È legittimo il licenziamento di chi copra i furti del collega

La Redazione
12 Febbraio 2015

L'art. 45, r.d. n. 148/31, ai sensi del quale il lavoratore può essere destituito se consapevolmente si appropri o contribuisca che altri si approprino di beni dell'azienda, è applicabile anche in caso di omessa vigilanza e denuncia da parte del responsabile circa gli ammanchi, dovuti alla condotta fraudolenta di altri lavoratori, non richiedendo un concorso doloso nella commissione del fatto.

Cass.civ., sez. lavoro, 10 febbraio 2015, n. 2552, sent.

L'art. 45, r.d. n. 148/31, ai sensi del quale il lavoratore può essere destituito se consapevolmente si appropri o contribuisca che altri si approprino di beni dell'azienda, è applicabile anche in caso di omessa vigilanza e denuncia da parte del responsabile circa gli ammanchi, dovuti alla condotta fraudolenta di altri lavoratori, non richiedendo un concorso doloso nella commissione del fatto. Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2552/15 depositata il 10 febbraio.

Il caso. La Corte d'appello di Firenze ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro nei confronti del responsabile dell'ufficio commerciale, ritenuto responsabile di gravissime omissioni negli oneri di vigilanza e denuncia, a lui incombenti, in relazione a diversi episodi in cui si erano registrati ammanchi negli incassi dei parcometri gestiti dalla società, nonché ad uno specifico episodio in cui egli aveva assistito ad un vero e proprio furto delle somme incassate da parte di un collega.
L'intenzione di coprire tali ammanchi è stata ricondotta dal datore di lavoro alla previsione di cui all'art. 45, r.d. n. 148/31, il quale dispone la destituzione nei confronti di chi consapevolmente si appropri o contribuisca che altri si appropri di beni aziendali oppure che defraudi o contribuisca a defraudare l'azienda dei suoi beni.
Il lavoratore impugna la sentenza in Cassazione lamentandosi del fatto che la condotta contestatagli non possa rientrare nella previsione della norma citata, la quale richiederebbe un concorso doloso nella commissione del fatto.

L'ambito di applicazione dell'art. 45, r.d. n. 148/31. La Corte di Cassazione ritiene che la motivazione redatta dai giudici di merito, in relazione alla configurabilità della fattispecie disciplinata dall'art. 45 cit., sia esente da vizi. In particolare, le risultanze probatorie relative ai comportamenti del lavoratore consentono di attrarre la condotta alla consapevole complicità di fatto nei confronti del comportamento illecito del collega, caratterizzata da una gravità tale da non potersi sottrarre al provvedimento disciplinare del licenziamento. La norma applicata non richiede difatti l'accertamento di un autentico concorso doloso nella commissione del fatto, potendo trovare applicazione anche in caso di comportamenti omissivi, come accaduto nel caso concreto.

La rilevanza della condotta anche come giusta causa di licenziamento. Il ricorrente lamenta inoltre la violazione dell'art. 2119 c.c., norma che peraltro non era oggetto di contestazione, negando in tal modo la configurabilità di una giusta causa di licenziamento. Il motivo è infondato. I giudici di legittimità osservano che la lettera di licenziamento contestava al lavoratore una condotta definita come gravemente lesiva del rapporto fiduciario intercorrente tra il datore di lavoro ed il funzionario, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, individuando in tal modo una giusta causa di recesso ai sensi dell'art. 2119 c.c..
Si aggiunga che in tema di verifica giudiziale della correttezza del provvedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra quest'ultimo e la violazione contestata si concretizza nella valutazione della gravità della condotta del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, con un apprezzamento delle risultanze probatorie di esclusiva competenza dei giudici di merito, non censurabile di conseguenza in sede di legittimità.
Nel caso di specie, i giudici di seconde cure hanno dato adeguata argomentazione in ordine al riscontro degli elementi fattuali di tale gravità, oggettiva e soggettiva, da integrare la giusta causa di licenziamento.
Per questi motivi la Suprema Corte rigetta il ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

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