Il danno da abuso del termine nella P.A.: qualificazione e criteri risarcitori

16 Febbraio 2015

In materia di pubblico impiego, la reiterazione o la costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione delle norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori non determina la costituzione o la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 36, comma 5 del d.lgs. n. 165 del 2001, che va interpretato – con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico – nel senso di “danno comunitario”, quale sanzione “ex lege” a carico del datore di lavoro
Massima

“In materia di pubblico impiego, la reiterazione o la costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato in violazione delle norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori non determina la costituzione o la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 36, comma 5 del d.lgs. n. 165 del 2001, che va interpretato – con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico – nel senso di “danno comunitario”, quale sanzione “ex lege” a carico del datore di lavoro, e per la cui liquidazione è utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966, e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010, né il criterio previsto dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori”.

Il caso

Tizia, assunta alle dipendenze di un ente locale con 14 contratti a tempo determinato succedutisi senza soluzione di continuità per sei anni e per le medesime mansioni, agiva in giudizio per far accertare l'utilizzo abusivo del termine ed ottenere la conversione del rapporto a tempo indeterminato e/o il risarcimento del danno. Acclarata l'illegittimità del comportamento dell'amministrazione, il giudice di primo grado respingeva la richiesta di conversione del rapporto ed accoglieva la domanda di risarcimento del danno, condannando l'ente locale al pagamento di un risarcimento commisurato a venti mensilità dell'ultima retribuzione. La Corte di appello riformava la sentenza impugnata nella sola parte relativa alla condanna al risarcimento del danno, in quanto la lavoratrice non aveva fornito alcuna deduzione in merito al danno patito, dovendosi escludere il danno in re ipsa, in conformità all'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Tizia proponeva ricorso instando per la cassazione della sentenza.
In motivazione, la S.C., nel ribadire la legittimità del divieto di conversione del rapporto, si è soffermata sul problema del risarcimento del danno analizzando la portata dell'ordinanza della CGUE del 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, nella parte in cui ha rimesso al giudice nazionale la verifica in concreto del rispetto del principio di effettività non senza censurare direttamente un'interpretazione della normativa dello Stato membro che comportasse a carico del lavoratore un onere probatorio tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio del suo diritto al risarcimento del danno. In dichiarato ossequio al primato del diritto comunitario, la pronuncia in commento si è discostata dall'indirizzo ermeneutico seguito dal giudice di appello per configurare una nuova figura di danno, denominato “comunitario” («l'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 (…) deve essere interpretato nel senso che la nozione di danno applicabile nella specie deve essere quella di "danno comunitario"»), da intendere «come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro (…) mentre l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine (…) essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)». Inoltre, la S.C. ha indicato «un criterio tendenziale da utilizzare — da parte del giudice del merito — come parametro per la liquidazione del suddetto danno da perdita del lavoro quello indicato dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, apparendo, invece, da un lato, ingiustificato e riduttivo, il ricorso in via analogica al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 che riguarda la diversa ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro privato e dall'altro improprio il criterio previsto dall'art. 18 St. lav., anch'esso applicabile ad una fattispecie che non ha alcuna attinenza con il lavoro pubblico».

La questione

Prescindendo dalla - pur discussa - legittimità del divieto di conversione a tempo indeterminato dei rapporti a termine alle dipendenze della pubblica amministrazione (ribadita dalla sentenza in commento) ed accantonando la problematica del precariato scolastico (la cui rilevanza, attesa la peculiarità del servizio svolto dalla scuola pubblica, è stata esclusa dalla sentenza in commento, avendo disatteso l'istanza di rinvio formulata in riferimento alla sentenza della CGUE del 26 novembre 2014, Mascolo, cause riunite

C-22/13

; C-61/13; C-62/13; C-63/13; C-418/13), la questione centrale è senz'altro quella relativa al titolo ed ai parametri di risarcibilità del danno da abuso di contratti a termine nella pubblica amministrazione, formulabile nei seguenti termini: nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, il lavoratore deve provare il danno sofferto secondo gli ordinari principi in materia, anche attraverso presunzioni, ovvero il danno di cui all'art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001, è in re ipsa, tale da esonerare l'interessato da ogni deduzione e prova sul punto? Una volta acclarato l'an della responsabilità (contrattuale, extracontrattuale ovvero ex lege), in base a quali criteri va liquidato il danno in questione?

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza di merito, così come la dottrina, ha oscillato fra la responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale - con conseguente richiamo ai meccanismi probatori rispettivamente previsti - sino a giungere alla elaborazione di un danno in re ipsa, da liquidare in via forfettaria – secondo l'orientamento affermatosi in prevalenza e recepito in prima istanza anche nel caso in esame – in venti mensilità, avuto riguardo alle cinque mensilità ex art. 18, comma 4, legge n. 300 del 1970 ed alle quindici mensilità di cui al successivo comma 5 del medesimo articolo.
La giurisprudenza di legittimità non è ancora approdata ad un orientamento consolidato: infatti, a fronte dell'indirizzo aperto da Cass. civ., sez. lav., sent. 13 gennaio 2012, n. 392, che ha respinto la tesi del danno in re ipsa, in conformità al «costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il risarcimento dei danni scaturenti dal rapporto lavorativo (…) va provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento e, quindi, anche attraverso la prova per presunzioni (…)», e seguito, da ultimo, da Cass. civ., sez. lav., sent. 23 dicembre 2014, n. 27363, la pronuncia in commento ha espressamente preso le distanze da tale orientamento, siccome censurato dalla CGUE, elaborando la nuova categoria del danno “comunitario”, da intendere come sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, con conseguente esonero del lavoratore dalla costituzione in mora e dalla prova di un danno effettivamente subito.
Quanto, poi, ai criteri di parametrazione di danno, rispetto alle svariate soluzioni adottate dai giudici di merito, la giurisprudenza di legittimità ha mostrato di rapportarsi al meccanismo indennitario di cui all'art. 32 della legge n. 183 del 2010 (Cass. civ., sez. lav., 21 agosto 2013, n. 19371), evidenziandone il carattere forfettario ed omnicomprensivo, mentre la sentenza in commento ha preferito l'art. 8 della legge n. 604 del 1966, escludendo espressamente l'utilizzabilità del citato art. 32 e dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, ritenuti non attinenti alla fattispecie.

Osservazioni

L'elaborazione di un danno “comunitario” lascia chiaramente intendere come – anche a livello nominalistico – tale approdo sia stato avvertito come imposto dalla giurisprudenza della CGUE, con particolare riferimento al rispetto del principio di effettività. Diversamente, Cass. civ., sez. lav., sent. 23 dicembre 2014, n. 27363 - che pur ha espressamente esaminato la medesima ordinanza Papalia - ha ritenuto compatibile con il diritto europeo un'interpretazione che valorizzi, secondo quanto sostenuto dal Governo italiano, la possibilità per l'interessato di provare il danno anche attraverso il ricorso alle presunzioni, senza dunque sacrificare i principi consolidati in tema di risarcimento. Occorrerà, dunque, verificare quale orientamento risulterà prevalente: quello che richiede comunque la deduzione e la prova, anche solo presuntiva, del danno, ovvero quello aperto dalla sentenza in commento, che, in chiave di agevolazione degli oneri a carico del lavoratore, ne prescinde del tutto, richiedendo esclusivamente l'allegazione e prova di una situazione di abusivo ricorso di contratti a termine in suo danno.
Strettamente correlata alla questione precedente è quella dei criteri di liquidazione del danno: infatti, alla postulata responsabilità a titolo sanzionatorio, ex lege, corrisponde una liquidazione del danno su base forfettaria, sia pure da personalizzare entro un range predefinito in considerazione delle caratteristiche della singola fattispecie (in particolare, secondo la sentenza in commento occorre «tenere conto del numero dei contratti a termine, dell'intervallo di tempo intercorrente tra l'uno e l'altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui vi è stata la reiterazione»). Tuttavia, la scelta di indirizzare la giurisprudenza di merito – in funzione dichiaratamente nomofilattica – sul parametro di cui all' art. 8 legge n. 604 del 1966 desta non poche perplessità: infatti, se è condivisibile il rifiuto del sistema indennitario di cui all'art. 32 legge n. 183 del 2010 – perché trattasi di tutela che “si aggiunge” alla conversione del rapporto, vietata per il settore pubblico – meno convincente appare la ritenuta inapplicabilità dell'art. 18 legge n. 300 del 1970, considerato che la tutela apprestata dall'art. 8 si appalesa chiaramente meno favorevole di quella ex art. 32 legge n. 183 del 2010 – come detto, aggiuntiva – prospettandosi, pertanto, un'interpretazione non rispettosa del principio di equivalenza; viceversa, l'art. 18 costituisce un parametro normativo certo del valore sostitutivo del posto di lavoro (15 mensilità per l'indennità sostitutiva), oltre che un'indicazione minima del risarcimento dovuto per il tempo anteriore alla sentenza (almeno 5 mensilità). Un differente parametro normativo potrebbe, poi, essere rinvenuto nell'art. 18, comma 5, legge n. 300 del 1970, siccome novellato dalla legge n. 92 del 2012: infatti, l'indennità variabile fra le dodici e le ventiquattro mensilità, da determinare secondo le caratteristiche del caso concreto, rappresenta la quantificazione risarcitoria del posto di lavoro nelle ipotesi di acclarata illegittimità del comportamento del datore di lavoro, cui – per scelta legislativa – non consegua la reintegrazione, situazione assimilabile alla preclusione prevista per il settore pubblico pur a fronte dell'abusivo ricorso ai contratti a termine.

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