuridica.

In relazione ad uno dei reati disciplinati dal D.Lgs. 10 luglio 2000, n. 74 ovvero da altre leggi di carattere tributario, l'Agenzia delle Entrate, in quanto soggetto titolare per l'accertamento dell'obbligazione tributaria rientra certamente tra gli enti pubblici ed è, quindi, legittimata ad essere risarcita per danni non patrimoniali ed, in particolare, per il danno all'immagine.

In verità, sul piano generale, la giurisprudenza, in passato, ha affrontato lo specifico tema soprattutto con riferimento all'amministrazione doganale fornendo una risposta parimenti positiva sia prima che successivamente alla costituzione dell'Agenzia delle dogane. Ovviamente, le medesime conclusioni possono valere per l'Agenzia delle entrate che, com'è noto, è stata istituita con l'art. 61 del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 ed ha personalità giuridica di diritto pubblico. Ad essa, invero, sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi ed è competente, in particolare, a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria.

L'onere della prova

Il danno è la lesione arrecata ad un interesse giuridicamente protetto "e, quindi, ad un bene cui l'ordinamento abbia conferito una tutela", rispetto al quale si pone il risarcimento con la sua funzione di ripristino e riparazione volta ad eliminare gli effetti dell'azione lesiva e a rimuovere le conseguenze di ordine patrimoniale che ne siano derivate: di qui, l'autonomia dei due ulteriori tipi di danno, quale lesione di beni immateriali o patrimoniali che, però, data la natura patrimoniale del pregiudizio, rientrano nella giurisdizione del giudice naturale, non soffrendo del profilo eccezionale del regime valevole per il danno morale soggettivo o pecunia doloris.

Tanto precisato, il danno all'immagine da risarcire attiene specificamente al pregiudizio arrecato all'immagine di un soggetto privato o pubblico titolare a richiederlo in dipendenza e in relazione con la sua attività criminosa, ed è diverso da quello meramente morale che, di norma, costituisce oggetto della pronuncia del giudice penale, senza che si creino interferenze tra diverse giurisdizioni o che si verifichino sovrapposizioni di risarcimento.

Va da sé che il danno non patrimoniale, in quanto lesione di interessi non economici, ovvero di interessi che, alla stregua della coscienza sociale, non sono suscettibili di valutazione economica, pone un duplice problema. Il primo riguarda la prova del danno subito; il secondo concerne la sua quantificazione.

Sul piano generale sia la Corte di Cassazione che il Consiglio di Stato concordano sulla oggettiva impossibilità di ritenere dimostrata, anche in via presuntiva, la consistenza del danno la quale risulta, altresì, indimostrata per quanto attiene al preteso nocumento all'immagine. Ne consegue che spetta al soggetto legittimato alla richiesta di risarcimento del danno l'onere di offrire la prova puntuale del pregiudizio che asserisce di aver subito in termini di immagine.

Invero, nell'azione di responsabilità per danni in sede amministrativa il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento, senza che tale onere probatorio possa venire supplito dalla valutazione equitativa del giudice, ammessa solo laddove la prova del danno sia impossibile o estremamente difficoltosa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2184).

La giurisprudenza riconosce che, nel caso di lesione del diritto all'immagine è risarcibile oltre all'eventuale danno patrimoniale (se verificatosi e se dimostrato) il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali il danneggiato abbia a interagire.

Il danno non patrimoniale, pertanto, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, non è mai in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento sia nella sua sussistenza che nel nesso eziologico, (Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1225, sez. VI, 24 settembre 2013, n. 21865; Cons. Stato, VI, 22 novembre 2010, n. 8123).

In sostanza, non si può mai prescindere dalla prova del danno subito, neanche nelle ipotesi di lesione di diritti della personalità protetti dalla Costituzione. Ovviamente, laddove il danno sussiste ed è provato, è oggetto di autonoma rilevanza patrimoniale, suscettibile di riparazione anche per equivalente (Cons. di Stato, sez. III, 22 dicembre 2016, n. 4615) e la prova del danno può essere data con ricorso anche al notorio e tramite presunzioni.

La liquidazione del danno

Quanto alla liquidazione del danno la procedura appare estremamente difficoltosa.

D'altra parte, proprio su tale versante si registrano le maggiori difficoltà e divergenze tra le diverse giurisdizioni (civile, penale, amministrativa) a causa anche della mancata indicazione da parte del legislatore di un criterio univoco, ancorché di massima.

Invero, trattandosi di un danno non surrogabile patrimonialmente e non agevolmente quantificabile, il suo ammontare può essere stimato in via equitativa, riconoscendo una somma pari ad una percentuale variamente determinata a seconda del comportamento che lo ha originato (importo globale dell'appalto, somma già liquidata a titolo di lucro cessante, danno curriculare, importo imposta evasa, ecc. (Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; 15 settembre 2015, n. 4283).

In merito va anche ricordata l'evoluzione della giurisprudenza che, ad esempio, in relazione ai profili di danno che attengono alla perdita delle utilità ritraibili dall'affidamento del contratto, ha da tempo abbandonato il tradizionale criterio forfettario e presuntivo. Si tratta, infatti, di un criterio inaffidabile, che da un lato espone al rischio concreto di un indebito arricchimento del danneggiato e, dall'altro, non risponde ai principi generali riguardanti la prova del danno risarcibile positivizzati, nel comparto amministrativo, dagli artt. 30, 40 e 124, comma 1, del codice del procedimento amministrativo, che onerano il danneggiato di fornire la prova dell'an e del quantum del danno sofferto (Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2016, n. 625; sez. III, 10 aprile 2015, n. 1839; sez. IV, 27 aprile 2015, n. 2090).

I criteri seguiti per la liquidazione del danno all'immagine non sono, pertanto, omogenei. Ad esempio, in caso di reati contro la pubblica amministrazione la Corte dei Conti ha ritenuto non congruo il criterio di determinarlo in un multiplo del prezzo del reato poiché il danno all'immagine comporta una valutazione dipendente da una situazione di specie, variabile da caso a caso.

In particolare, "con riferimento alle ipotesi di danni ai beni immateriali dell'immagine, del prestigio, decoro, ecc. della Pubblica Amministrazione, nel caso di dazioni illecite di danaro (c.d. tangenti), appaiono insufficienti i criteri automatici di liquidazione del danno in una entità pari all'ammontare delle dazioni, senza che il giudice dia conto dei motivi che lo hanno spinto ad individuare nella stessa misura il danno risarcibile dal convenuto" (Corte dei Conti, sez. II, 12 settembre 2002, n. 289).

In materia di responsabilità contabile il legislatore ha risolto definitivamente il problema avendo dettato un criterio ben preciso. Infatti, l'art. 1, comma 1-sexies della Legge 14 gennaio 1994, n. 20 dispone che “nel giudizio di responsabilità, l'entità del danno all'immagine della Pubblica Amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.

Trattandosi di norma speciale che si riferisce esclusivamente all'azione per il risarcimento del danno all'immagine, esercitata dalle procure della Corte dei Conti, recato da pubblici dipendenti all'ente pubblico di appartenenza non si estende, in via generale, al risarcimento del danno non patrimoniale liquidabile dal giudice a seguito di una condanna per un illecito penale.

Ne consegue che per i reati tributari trova applicazione il principio generale della risarcibilità del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c. ed il principio della risarcibilità del danno all'immagine subito da enti preposti al controllo del corretto esercizio di attività (economiche e non) a seguito della commissione di reati connessi all'espletamento di tali attività (Cass. civ., sez. III, 1° ottobre 2002, n. 35868).

Il problema è stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto il danno patito dall'Agenzia delle Entrate non coincidente con la mera misura della imposta evasa essendo comprensivo anche del “danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell'attività di accertamento tributario” (Cass. pen., sez. feriale, 29 agosto 2013, n. 35729).

Il giudice penale, – ma analogo principio vale per la giurisdizione civile – ai fini della quantificazione del danno all'immagine deve, pertanto, necessariamente considerare le situazioni di volta in volta poste alla sua valutazione ed, in particolare, sia la tipologia del reato commesso sia le relative modalità di consumazione.

Rilevano, ad esempio, la complessità dell'operazione di occultamento, il meccanismo approntato per l'evasione, la insidiosità dello schema ideato, il ricorso ai c.d. paradisi fiscali, l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, le intestazioni fittizie, ecc.

In sostanza, pare fondato affermare che, laddove riconosciuta, la liquidazione del danno non patrimoniale vada effettuata considerando differenti parametri, a priori non definibili in modo tassativo, da individuare in relazione ai singoli casi.

Conclusioni

In conclusione, il danno all'immagine è configurabile anche con riferimento ai reati tributari, oltre che per gli illeciti doganali. Ovviamente, è da escludere che qualsiasi reato determini un danno all'immagine all'Agenzia delle Entrate. Se, ad esempio, nessun dubbio esiste per le ipotesi di frodi (artt. 2 e 3 D.Lgs. 10 luglio 2000, n. 74), proprio per le insidiose modalità con le quali tali illeciti vengono consumati, non può affermarsi altrettanto per i reati di omesso versamento (artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater del medesimo decreto legislativo) atteso che il contribuente ha dichiarato il suo debito nei confronti dell'amministrazione.

La risarcibilità del danno non patrimoniale va comunque declinata nelle sue diverse manifestazioni e, soprattutto, non può mutuare del tutto neanche i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di responsabilità dei funzionari pubblici, sia essa contabile che penale.

Invero, le posizioni dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono connotate da vincoli giuridici che trovano la loro massima espressione nel giuramento di fedeltà alle Istituzioni. Il medesimo vincolo difetta in capo ai contribuenti cui si può e si deve chiedere il rispetto dell'obbligo di contribuzione ma la cui inosservanza non può essere equiparata alla violazione di giuramento di fedeltà.

Si condivide, pertanto, l'orientamento della giurisprudenza a condizione, però, che il principio non venga applicato in modo indiscriminato. È pur vero che “in tema di liquidazione del danno non patrimoniale la valutazione del giudice, è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice ed è censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione e si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria” (Cass. civ., sez. III, n. 38932 cit.), ma è anche vero che il tutto deve essere subordinato alla preventiva dimostrazione di un danno effettivamente sofferto da parte dell'Agenzia e non ipotetico.

È incontestabile, allora che non tutti gli illeciti penali tributari determinano il danno all'immagine nonché il divieto di utilizzare la leva penale per conseguire obiettivi diversi mascherati dal ruolo della norma volto a tutelare i valori sociali di rilevanza pubblica.

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