RecessoFonte: Cod. Civ. Articolo 1671
25 Marzo 2020
Inquadramento
Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione
Il recesso è il diritto potestativo mediante il quale uno dei contraenti determina, in via unilaterale, la cessazione ex nunc degli effetti negoziali attraverso la semplice manifestazione, all'altra parte, della volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale. Nell'ambito dei contratti pubblici – ossia dei contratti nei quali una delle parti contrattuali è qualificabile come “soggetto pubblico” – la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale in ogni tempo è stata storicamente riconosciuta in via legislativa innanzitutto alla parte pubblica nell'ambito del settore specifico degli appalti di opere pubbliche dall'art. 345, l. n. 2248 del 1865, all. F; disposizione che ha poi assunto nel tempo una dimensione centrale tanto da essere stata in seguito ripresa dall'art. 122, d.P.R. n. 554 del 1999 e, senza alcuna modificazione, dalla previgente formulazione dell'art. 134 c.c.p. (d.lgs. n. 163 del 2006); nonché, infine, generalizzata, con significativi elementi di novità, ad ogni settore (lavori, servizi e forniture) dall'art. 109 del nuovo codice dei contratti pubblici di appalto e concessione, approvato con d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (pubblicato nella G.U. n. 91 del 19 aprile 2016). Solo in un secondo momento, infatti, tale facoltà è stata riconosciuta anche in favore del contraente privato sia attraverso la previsione a carattere generale (rectius, bilaterale) di cui all'art. 21-sexies, l. 7 agosto 1990 n. 241; sia, infine, mediante l'introduzione di talune ipotesi “speciali”, tra le quali, ad esempio, quelle previste agli artt. 48, commi 17 s.s., e 182, comma 3, del nuovo c.c.p. (ex artt. 37, comma 18, e 143, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006). Nella prospettiva della pubblica amministrazione, tuttavia, l'introduzione “postuma” (rispetto al citato art. 345) della norma generale di cui al suddetto art. 21-sexies non deve ritenersi “superflua” – come viceversa ritenuto da una minoritaria dottrina – atteso che per effetto della citata ultima disposizione l'istituto del recesso è stato svincolato da ogni obbligatoria valutazione sulla perdurante corrispondenza, o meno, dell'assetto negoziale cristallizzato all'interesse pubblico. Maggiormente condivisa in dottrina è infatti l'affermazione per cui «le valutazioni relative all'interesse pubblico non rientrano perciò tra i motivi legittimanti l'Amministrazione al recesso dal contratto». Le molteplici funzioni del recesso nei contratti pubblici
L'orientamento dottrinario maggioritario per cui i motivi di interesse pubblico non rilevano, in via diretta ed esterna, ai fini dell'esercizio di tale facoltà contrattale da parte della pubblica amministrazione, ma unicamente sul versante interno a quest'ultima (id est, sul piano erariale e disciplinare), è stata ripresa e sviluppata da altra parte della dottrina per la quale l'istituto può astrattamente assolvere a molteplici funzioni. In particolare, due sono le “funzionalizzazioni” elaborate con specifico riguardo all'istituto del recesso “pubblico”:
1) il recesso come “mezzo di impugnazione del contratto”, che, in quanto avente funzione meramente risolutoria, consente ad entrambe le parti di sciogliersi dal vincolo in ragione della presenza di vizi originari del contratto o di vizi sopravvenuti, atteggiandosi così a strumento parallelo a quelli, giudiziali, dell'annullamento e della risoluzione per inadempimento o per sopravvenuta onerosità giudiziali, (ipotesi nelle quali l'istituto assolve, in sostanza, ad una funzione di “difesa causale” o di autotutela privata). La materia dei contratti della pubblica amministrazione soggetti alla disciplina del c.c.p. conosce un'utilizzazione del recesso in entrambe le prospettive soggettive indicate. Infatti, un'espressa codificazione dell'ipotesi del primo tipo si ha nella fattispecie di recesso di fonte legale riconosciuta dall'art. 32 del nuovo c.c.p. (in precedenza art. 11, comma 9, secondo periodo, d.lgs. n. 163 del 2006) in favore dell'aggiudicatario per il caso di mancato esito positivo del controllo sul contratto. Alla seconda tipologia funzionale è invece da ricondurre l'ipotesi di recesso disciplinata dall'art. 182, comma 3, del nuovo c.c.p. (ex art. 143, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006), che stabilisce il diritto per la stazione appaltante di recedere dal contratto in mancanza della revisione, da parte della stazione appaltante, del piano economico finanziario, nonché in presenza di sopravvenienze legali od amministrative che alterino l'equilibrio economico finanziario degli investimenti e della connessa gestione. Si tratta, in entrambi i casi, di ipotesi di recesso previste a favore della controparte privata a fronte di sopravvenienze suscettibili di alterare il sinallagma contrattuale. Una simmetrica ipotesi di recesso con funzione risolutoria prevista, invece, in favore del contraente pubblico per sopravvenienze imputabili alla parte privata, è quella disciplinata dall'art. 48, commi 17 ss., del nuovo c.c.p. (in precedenza art. 37, comma 18, d.lgs. n. 163 del 2006 per l'ipotesi di fallimento o morte del mandatario di un raggruppamento temporaneo, laddove in luogo del soggetto fallito deceduto non si sia costituito mandatario altro soggetto dotato dei necessari requisiti di qualificazione;
2) il recesso come “esercizio dello ius poenitendi” nei rapporti negoziali di lungo termine che, in deroga al principio generale di impegnatività del contratto, è previsto in favore del committente pubblico dall'art. 109 del nuovo c.c.p. (in precedenza art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006). L'irrilevanza causale (ovviamente solo esterna) dell'interesse pubblico importa, in via generale, la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario in base al criterio generale di riparto. Ciò sia perché si tratta di esercizio di un diritto (potestativo) di natura contrattuale nell'ambito di un rapporto paritetico, sia perché non è stata coerentemente prevista, nel contempo, alcuna ipotesi di giurisdizione esclusiva dalla legge (quelle previste dall'art. 133 cod. proc. amm., infatti, sono logicamente limitate alle controversie inerenti la fase di affidamento del contratto). Scelta, quest'ultima, coerente sia con la natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte, sia con il tipo di controllo giurisdizionale richiesto: risultando irrilevanti, dal punto civilistico, le valutazioni in ordine alla congruità o all'esistenza di una motivazione, la legittimità della scelta di recedere va infatti inevitabilmente scrutinata in via giudiziale non già secondo la prospettiva dell'eccesso di potere o del vizio di motivazione, ma nell'ottica del sindacato sull'abuso di diritto. Analisi comparativa tra il regime del recesso previsto dal codice dei contratti pubblici e la disciplina del committente privato di cui all'art. 1671 c.c.
Nell'ambito della disciplina comune, l'art. 1671 c.c. riconosce in favore del committente il diritto potestativo di recedere dal contratto di appalto in ogni tempo e per qualsiasi ragione (ad nutum), anche ad esecuzione già iniziata, a condizione però che l'appaltatore sia tenuto indenne delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno. Non vi è difatti alcun diritto dell'appaltatore a proseguire l'esecuzione dell'opera, ma solo ad ottenere un indennizzo. Tale regime, inoltre, in quanto previsto da norma non inderogabile, può essere oggetto di diversa regolamentazione tra le parti interessate, potendo queste ultime fissare in pattizia – stante il principio generale dell'autonomia contrattuale – gli effetti patrimoniali del recesso (ad esempio, liquidando anticipatamente forfettariamente le spese, i lavori eseguiti ed il mancato guadagno dell'appaltatore). Possibilità quest'ultima che, viceversa, è esclusa dal regime dettato dall'art. 109 del nuovo c.c.p. (in precedenza art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006) il quale, come norma inderogabile, tipizza il quantum dovuto dall'amministrazione committente (pari al pagamento, da un lato, dei lavori o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali; dall'altro, dell'importo corrispondente all'utile – relativo alle opere ancora da eseguire ovvero al valore attuale della parte del servizio ancora da esercitare fino alla prevista scadenza dell'affidamento – esposto dall'impresa nel procedimento ad evidenza pubblica, il quale, in ogni caso, non può eccedere il decimo dell'importo delle opere o dei servizi non eseguiti calcolato sulla differenza tra l'importo dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato del ribasso d'asta, e l'ammontare netto dei lavori, servizi o forniture eseguiti), che, in quanto derivante da “fatto lecito ma dannoso”, non ha funzione sanzionatoria, ma soltanto compensativa. La diversa modalità di calcolo dell'indennizzo dovuto dal committente privato rispetto a quello pubblico deriva dalla diversa ratio sottesa alle due norme: mentre infatti tra soggetti privati il recesso in corso di esecuzione costituisce facoltà eccezionale, derogatoria rispetto a quanto previsto in via generale dall'art. 1373 c.c., per cui colui che subisce l'anticipato scioglimento ha diritto ad ottenere la controprestazione promessa, depurata dalle spese non sostenute (tutelando così l'interesse dell'impresa appaltatrice ad ottenere comunque il corrispettivo pattuito), la stessa ragione non sussiste nella fattispecie degli affidamenti pubblici, ove nella determinazione del quantum influisce soprattutto la finalità di preservare l'amministrazione pubblica da richieste esorbitanti e dall'incertezza del costo dello scioglimento unilaterale. Ne è riprova che solo negli affidamenti pubblici viene agevolata la valutazione del committente di recedere mediante la imposizione a carico dell'appaltatore dell'onere di iscrivere tempestivamente nel registro di contabilità, sotto pena di decadenza, le riserve volte ad ottenere il riconoscimento dei maggiori costi eventualmente sopportati (artt. 205 e 206 del nuovo c.c.p.). Adempimento previsto non solo in funzione meramente contabile, ma anche al fine di consentire all'amministrazione appaltante, in qualunque momento, di conoscere in anticipo la convenienza e l'opportunità per l'interesse pubblico di mantenere o meno il rapporto contrattuale. Infine, sempre sul piano comparativo, emerge che mentre il committente privato può comunicare il recesso tanto per iscritto quanto oralmente - purché sia inequivoca la corrispondente volontà - senza necessità di alcun preavviso, salvo diversa pattuizione, il recesso “pubblico” viene delineato, stante il principio di trasparenza dell'agere amministrativo, come istituto a carattere formale, mediante l'imposizione, a carico della stazione appaltante pubblica, di inviare una comunicazione scritta all'appaltatore con preavviso di almeno venti giorni. Natura del recesso e riparto di giurisdizione
In via generale può dirsi ormai acquisito l'orientamento giurisprudenziale e dottrinario secondo il quale il potere di recesso della pubblica amministrazione ha natura privatistica. In tal senso depongono la dizione letterale e contenutistica dell'art. 109 del nuovo c.c.p. (in precedenza art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006, perfettamente corrispondente al potere riconosciuto all'appaltante privato dall'art. 1671 c.c.; l'inserimento della suddetta potestà nella fase dell'esecutiva del contratto, dominata dal diritto privato; e, infine, la perfetta corrispondenza, contenutistica e di efficacia, con l'analoga situazione giuridica del committente privato. Ormai superata è, infatti, la tesi di per cui l'istituto in esame costituirebbe in realtà espressione di autotutela amministrativa nell'esecuzione del contratto del pari, simmetricamente, alla revoca dell'atto di aggiudicazione adottato a monte. Il corretto inquadramento della natura dell'istituto ha, ovviamente, evidenti riflessi sia in punto di rilevanza dei motivi, sia con riferimento al profilo del riparto di giurisdizione. Infatti, mentre nella logica (maggioritaria) di diritto privato la volontà sottesa al recesso è sindacabile da parte del giudice ordinario solo attraverso la prospettiva dell'abuso del diritto, la ricostruzione in senso amministrativo, come atto di autotutela amministrativa, importa necessariamente un recupero dei motivi che lo sostengono e, di conseguenza, il riscontro di legittimità da parte del giudice amministrativo per difetto di motivazione o eccesso di potere. Invero, anche la ricostruzione del potere in questione come facoltà (rectius, diritto potestativo) di natura strettamente privatistica esclude in realtà unicamente che il fine pubblicistico, sotteso all'esercizio di ogni potere amministrativo, assuma rilevanza sul piano negoziale (esterno, ossia tra le parti contrattuali), ma non anche sul piano interno della pubblica amministrazione interessata in quanto anche nei casi di amministrazione agente iure privatorum le corrispondenti facoltà devono essere comunque improntate alla massima soddisfazione del pubblico interesse (pur non essendo le modalità di formazione della scelta caratterizzate dalla rigorosa procedimentalizzazione a tutela degli interessi secondari e dalla loro conseguente ponderazione). In sostanza, l'esercizio di un recesso contrario all'interesse pubblico assume comunque rilevanza, seppur in via esclusiva, in punto di responsabilità contabile o dirigenziale. La differenza tra revoca del provvedimento di aggiudicazione e recesso dal contratto di appalto pubblico: Cons. St., Ad. plen., 20 giugno 2014, n. 14
La distinzione tra ambito di applicazione della revoca dell'aggiudicazione e recesso dal contratto di appalto pubblico è stata oggetto di vivace dibattito in giurisprudenza, – più propriamente riferito alla previgente disposizione normativa, ma ancora valido in parte qua anche con riguardo al nuovo testo normativo – sopito solo da Cons. St., Ad. plen, 20 giugno 2014, n. 14. A seguito della proliferazione sempre più consistente di percorsi giurisprudenziali contrapposti è stata infatti posta al massimo consesso amministrativo la questione «se con il potere di revoca del provvedimento amministrativo attribuito dall'art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 nonché dalla l. n. 311 del 2004 si possa incidere anche sul contratto stipulato e come ciò si concilii con il carattere paritetico delle posizioni fondate su di esso, di cui è espressione la generalizzazione dell'istituto del recesso ex art. 21-sexies, cui si correla la previsione specifica dell'art. 134 c.c.p. (oggi art. 109 del nuovo c.c.p.)» che attribuisce all'amministrazione «il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto, con effetto economico più oneroso […] poiché non limitato alla dimensione indennitaria ma comprendente il ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere oltre al decimo delle opere non eseguite». Alla tesi in un primo momento sostenuta dal Consiglio di Stato, secondo la quale è sempre legittimo l'esercizio del potere di revoca degli atti amministrativi del procedimento ad evidenza pubblica anche a stipulazione contrattuale avvenuta (Cons. St., Sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1554; Cons. St., Sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5993; Cons. St., Sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156), facevano infatti da contraltare le argomentazioni, diametralmente opposte, sostenute dalla Suprema Corte di Cassazione, per cui tutte le vicende successive alla stipulazione del contratto danno luogo a questioni relative alla sua validità ed efficacia, anche se dovute all'esercizio di poteri pubblicistici in autotutela, essendosi ormai costituito tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici(Cass., Sez. Un., 26 giugno 2003, n. 10160; Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2008, n. 29425). Così riassunto il dibattito, Cons. St., Ad. plen., 20 giugno 2014 n. 14 ha condiviso pienamente tale ultimo orientamento interpretativo statuendo – con maggior nettezza – il principio generale per cui una volta intervenuta la stipulazione del contratto per l'affidamento dell'appalto di lavori pubblici, l'amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l'esercizio del diritto di recesso. Mentre, infatti, la fase dell'aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, quella che ha inizio con la stipulazione del contratto, e che prosegue con l'attuazione del rapporto negoziale, è retta unicamente dalle norme civilistiche avendo carattere esclusivamente privatistico. Altrimenti opinando, infatti, la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile dal momento che l'amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando in tale modo una ingiustificabile posizione privilegiata (fermo restando che la maggiore onerosità del recesso è bilanciata, nella prospettiva dell'amministrazione, dalla mancanza dell'obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale(Cons. St., Ad.plen., 20 giugno 2014 n. 14; soluzione di recente confermata da CGA, Sez. V, 17 marzo 2016, n. 69; Cons. St., Sez. V, 22 marzo 2016, n. 1174, TAR Campania, Napoli, Sez. II, 3 maggio 2016, n. 2193). In sostanza, ciò che porta alla distinzione tra l'atto di aggiudicazione e il consenso contrattuale dell'amministrazione e, quindi, ad escludere che quest'ultimo possa essere ritirato in via unilaterale mediante il riesame in autotutela dell'aggiudicazione la revoca in autotutela dell'aggiudicazione, è la circostanza che essendo detto consenso contrattuale ormai confluito, con quello della parte privata, nell'accordo di cui all'art. 1325, n. 1), c.c., il primo può essere più oggetto di ripensamento unicamente mediante il c.d. mutuo dissenso, di cui all'art. 1372 c.c., ovvero attraverso l'esercizio del recesso, che infatti incide a sua volta non già sull'atto, ma sul rapporto. Ciò nonostante, anche la regola generale per cui dopo la stipula del contratto la pubblica amministrazione può sciogliersi unilateralmente dal vincolo unicamente mediante l'istituto del recesso subisce, a sua volta, un'eccezione: la revoca dell'atto amministrativo deve invero essere ammessa nelle ipotesi di concessioni, ove infatti il contratto ha natura accessiva al provvedimento concessorio e ne dipende direttamente (tant'è che in tal caso si verte in ipotesi di giurisdizione esclusiva: Cass., Sez. Un., ord. 2 aprile 2007, n. 8094).
Per completezza occorre infine dare conto di un recente orientamento “mediano” di cui Cons. St., Sez. III, 22 marzo 2017, n. 1310 secondo cui «anche se è vero che l'Amministrazione non può procedere alla revoca del contratto, di cui all'art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990, dopo la stipula del contratto stesso, sussiste tuttavia la possibilità dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione definitiva anche dopo detta stipula, così come era previsto dall'art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, ora abrogato. Un simile potere di annullamento in autotutela, nel preminente interesse pubblico al ripristino della legalità dell'azione amministrativa anzitutto da parte della stessa Amministrazione procedente, deve quindi riconoscersi a questa anche dopo l'aggiudicazione della gara e la stipulazione del contratto, con conseguente inefficacia di quest'ultimo, e trova ora un solido fondamento normativo, dopo le recenti riforme della l. n. 124 del 2015, anche nella previsione dell'art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, laddove esso si riferisce anche ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici, che non possono non ritenersi comprensivi anche dell'affidamento di una pubblica commessa» (Alla stregua del suddetto principio nelle specie è stata ritenuta legittima la sentenza impugnata laddove aveva osservato che al venir meno con effetti ex nunc del provvedimento di affidamento del servizio conseguente agli evidenziati vizi genetici – nello specifico, mancata previsione nella lex specialis di un requisito partecipativo viceversa necessario - senz'altro consegue la caducazione del contratto, in ragione del vincolo di stretta conseguenzialità funzionale che avvince tali atti).
La citata sentenza Cons. St., Ad. plen., 20 giugno 2014, n. 14, nel qualificare il recesso previsto dal previgente art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006 (argomentazione, come detto, pienamente riferibile anche al nuovo art. 109 c.p.p.) come istituto di natura privatistica e non già di autotutela autoritativa, ha altresì stabilito che nonostante la stipula del contratto rimane ferma “la speciale previsione” – di cui attualmente agli art. 84, comma 4-ter, e 92, d.lgs. n. 159 del 2011 – «in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. civ. n. 391 del 2011) ha riferito alla nozione dell'autotutela autoritativa, poiché potere del tutto alternativo a quello generale di cui alla l. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F (oggi art. 134 c.c.p.)». Si tratta, a ben vedere, di un'ipotesi qualificata solo atecnicamente dalla legge come recesso, dovendosi più logicamente ricondurre alla diversa categoria degli atti di autotutela autoritativa, in quanto afferente più propriamente alla “scelta del contraente”. Il recesso a seguito di informativa antimafia, pur avendo ad oggetto formalmente l'esercizio del potere di recesso dal contratto, è infatti più propriamente espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è sempre consentito, anche nella fase di esecuzione del contratto, stante il disposto di cui agli artt. 10 e 11, comma 2, d.P.R. n. 252 del 1998. Tant'è che in caso di recesso obbligato dal contratto connesso all'adozione della misura interdittiva antimafia è stato stabilito dal giudice amministrativo che la pubblica ammnistrazione non può disporre l'incameramento della cauzione definitiva attesa l'evidente mancanza del presupposto, espressamente richiesto dall'art. 113, d.lgs. n. 163 del 2006 (oggi art. 103, comma 2, del nuovo c.c.p.), di sussistenza di un «mancato od inesatto adempimento» contrattuale imputabile all'impresa privata (TAR Basilicata, Sez. I, 7 aprile 2016, n. 306) E non è altresì un caso che il nuovo art. 109 c.c.p. espressamente distingue (a differenza del previgente art. 134) i due citati istituti mediante l'introduzione, in apertura, di un incipit di raccordo per cui «fermo restando quanto previsto dagli art. 88, comma 4-ter, e 92, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 1159, la stazione appaltante può recedere dal contratto». In altri termini, il recesso di cui si tratta – non trovando fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione, ma essendo, viceversa, consequenziale all'informativa del Prefetto – costituisce, al di là del nomen iuris, espressione del «potere pubblicistico diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali con imprese nei cui confronti sia emersi sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata», con la conseguenza, in ultimo, che «deve pertanto essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo» (Cass., Sez. Un., 29 agosto 2008, n. 21928). Tuttavia, non può non evidenziarsi che pur essendo chiara la distinzione, in punto di natura, tra recesso dal contratto di appalto e “recesso” per informativa antimafia, quest'ultima si fonda, in ultimo, sulle diverse ragioni causali che sono poste alla base dell'atto giuridico unilaterale di scioglimento (sia esso privatistico o autoritativo), con la conseguenza, da un lato, che l'assioma per cui ai fini del recesso di cui al codice dei contratti non rilevano i motivi di interesse pubblico non ha in realtà valore in senso assoluto, risultando questi ultimi comunque decisivi quantomeno per perimetrare esternamente l'ambito di applicazione della citata norma; dall'altro, che la regola del riparto di giurisdizione va applicata tenendo conto del potere giudiziale di qualificazione della natura degli atti impugnati, e non già del nomen iuris attribuito dall'autorità emanante o dalla prospettazione di parte.
Antecedentemente all'introduzione del nuovo art. 109, stante l'assenza di qualsiasi riferimento espresso da parte del previgente art. 134, ci si chiedeva se l'istituto del recesso “pubblico” fosse utilizzabile anche in relazione agli appalti di servizi e forniture pubblici? Mentre nulla questio, infatti, in merito alla fattispecie settoriale di cui all'art. 1, comma 13, d.l. 6 luglio 2012 , n. 95 (conv. con modifiche in l. 7 agosto 2012 n. 135) – che prevede il diritto delle stazioni appaltanti di recedere dai contratti di servizi e forniture nel caso in cui gli importi dei corrispettivi siano deteriori rispetto ai parametri delle convenzioni stipulate da Consip s.p.a. – il citato interrogativo si poneva, viceversa, pienamente atteso che l'art. 134, inserito nell'ambito del Titolo III recante “Disposizioni ulteriori per i contratti relativi ai lavori pubblici”, seguiva l'art. 126 c.c.p. per il quale «le disposizioni del presente capo si applicano agli appalti pubblici di lavori quale che ne sia l'importo». La questione può ritenersi ormai definitivamente superata tenuto conto che il nuovo art. 109 c.c.p. ha espressamente previsto l'applicabilità dell'istituto in questione anche agli affidamenti di servizi e forniture.
Casistica: l'art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006 come criterio generale di quantificazione del risarcimento del danno
Il criterio dell'art. 345, l. n. 2248 del 1865, all. F, nonché quello successivo del 10% dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato dal ribasso offerto dalla ricorrente, di cui all'art. 122, d.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, in tema di recesso unilaterale della p.a. dal contratto di appalto di opere pubbliche – successivamente ulteriormente recepito dall'art. 134, d.lgs. n. 163 del 2006 – deve essere inteso come un criterio generale di quantificazione del margine di profitto dell'appaltatore nei contratti con l'Amministrazione e viene a concretizzare una sorta di forfetizzazione legale del danno nella sua misura massima, operante quando il pregiudizio non possa essere precisato e provato nel suo preciso ammontare (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 maggio 2011, n. 3776).
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