L'evoluzione dell'inderogabilità del diritto del lavoro alla luce del mutamento della disciplina delle mansioni

09 Giugno 2016

La riflessione trae spunto dalla presa di coscienza dell'evoluzione subita nel tempo dal principio cardine del diritto del lavoro, l'inderogabilità. Il presente contributo intende soffermarsi in particolare sul mutamento della disciplina delle mansioni di cui all'art. 2103 c.c. ad opera del D.lgs. n. 81/2015, quale riflesso incisivo e più recente di tale cambiamento.
L'immanenza del principio di inderogabilità nel diritto del lavoro

Il connotato peculiare del diritto del lavoro è costituito dal ruolo che il lavoratore riveste all'interno del contratto e del rapporto di lavoro. Se è vero infatti che il prestatore di lavoro si pone per un verso quale parte contrattuale, è altresì vero che le sue energie psico-fisiche, costituiscono l'oggetto della prestazione lavorativa a fronte della retribuzione. Ben si comprendono allora le esigenze di protezione di un soggetto che impegna nel rapporto di lavoro la sua stessa persona, tanto che parte della dottrina (D'Antona) guarda al lavoratore in termini non già di contraente debole, bensì di non-contraente, poiché egli implica se stesso nel rapporto di lavoro e ne trae il sostentamento vitale.

In questo senso altra autorevole dottrina (Ichino) ha messo in rilievo che l'inderogabilità delle norme giuslavoristiche trova giustificazione nello stesso dettato costituzionale. Invero la Costituzione, riconoscendo ruolo primario al lavoro quale fondamento della Repubblica italiana, lo configura nella duplice dimensione di diritto-dovere: diritto, perché attraverso il suo esercizio il soggetto realizza se stesso sviluppando pienamente la sua personalità, dovere poiché attraverso le sue prestazioni lavorative, il soggetto concorre al progresso materiale e spirituale della società. Il lavoro si pone quale sintesi del principio personalistico e di quello solidarista (Mortati), tanto da far affermare alla giurisprudenza costituzionale che “il cittadino, nel luogo di lavoro, non percepisce solo la retribuzione contro prestazione, ma afferma e sviluppa la sua personalità nel complesso dei rapporti e dei valori che il mondo del lavoro sa esprimere” (Corte Cost., sentenza. n. 60/1991).

Già alla luce di queste prime riflessioni, emerge la peculiarità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile dominato dal libero gioco dell'autonomia privata. Infatti questa branca del diritto, al fine di tutelare gli interessi del lavoratore, mira a garantire che la libertà negoziale non possa arrivare a comprimere i diritti fondamentali del lavoratore, intesi quale nucleo irrinunciabile. Ne consegue che, mentre la scelta da parte del datore di lavoro dell'an e del soggetto del contraente appare totalmente libera, lo stesso non può dirsi per le caratteristiche ed i requisiti che deve possedere il contratto al fine di tutelare la dignità del prestatore di lavoro.

La tecnica normativa usata dal legislatore per assicurare al lavoratore quel minimo di tutela al di sotto della quale l'autonomia privata non può spingersi, è rappresentata dall'inderogabilità. Quest'ultima, assurgendo a meccanismo di protezione sociale attraverso il quale assume preminenza la fonte eteronoma nella regolamentazione dei rapporti tra privati, delinea i limiti al libero esplicarsi dell'autonomia negoziale, al fine di ricomporre la situazione di squilibrio contrattuale in ossequio al principio di uguaglianza-ragionevolezza di cui all'

art. 3 della Costituzione

. In tal senso può dirsi che la disciplina inderogabile svolge una funzione strumentale al ripristino dell'equilibrio contrattuale nel rapporto di lavoro. A riguardo, è opportuno sottolineare che parte della dottrina (Tamajo) ha rilevato che l'esigenza dell'intervento protettivo nel diritto del lavoro è dovuta proprio al coinvolgimento della persona del lavoratore nei suoi aspetti di libertà, dignità e sicurezza.

Sebbene nel diritto del lavoro tradizionalmente si faccia risalire la consacrazione legislativa del principio dell'inderogabilità unidirezionale, o cd. in peius, all'

art. 17,

R.d.l.

n. 1825 del 1924

, “Legge sul contratto di impiego privato”, - a norma del quale “Le disposizioni del presente decreto saranno osservate malgrado ogni patto in contrario, salvo il caso di particolari convenzioni od usi più favorevoli all'impiegato e salvo il caso che il presente decreto espressamente ne consenta la deroga consensuale”, - parte della dottrina (Voza) evidenzia che già precedentemente erano presenti nella legislazione norme dal carattere inderogabile poste a tutela dei lavoratori. Si pensi in questo senso all'art. 5, L. n. 242/1902 che vietava il lavoro notturno ai maschi di età inferiore ai 15 anni, all'art. 1, L. n. 489/1907 che imponeva agli imprenditori di riconoscere un periodo di riposo non inferiore a 24 ore consecutive per ogni settimana, o ancora all'art. 12,

L. n. 80/1898

che sanciva la nullità di qualsiasi patto teso ad eludere il pagamento delle indennità o a diminuirne la misura nella disciplina dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.

Tuttavia, proprio grazie all'interpretazione estensiva dell'art. 17 della L. n. 1825/1924 proposta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dell'epoca si giunse a ricomprendere nei patti contrari, invalidi secondo la legge, anche i negozi contenenti una rinuncia di diritti da parte del lavoratore, anticipando così i contenuti del futuro

art. 2113 c.c.

Ulteriore principio in cui si sostanzia l'inderogabilità del diritto del lavoro è riscontrabile nella

L. n. 604/1966

grazie alla quale, al principio della libertà del recesso, si sostituisce all'

art. 2118 cod. civ

.

, la necessità della sussistenza di una giustificata motivazione da porre alla base del licenziamento da parte del datore di lavoro, a fronte della libertà che invece continua a connotare le dimissioni del lavoratore. Tale assetto, poi consolidato dallo

Statuto dei Lavoratori

,

L. n. 300/1970

, che

all'art. 18

introduceva la sanzione della reintegrazione del lavoratore nelle imprese di maggiori dimensioni, costituisce l'espressione più significativa di una lettura costituzionalmente orientata del diritto del lavoro, rispetto alla quale gli

artt. 4

35, 36, 37, e 38 della

Costituzione

, rappresentano i cardini su cui si fonda la tutela legislativa contro il licenziamento illegittimo, contro le discriminazioni e contro una prassi retributiva non proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e neppure sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa.

Se il principio di inderogabilità diventa derogabile: la contrattazione di prossimità

Negli ultimi anni sembra prospettarsi invece un'attenuazione al principio dell'inderogabilità, il cui sintomo è ravvisabile nel nuovo rapporto tra contratto nazionale e contrattazione decentrata. Fin dall'accordo interconfederale del 23 luglio 1993, la contrattazione nazionale ha svolto la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impegnati nel territorio nazionale, riservando alla contrattazione decentrata la disciplina delle materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di categoria. L'

art. 8 D.L. n. 138/2011

, convertito in

L. n. 148/2011

, consente invece ai contratti collettivi aziendali e territoriali di derogare alla legge ed ai contratti nazionali nell'interesse comune alla conservazione e all'espansione dell'impresa e dell'occupazione con il solo limite del rispetto dei parametri Costituzionali e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Ne consegue che i contratti aziendali, a condizione che siano sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario, per espressa previsione di legge, hanno efficacia erga omnes nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alla categoria, anche se non iscritti ai sindacati stipulanti. Come precisato dalla Corte Costituzionale le specifiche intese previste dal comma 1 del suddetto art. 8 non hanno un ambito illimitato, ma possono riguardare soltanto le materie indicate dal comma 2, il cui elenco deve ritenersi tassativo (

Corte

Cost

. n. 221/2012

). Tuttavia giova sottolineare che, nonostante l'effetto derogatorio sia previsto solo in relazione a specifiche materie, la facoltà di deroga, anche in peius, alle previsioni legislative imperative della normativa giuslavoristica attribuita alla contrattazione di secondo livello incide su numerosissimi ambiti, tra cui la disciplina dell'orario di lavoro, la regolamentazione degli impianti audiovisivi, l'inquadramento delle mansioni, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, tanto da far sostenere a parte della dottrina (Scarpelli) che il legislatore, così disponendo, ha operato un “radicale rivolgimento” del rapporto tra le fonti del diritto del lavoro.

Del resto, i dubbi

di costituzionalità sorti in precedenza con riferimento all'

art. 39

Cost

.

, che riserva l'efficacia erga omnes esclusivamente ai contratti collettivi conclusi dai sindacati registrati della medesima categoria, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, ed aventi uno statuto interno a base democratica, erano già stati superati dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. Cass. civ. 141/1980 e

Cass

. civ.

697/1988

. A questo proposito la Consulta da un lato aveva evidenziato che, data l'inattuazione del precetto costituzionale, non è ipotizzabile un conflitto fra l'attività sindacale e l'attività legislativa, non essendo presente alcuna riserva legislativa e contrattuale a favore dei sindacati, dall'altro aveva ricordato che il legislatore non può comprimere la libertà di azione dei sindacati. Ne consegue che la mancata attuazione dell'

art. 39

Cost

.

comporta la rilevanza dei contratti collettivi nell'ordinamento quali contratti di diritto comune, sottoscritti da organizzazioni sindacali non riconosciute, con natura privatistica ed efficacia inter partes, cioè relativamente agli iscritti alle associazioni stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, hanno prestato adesione al contratto, ma non fa venir meno il loro carattere paralegislativo, tanto che la Consulta da tempo ha riconosciuto alla contrattazione collettiva “la funzione di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia del salario sufficiente”, determinando una stretta connessione dell'

art. 39

Cost

.

con l'

art. 36

Cost

.

(

Corte Costituzionale n. 124/1991

).

Alla luce di quanto esposto, ciò che preme rilevare è che l'introduzione dell'art. 8

L. n. 148/2011

, configura un'evidente deroga da parte della contrattazione aziendale, un tempo definita “integrativa”, all'inderogabilità della contrattazione nazionale, all'insegna di un ampliamento dell'autonomia negoziale che reca con sé i rischi di una tutela frammentata e relativa a scapito della certezza ed uniformità dei diritti del lavoratore.

Invero, l'inderogabilità, quale caratteristica intrinseca della norma giuslavorista, ha la funzione di garantire la protezione giuridica ed economica del lavoratore, ed in questo senso si può affermare che costituisce la diretta applicazione dell'

art. 3

Cost

.

poiché, per consentire il pieno sviluppo della persona, è necessario assicurare a ciascuno la possibilità di esplicare l'attività lavorativa, in condizioni di uguaglianza, sicurezza e dignità. A questo proposito risuonano memorabili le parole della Corte Costituzionale, secondo la quale “il diritto al lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell'attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino - l'unica che trovi nella norma costituzionale in esame il suo inderogabile fondamento - fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere nell'ordinamento norme che pongano o consentano di porre limiti discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, dall'altra l'obbligo - il cui adempimento è ritenuto dalla Costituzione essenziale all'effettiva realizzazione del descritto diritto - di indirizzare l'attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro” (

Corte

Cost

., sentenza n. 45/1965

).

Il mutamento della disciplina delle mansioni quale risvolto dell'evoluzione del principio di inderogabilità

Dopo aver delineato il quadro da cui emerge la portata dell'inderogabilità nel diritto del lavoro, appare opportuno concentrare l'attenzione su un settore specifico, tradizionalmente inteso come inderogabile, che recentemente ha subito un vistoso mutamento. Ci riferiamo alla disciplina delle mansioni di cui all'

art. 2103 c.c.

così come modificato dal

D.lgs. n. 81/2015

. L'art. 2103 c.c., nella sua formulazione originaria, costituiva una norma imperativa e quindi non derogabile neppure dalle parti, posta a tutela della professionalità del lavoratore, volta a garantire il diritto a prestare l'attività lavorativa per la quale si è stati assunti (contrattualità delle mansioni) ed a regolamentare l'esercizio dello ius variandi, limitato dall'assegnazione del lavoratore a mansioni equivalenti a quelle effettivamente svolte o superiori e dal divieto di demansionamento. La modifica in peius delle mansioni era considerata ammissibile dalla giurisprudenza, perché nell'interesse del lavoratore, solo se ritenuta l'unica alternativa possibile al recesso datoriale.

La novella legislativa, ridefinendo il concetto di equivalenza professionale, ha creato un vulnus nel precetto inderogabile, poiché, il concetto di equivalenza non viene parametrato con riferimento alle mansioni effettivamente svolte, bensì alle classificazioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento contenuto nei contratti collettivi. Ne consegue l'ampliamento dello ius variandi del datore di lavoro, esercitabile non avendo riguardo al concreto contenuto professionale delle mansioni svolte, ma a quelle rientranti nella medesima classificazione dei contratti collettivi.

Si assiste così ad un avvicinamento al sistema scelto per regolamentare le mansioni nel settore del pubblico impiego, laddove

l'

art. 52 del D.lgs. n. 165/2001

già disponeva che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento. A partire dall'

art. 31, comma 1, del T.U.

D.P.R. n. 3/1957

sugli impiegati civili dello Stato, il riferimento al concetto di inquadramento, quale meccanismo di identificazione dello status del dipendente, rappresenta il fulcro cui è ancorata la posizione del dipendente pubblico caratterizzata dal rapporto di servizio.

Così, mentre l'inquadramento evoca un sistema di classificazione astratta delle qualifiche, meramente descrittive, su cui si fonda l'organizzazione del lavoro pubblico, il concetto di prestazione professionale rimanda invece al concreto svolgersi delle mansioni e, conseguentemente, al bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisito nel tempo da ogni singolo lavoratore.

A riguardo preme precisare che la giurisprudenza più recente, nonostante l'intervenuta modifica dell'

art. 2103 c.c

.

, non ha smesso di ritenere che la valutazione dell'equivalenza delle mansioni non possa prescindere dal livello professionale raggiunto dal dipendente, affermando che è illegittima l'assegnazione di nuove mansioni non coerenti con la professionalità del lavoratore, anche se equivalenti ad altre rientranti nella nuova qualifica attribuita (

Corte di Cassazione, sentenza n. 4090/2016

).

Giova sottolineare che il concetto di equivalenza, stante la sua portata relazionale, si riverbera altresì sull'individuazione delle mansioni inferiori. Invero, il nuovo

art. 2103 c.c.

,

richiamando un concetto di equivalenza formale tra le precedenti e le nuove mansioni, - considerate equivalenti purchè rientranti nel medesimo livello di inquadramento, - comporta la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni sostanzialmente inferiori, di fatto demansionandolo. Il secondo comma del nuovo

art. 2103 c.c.

dispone che, in caso di modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore, il datore di lavoro può assegnare quest'ultimo a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale. Dunque, esclusa l'incidenza sul trattamento retributivo, in virtù del principio della irriducibilità della retribuzione, e fermo restando l'inquadramento formale, il lavoratore potrà essere legittimamente adibito a mansioni corrispondenti al livello di inquadramento immediatamente inferiore a quello di appartenenza.

Oltre alle considerazioni di cui sopra, è opportuno sottolineare che la disposizione che sembra scardinare del tutto l'inderogabilità dell'originario

art. 2103 c.c.

concerne il nuovo sesto comma, in base al quale è consentita, nelle sedi di cui all'

art. 2113, quarto comma, c.c

.

, la stipula di accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Ne consegue che il legislatore in tal modo conferisce alle parti, e segnatamente al datore di lavoro, la possibilità di modificare in peius il contenuto delle mansioni in nome di una “diversa” professionalità, o per evitare un licenziamento, seppur prevedendo quale garanzia, che la stipula avvenga nelle sedi sindacali, davanti alle direzioni territoriali di lavoro o alle commissioni di certificazione. Queste generiche ipotesi derogatorie, finalizzate ad incrementare l'autonomia individuale, sono state lette da autorevole dottrina (Fontana) come una forma di “derogabilità assistita”, capace di porre in discussione non solo il profilo delle mansioni, ma altresì ulteriori aspetti cruciali, quali quello retributivo.

Alla luce di quanto esposto, sembra che la previsione della nullità di ogni patto contrario, posta a conclusione dell'

art. 2103 c.c.

,

un tempo formula privilegiata per sancire l'inderogabilità della norma, oggi, lungi dal costituire una tutela per il lavoratore, sia degradata a clausola di stile, stante la pluralità delle deroghe apportate dal legislatore della novella.

In conclusione

Il concetto di inderogabilità è ormai destinato a sopravvivere, quanto meno nel settore oggetto di analisi, se non nel diritto positivo, nel diritto vivente, quale interpretazione giuridica della norma offerta dalla Suprema Corte secondo la quale deve ribadirsi il principio di diritto secondo cui “la prescrizione posta dall'

art. 2103 c.c

., comma 1, fa divieto di un'indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale, ciò in quanto il baricentro della disposizione in esame, nella formulazione introdotta dallo

Statuto dei lavoratori

, è la protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro. Ne deriva che anche in tema di riclassificazione del personale la società non può limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di una equivalenza "convenzionale" tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate a seguito dell'entrata in vigore della nuova classificazione, dovendo per contro procedersi ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito, e di una effettiva garanzia dell'accrescimento delle capacità professionali del dipendente” (

Corte di Cassazione, sentenza n. 3422/2016

).

Nello stesso senso la Suprema Corte, in un caso di demansionamento, quale unica alternativa al recesso datoriale, afferma che l'

art. 2103 c.c.

va interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali l'

art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 151/2001

, l'

art. 1, comma 7, della l. n. 68/1999

, l'art. 4, comma 11, del d.lgs. n. 223/1991 anche come da ultimo riformulato dall'

art. 3, comma 2, del D.lgs. n. 81/2015

, sicché, è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (

Corte di Cassazione, sentenza n. 23698/2015

).

Guida all'Approfondimento

  • C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, Giuffrè, 2005, p. 149 ss;
  • Smuraglia, La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro, Milano, 1958, p. 45 ss.;
  • R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, Jovene, 1976, p. 46 ss.;
  • L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, II, 2° ed., 1917, p. 328;
  • F. Carnelutti, Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, in RDComm, XI, 1913, p. 384 ss.;
  • C. Cester, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in Giorn. Dir. Lav. rel. ind., 2008, p. 353 ss.;
  • G. Fontana, Ascesa e crisi dell'inderogabilità delle tutele nel diritto del lavoro, 2015 in www.forumcostituzionale.it
  • G. Fontana, Inderogabilità, derogabilità e crisi dell'uguaglianza, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT – 276/ 2015, p. 30 ss;
  • R. Voza, L'inderogabilità come attributo genetico del diritto del lavoro, un profilo storico, in Riv. giur. lav., 2006, I, p. 227 ss.;
  • R. Voza, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT – 262/2015;
  • Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel

    decreto legislativo n. 81/2015

    e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in WP CSDLE, n. 257/2015, p. 2 ss.;
  • M. Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Cedam, 2006, p. 4 ss.;
  • A. Ichino-P. Ichino, A chi serve il diritto del lavoro. Riflessioni interdisciplinari sulla funzione economica e la giustificazione costituzionale dell'inderogabilità delle norme giuslavoristiche, in Riv. it. dir. lav., 1994, I, p. 457 ss.;
  • G. Santoro Passarelli, Diritto dei lavori. Diritto sindacale e rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2013, p. 107;
  • Di Passio, L'organizzazione del lavoro nel pubblico impiego, in Riv. trim. sc. am. 1980, p. 61 ss.;
  • F. Scarpelli, Il contratto collettivo nell'art.

    d.l.

    n. 138 del 2011

    : problemi e prospettive, in Risistemare il diritto del lavoro, a cura di L. Nogler – L. Corazza, 2012, p.729.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario