Il lavoratore deve provare l’esistenza di condotte del datore dirette alla sua emarginazione

La Redazione
07 Febbraio 2015

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rilevatori, in modo inequivoco, di un'esplicita volontà di quest'ultimo di emarginazione del dipendente. Occorre, pertanto, dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte tutte dirette all'espulsione dal contesto lavorativo, e comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall'unico fine intenzionale di isolare il dipendente.

Cass.civ., sez. lavoro, 23 gennaio 2015, n. 1258, sent.

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rilevatori, in modo inequivoco, di un'esplicita volontà di quest'ultimo di emarginazione del dipendente. Occorre, pertanto, dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte tutte dirette all'espulsione dal contesto lavorativo, e comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall'unico fine intenzionale di isolare il dipendente. Questo l'orientamento giurisprudenziale confermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 1258, depositata il 23 gennaio 2015.

Il caso. La Corte d'appello di Ancona confermava la decisione con cui il Tribunale di Fermo respingeva la domanda proposta dalla dipendente per conseguire il risarcimento dei danni subiti per effetto della pluralità di condotte, qualificate come mobbing, poste in essere dall'Amministrazione del Comune di Santa Vittoria in Matenano.
La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione contro tale sentenza, lamentando come la Corte territoriale abbia ritenuto illegittimamente la necessità dell'elemento psicologico della condotta, accollandone l'onere alla dipendente.
Il Collegio ritiene il ricorso infondato, afferma, infatti che la ricorrente confonde l'accertamento del fatto materiale con quello della sua illegittimità di cui la componente psicologica è elemento essenziale e la cui prova è sicuramente onere dell'attore.

Mobbing lavorativo. Sul punto, il Collegio, riporta l'orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in base al quale, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rilevatori, in modo inequivoco, di un'esplicita volontà di quest'ultimo di emarginazione del dipendente. Occorre, pertanto, dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette all'espulsione dal contesto lavorativo, e comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall'unico fine intenzionale di isolare il dipendente.
Nel ricorso, osserva il Collegio, manca l'allegazione, da parte della lavoratrice, delle circostanze poste a sostegno di tali condotte del datore di lavoro.
Per tali ragioni, la S.C. ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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