Applicabilità dell'art. 18, come modificato dalla legge n. 92/2012 ai licenziamenti intimati dalla P.A.

08 Luglio 2016

Sino all'intervento normativo di armonizzazione della disciplina del pubblico impiego con le disposizioni previste per l'impiego privato dalla legge 28 giugno 2012 n. 92 contenuto nei commi 7 e 8 dell'art. 1 della medesima legge, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 da parte della stessa legge n. 92 del 2012, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
Massima

Sino all'intervento normativo di armonizzazione della disciplina del pubblico impiego con le disposizioni previste per l'impiego privato dalla

legge 28 giugno 2012 n. 92

contenuto nei commi 7 e 8 dell'art. 1 della medesima legge, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'

art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300

da parte della stessa

legge n. 92 del 2012

, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell'

art. 1, comma 8, della l. n. 92 del 2012

, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al

d.lgs. n. 165 del 2001

, neppure richiamate al comma 6 dell'art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all'

art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001

, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato.

Il caso

Un dipendente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, licenziato per motivi disciplinari, ha proposto ricorso al Tribunale di Roma contestando il licenziamento sia perché i fatti oggetto della contestazione disciplinare non erano sussistenti, sia per profili di carattere formale.

Il Tribunale di Roma ha ritenuto infondate le censure di carattere sostanziale, ritenendo sussistenti i fatti contestati al dipendente, ma fondate le censure di carattere formale. Ha ritenuto, quindi, illegittimo il licenziamento e, in applicazione dell'

art. 18, sesto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300

, come modificato dall'

art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92

, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannato il Ministero al pagamento di una indennità risarcitoria omnicomprensiva quantificata nella misura minima di sei mensilità.

La sentenza del Tribunale è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma che ha rigettato il reclamo proposto dal Ministero e quello incidentale proposto dal lavoratore.

Le questioni

La questione affrontata dalla Corte di Cassazione riguarda l'applicabilità ai licenziamenti intimati da una pubblica amministrazione dichiarati illegittimi dell'

art. 18 della legge n. 300 del 1970

, come modificato dalla

legge n. 92 del 2012

, ovvero se per i dipendenti pubblici trovi applicazione in ogni caso l'art. 18 nella formulazione precedente alle modifiche.

Sin dall'approvazione della

legge n. 92 del 2012

, pur nel silenzio del legislatore, si è dubitato che le modifiche apportate all'

art. 18 legge 300 del 1970

(che ai sensi dell'

art. 51

, secondo comma,

del d. lgs. n. 165 del 2001

trova applicazione a prescindere dai requisiti dimensionali dell'amministrazione) potessero riguardare anche il pubblico impiego, in quanto la struttura dell'art. 18, come modificato dalla legge Fornero, è pensata soprattutto per l'impiego privato, facendo riferimento ad istituti (quali il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero disciplinando la violazione dell'

art. 7 della legge n. 300 del 1970

) estranei al pubblico impiego.

La questione, in particolare, si è posta in riferimento a due commi, il settimo e l'ottavo, dell'

art. 1 della legge n. 92 del 2012

, il cui contenuto è oggettivamente ambiguo. I due commi prevedono rispettivamente: “7. Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'

articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165

, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo. 8. Al fine dell'applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

La circostanza che il comma ottavo abbia demandato al Ministro l'adozione di norme per l'armonizzazione della disciplina relativa ai pubblici dipendenti, ha portato ad affermare che in assenza di tale intervento normativo non si possano estendere le disposizioni della

legge n. 92 del 2012

anche all'ambito del pubblico impiego.

La Corte di Cassazione con una prima sentenza 25 novembre 2015, n. 24157, partendo dal presupposto che “l'inequivocabile tenore dell'

art. 51 cpv. d.lgs. n. 165/01

prevede l'applicazione anche al pubblico impiego cd. contrattualizzato della

legge n. 300/70

e successive modificazioni ed integrazioni, a prescindere dal numero di dipendenti” ha affermato che “è innegabile che il nuovo testo dell'

art. 18 legge n. 300/70

, come novellato dall'

art. 1 legge n. 92/12

, trovi applicazione ratione temporis al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge cd. Fornero di cui parla l'impugnata sentenza”.

Deve precisarsi che la questione non investe il rito applicabile, in quanto qualora si invochi l'applicazione dell'

art. 18 della legge n. 300 del 1970

, sia nella formulazione precedente alla

legge n. 92 del 2012

, sia nella formulazione novellata, il rito da seguire sarà sempre quello previsto dall'

art. 1, commi 47 e ss., della stessa legge n. 92 del 2012

(c.d. rito Fornero): l'applicabilità del rito, sul quale non sussistono dubbi, è stata affermata sia da

Cass. 25 novembre 2015, n. 24157

, sia dalla sentenza in commento.

Le soluzioni giuridiche

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si è, consapevolmente, distaccata dal citato precedente del

25 novembre 2015, n. 24157

, pervenendo a conclusioni opposte ed affermando che le modifiche apportate dalla

l

egge

n. 92 del 2012

all'art. 18 della

l

egge

n. 300 del 1970

non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata legge n. 92, resta quella prevista dall'

art. 18 st

atuto dei lavoratori

nel testo antecedente la riforma.

Le argomentazioni della Suprema Corte possono essere così sintetizzate:

  • ai fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8 dell'

    art. 1 della legge n. 92 del 2012

    che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato;

  • la definizione delle finalità della

    legge n. 92 del 2012

    , per come formulata nell'art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell'impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l'uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

  • la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla

    legge n. 92 del 2012

    , introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il

    d. lgs. 27 ottobre 2009 n. 150

    , ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;

  • la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel

    d.lgs n. 165 del 2001

    è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell'art. 18 fa riferimento al solo

    art. 7 della legge n. 300 del 1970

    e non agli artt. 55 e 55 bis del d. lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate "ai sensi e per gli effetti degli

    artt. 1339

    e

    1419 e seguenti c.c.

    ";

  • una eventuale modulazione delle tutele nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l'impiego privato, poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest'ultimo il potere di licenziamento dei datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (

    Corte Cost. 24.10.2008 n. 351

    ). Viene, cioè, in rilievo non l'

    art. 41, 1° e 2° comma, della Costituzione

    , bensì l'art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.

In senso opposto, afferma la Corte, l'inapplicabilità della riforma all'impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nell'art. 51, comma 2, alla

legge 20 maggio 1970 n. 300

"e successive modificazioni ed integrazioni". Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l'art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dall'

art. 8 della legge n. 604 dei 1966

. Pertanto, il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l'automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.

Conclude la Corte che la previsione di cui all'ottavo comma dell'

art. 1 della legge n. 92 del 2012

fa sì che il rinvio di cui all'

art. 51 del d.lgs. n. 165 del 2001

si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.

Osservazioni

Ogni valutazione in ordine all'applicabilità dell'

art. 18 dello Statuto dei lavoratori

, come modificato dalla legge Fornero, al pubblico impiego non può che prendere le mosse dalla ambiguità del dato normativo sottostante, nel senso che il legislatore non ha, nonostante che la questione abbia costituito oggetto di dibattito in sede di genesi della norma, voluto affrontare la questione, lasciando con ogni evidenza all'interprete il compito di trovare una soluzione. Da questo punto di vista non può destare sorpresa la sussistenza di orientamenti della Suprema Corte opposti a distanza ravvicinata; anzi, si può facilmente ipotizzare che quella espressa dalla sentenza in commento non sia l'ultima parola sul punto.

Ciò premesso, e affermata l'imprescindibilità di un esplicito intervento legislativo, lo sviluppo argomentativo espresso nella sentenza in commento non risulta convincente.

In primo luogo, la Suprema Corte ha omesso ogni riferimento alla norma fondamentale in materia di fonti normative del pubblico impiego, l'

art. 2, comma 2, del d. lgs. n. 165 del 2001

secondo il quale i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. Pertanto, a meno che non sia previsto diversamente, trovano applicazione al pubblico impiego tutte le norme sui rapporti di lavoro privati, anche se pensate per l'impiego privato. Non può essere, allora, un argomento quello di ritenere non applicabile la legge Fornero sul presupposto che si tratti di una legge pensata per l'impiego privato, in quanto anche tali leggi, salva una contraria previsione, trovano applicazione anche all'impiego pubblico.

Né si può ritenere non applicabile la norma sul presupposto di una incompatibilità di alcune sue parti al pubblico impiego: la norma chiaramente è applicabile solo nella parte in cui è compatibile con la disciplina del pubblico impiego (per esempio, licenziamento verbale o nullo, licenziamento disciplinare, licenziamento per superamento del periodo di comporto o per invalidità sopravvenuta, ecc.), mentre non troverà applicazione nelle parti incompatibili con la disciplina dell'impiego pubblico (per esempio, licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero licenziamento per violazione dell'

art. 7 della legge n. 300 del 1970

, ecc.).

Appare eccessiva l'enfatizzazione delle disposizioni contenute nei commi 7 e 8 dell'

art. 1 della legge n. 92 del 2012

: appare veramente difficile leggere nel contenuto di queste due disposizioni una deroga all'applicazione al pubblico impiego della disciplina di cui alla

legge n. 92 del 2012

(tanto che, per esempio, non si dubita, e neppure la stessa Cassazione lo fa, dell'applicazione al pubblico impiego del c.d. rito Fornero pure contenuto nella stessa

legge n. 92 del 2012

). Anzi, leggendo l'ottavo comma citato sembra esattamente il contrario, cioè che nel momento in cui la legge abbia demandato al Ministro per la pubblica amministrazione il compito di adottare disposizioni per armonizzare i principi dettati dalla legge Fornero con la disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, abbia dato per presupposto l'applicabilità della legge Fornero alla pubblica amministrazione.

La stessa sentenza in commento nell'affermare che l'

art. 1, comma 8, della legge n. 92 del 2012

demanda ad un successivo intervento legislativo la eventuale modifica della disciplina dei licenziamenti, richiama una norma analoga contenuta nell'

art. 86, comma 8, del d. lgs. 276 del 2003

: tuttavia, l'art. 1, comma 2, dello stesso d. lgs. esclude espressamente l'applicabilità di tale norma alla pubblica amministrazione, norma che, invece, manca del tutto nella legge Fornero, per cui il richiamo al precedente normativo sembra andare in senso opposto a quanto affermato dalla Cassazione.

Non appare corretta neppure l'interpretazione fornita dalla Suprema Corte all'

art. 51, secondo comma, del d. lgs. n. 165 del 2001

, secondo cui la norma nel far riferimento all'applicazione ai rapporti di lavoro pubblici della

legge n. 300 del 1970

e successive modificazioni e integrazioni “a prescindere dal numero dei dipendenti” avrebbe inteso cristallizzare la tutela reale di cui all'art. 18. La norma, in realtà, ha una portata del tutto differente, volta non già a garantire l'applicazione della tutela reale anche in presenza di norme che la possano modificare o abrogare, ma a garantire l'applicazione omogenea a tutti i dipendenti pubblici della stessa disciplina, a prescindere dalle dimensioni dell'amministrazione datrice di lavoro. La norma, pertanto, vuole semplicemente escludere differenziazioni fondate sul requisito dimensionale dell'amministrazione datrice di lavoro.

Altra argomentazione che non risulta decisiva è quella relativa alla inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel

d.

lgs n. 165 del 2001

in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell'art. 18 fa riferimento al solo

art. 7 della legge n. 300 del 1970

e non agli

artt. 55 e 55 bis

del d. lgs. citato. Non sussiste, infatti, alcuna inconciliabilità in quanto per il pubblico impiego nell'ipotesi di violazioni delle disposizioni procedurali previste dalle norme sopra citate, certamente non potrebbe trovare applicazione il sesto comma del novellato art. 18, ma, trattandosi di violazione di norma imperativa, l'ipotesi sanzionatoria di cui al primo comma, come affermato dalla sentenza

25 novembre 2015, n. 24157

che ha statuito che il licenziamento nullo per contrarietà a norma imperativa (nella specie, l'

art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001

) va sanzionato con la reintegra, rientrando tra le altre nullità previste dalla legge di cui all'

art. 18, comma 1, st. lav

. come modificato dalla

l. n. 92 del 2012

.

Quest'ultima considerazione, in realtà, porta a stemperare del tutto le conseguenze derivanti dai diversi orientamenti; infatti, premesso che i profili di illegittimità del licenziamento nell'ambito del pubblico impiego fanno quasi esclusivo riferimento a violazioni di norme imperative, ovvero a ipotesi di insussistenza del fatto contestato nel licenziamento disciplinare, ovvero all'insussistenza dello stato di invalidità che ha determinato l'inidoneità al servizio del dipendente ovvero all'insussistenza del superamento del periodo di comporto, tutte ipotesi per le quali si applica la tutela reintegratoria, anche applicando l'art. 18 novellato, le ipotesi di applicazione di una sanzione indennitaria sarebbero assolutamente marginali e relegate alla sola ipotesi in cui il giudice non ritenga proporzionata la sanzione del licenziamento a fronte di condotte effettivamente sussistenti.

Ciò che desta maggiori perplessità nella pronuncia in esame è l'avere operato un vero e proprio intervento di creazione legislativa, sdoppiando una norma di legge in assenza di previsione da parte del legislatore stesso: secondo la Cassazione, infatti, attualmente esistono due diverse formulazioni dell'art. 18, una applicabile al pubblico impiego e un'altra, novellata dalla legge Fornero, applicabile all'impiego privato. Che tale operazione, di carattere legislativo, possa essere fatta sulla base di una mera interpretazione giurisprudenziale, desta qualche perplessità.

Infine, una questione, ovviamente, non affrontata nella sentenza, è quella dei riflessi dei principi in essa contenuti circa l'applicabilità al pubblico impiego del

d. lgs. 4 marzo 2015 n. 23

. Infatti, mentre buona parte delle considerazioni sviluppate nella sentenza possono agevolmente portare a ritenere non applicabile anche tale norma al pubblico impiego (per esempio, l'incompatibilità della struttura della norma con la disciplina del pubblico impiego) altre argomentazioni possono essere riferite esclusivamente all'art. 18: in particolare, non risultano sovrapponibili tutte le argomentazioni fondate sull'interpretazione dei commi 7 e 8 dell'

art. 1 della legge n. 92 del 2012

, sulla base dei quali si fonda buona parte del ragionamento della Suprema Corte, con la conseguenza che non sarà possibile sostenere l'esclusione dell'applicazione delle disposizioni di cui al citato d. lgs. sulla base delle argomentazioni sviluppate nella sentenza in commento.

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