Risarcimento del “danno comunitario” da abuso di contratti a termine nel pubblico al vaglio delle S.U.
13 Aprile 2016
Massima
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente che abbia subìto la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall' art. 36, comma 5, D. L gs. 30 marzo 2001, n. 165 , al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all' art. 32, comma 5, L. 4 novembre 2010, n. 183 , e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell' art. 8, L. 15 luglio 1966, n. 604 .
Sul tema leggi anche: Il caso
Quello deciso dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza in commento è senz'altro uno dei casi più celebri della ultradecennale saga sui rimedi applicabili in caso di illegittima apposizione del termine e – in specie – di abuso nella reiterazione di contratti a tempo determinato nel settore pubblico “contrattualizzato”.
Il giudizio instaurato dinanzi al Tribunale di Genova dai due ricorrenti – entrambi assunti come operatori tecnici con qualifica di cuoco con una pluralità di contratti a termine dalla locale azienda ospedaliera universitaria – aveva infatti già occasionato un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia per risolvere la questione interpretativa se la Direttiva 1999/7 0/CE dovesse essere intesa nel senso che le clausole 1 e 5 dell'accordo quadro ad essa allegato ostino ad una disciplina interna, quale quella dettata dall' art. 36 del D. Lgs. n. 165 del 2001 , che differenzia i rimedi applicabili ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con una pubblica amministrazione rispetto a quelli instaurati con datori privati, escludendo i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione – mediante “conversione” o “trasformazione”, secondo quanto nel frattempo espressamente previsto dalla legge ( art. 3 2 , L. n. 183 del 2010 e, da ultimo, artt. 21 ss. , D . Lgs. n. 81 del 2015 ) – di un rapporto a tempo indeterminato.
Avendo la Corte di giustizia (con sentenza 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu e Sardino) risolto la questione pregiudiziale nel senso che la Direttiva 1999/70/CE non osta ad una siffatta differenziazione di trattamento tra settore pubblico e privato, purché però la normativa nazionale contempli misure adeguate dirette a prevenire e a sanzionare situazioni acclarate di impiego abusivo dei contratti a termine che rivestano «un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro» (punto 51), il giudizio veniva così riassunto dinanzi al Tribunale di Genova essenzialmente ai fini della congrua quantificazione del risarcimento del danno patito dai due lavoratori.
Ed il Tribunale – ritenendo che la misura della adeguatezza e della effettività del rimedio richiesto dalla Corte di giustizia fosse integrata non solo dalla idoneità dello strumento risarcitorio a riparare il danno, ma altresì dalla forza dissuasiva che è tipica dei meccanismi sanzionatori – aveva individuato nella previsione del (vecchio) art. 18, commi 4 e 5, L . n. 3 00 del 1970 il parametro all'uopo più appropriato, commisurando il risarcimento dovuto al valore minimo delle cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto ed aggiungendovi le quindici mensilità della indennità sostitutiva della reintegra nel posto di lavoro (liquidata peraltro per intero soltanto in favore di un ricorrente e ridotta invece a dieci per l'altro, essendosi questo subito reimpiegato successivamente alla cessazione dell'ultimo contratto a termine con l'azienda ospedaliera).
Tale soluzione veniva quindi pienamente confermata dalla Corte d'appello di Genova, sulla base di argomenti che pure facevano leva sui principi affermati dalla sentenza dei giudici di Lussemburgo, dovendo, in sintesi, il danno risarcito possedere una effettiva efficacia dissuasiva, non avere conseguenze meno favorevoli rispetto a quelle rilevanti nel settore privato e non rendere eccessivamente difficile o praticamente impossibile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario. La questione
La questione finalmente decisa dalle Sezioni unite è, probabilmente, la più significativa, oggi, tra quelle che agitano da anni il gigantesco contenzioso innescato dal sistematico ricorso abusivo ai contratti a termine da parte delle pubbliche amministrazioni, intrecciandosi strettamente con il filone del precariato scolastico, sul quale pure è attesa – dopo la notissima sentenza Mascolo del 26 n ovembre 2014 della Corte di giustizia (nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13) – la pronuncia della Corte costituzionale (v. ex multis M. Aimo, Presupposti, confini ed effetti della sentenza Mascolo sul precariato scolastico, in Riv. giur. lav., 2015, II, 177 ss.).
Di fronte a indirizzi interpretativi molto diversi, in seno alla stessa Sezione lavoro oltre che presso la strabordante giurisprudenza di merito, le Sezioni unite erano chiamate a una delicatissima funzione nomofilattica in ordine ai criteri di determinazione del “danno comunitario” da utilizzo abusivo dei contratti a termine nel settore pubblico.
Come si ricorda diffusamente nella motivazione della sentenza in rassegna (e prima ancora nell'ordinanza interlocutoria della Sezione lavoro del 4 agosto 2015, n. 1636, pubblicata in Lav. publ. amm., 2015, II, 307 ss., con nota di A. Allamprese, Contratto a tempo determinato nel pubblico impiego e danno da violazione del diritto dell'Unione europea: parola alle Sezioni unite), due principali indirizzi interpretativi dividevano il campo della giurisprudenza di legittimità: da un lato, quello che faceva riferimento al parametro offerto dall' art. 32, comma 5, L. n. 183 del 2010 ; dall'altro, quello che individuava il criterio di commisurazione del danno nell' art. 8, L. n. 604 del 1966 . Ad essi si aggiungeva – nel caso genovese che aveva per l'appunto occasionato la rimessione della questione alle Sezioni unite – il parametro risarcitorio desunto dalla previsione di cui al vecchio testo dell' art. 18, commi 4 e 5, dello Statuto dei lavoratori .
Ma il panorama della giurisprudenza di merito (e, in parte, per la verità, degli stessi orientamenti della Cassazione) era ancora più frastagliato, non solo per l'esistenza di varianti interne ai metodi liquidatori appena rammentati (ad esempio in ordine alla possibilità di dedurre o meno in via equitativa l' aliunde perceptumuna volta assunto il parametro dell'art. 18 dello Statuto), ma anche per la delineazione di criteri alternativi, più o meno diversi, ancorché prevalentemente ancorati al trattamento economico che sarebbe complessivamente spettato al lavoratore ove fosse stato (legittimamente) assunto a tempo indeterminato dalla pubblica amministrazione interessata [cfr., più di recente, l'ampia rassegna di A. Andreoni, Il risarcimento del danno da violazione della normativa dell'Unione europea, in A. Allamprese (a cura di), Il danno nel diritto del lavoro. Funzione risarcitoria e dissuasiva, Roma, 2015, 67 ss., spec. 82-93]. Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni unite hanno fatto propria – nella sentenza in commento – la soluzione che elegge a parametro del risarcimento del danno comunitario da abuso del contratto a termine nel settore pubblico l' art. 32, comma 5, L. n. 183 del 2010.
Secondo la Corte tale soluzione si lascia preferire in quanto meglio delle altre alternativamente proposte in giurisprudenza soddisfa i requisiti di effettività, proporzionalità, deterrenza (ovvero efficacia dissuasiva) ed equivalenza imposti dalla esigenza di conformazione dei rimendi contemplati dall'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea.
Anzitutto, sul piano della equivalenza, la Corte ritiene che la fattispecie maggiormente omogenea rispetto ai rimedi azionabili nel settore privato sia quella – «sistematicamente coerente e strettamente contigua» – di cui all' art. 32, comma 5, L. n. 183 del 201 0 , alla cui stregua, in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, ovvero di proroga o reiterazione dello stesso in violazione della legge, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità onnicomprensiva (e quindi inglobante ogni conseguenza retributiva e contributiva relativa al periodo tra la scadenza del termine e la sentenza) compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell' art. 8, L. n. 604 del 1966 (v. ora l' art. 28, comma 2, D. Lgs. n. 81 del 2015 ).
La efficacia dissuasiva e, con essa, la stessa effettività della misura sono d'altra parte assicurate dal fatto che, con tale soluzione, è pienamente realizzata quella agevolazione della prova che la Corte di giustizia ha in più occasioni ritenuto essenziale al fine di garantire la conformità dell'ordinamento interno alla clausola 5 dell'accordo quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE (si veda con particolare incisività l' or dinanza del 12 dicembre 2013 nella causa C-50/13, Papalia). Il lavoratore viene infatti esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto ex lege e determinato tra un minimo e un massimo, onde può dirsi che un tale meccanismo presuntivo «esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria».
Infine, quanto al criterio della adeguatezza e della proporzionalità del rimedio risarcitorio, ferma la determinazione entro la predetta misura minima e massima del danno presunto, il lavoratore pubblico – a differenza di quello dipendente da datore di lavoro privato (v. Corte cost . 11 novembre 2011, n. 303 ) – avrà sempre la possibilità di provare che le «chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato». Osservazioni
Le Sezioni unite accolgono in tal modo una soluzione che, benché autorevolmente recepita in uno degli orientamenti interpretativi della Sezione lavoro della Suprema Corte, appariva tendenzialmente minoritaria nella giurisprudenza di merito, ove sembrava ricevere il consenso maggiore la tesi, difatti accolta anche dai giudici genovesi nel caso de quo, diretta ad ancorare il parametro risarcitorio al più robusto meccanismo presuntivo delineato dal combinato disposto dei commi 4 e 5 del vecchio testo dell' art. 18 dello Statuto dei lavoratori .
Anche in dottrina si tendeva invero a sottolineare la maggiore rispondenza di tale ultimo parametro ai canoni di effettività ed efficacia dissuasiva richiesti dalla giurisprudenza comunitaria, rilevandosi come – dissociato dall'effetto della conversione in rapporto a tempo indeterminato che è invece proprio, ma per il solo settore privato, del meccanismo sanzionatorio complessivamente delineato dall' art. 32, comma 5, L. n. 183 del 2010 – il parametro forfettario offerto da tale ultima previsione fosse quantomeno inidoneo ad assicurare il rispetto del principio di equivalenza (cfr. in tal senso ad es. Andreoni, op. cit., 92, e per un più ampio ragionamento nella medesima prospettiva G. Ferraro, Tecniche risarcitorie nella tutela del lavoro, in Allamprese, Il risarcimento del danno, cit., 41 ss., spec. 65).
È innegabile che nella struttura della fattispecie sanzionatoria che si trova oggi tipizzata nell' art. 28 del D. Lgs. n. 81 del 2015 l'indennizzo forfettario del danno, da essa contemplato, non possa essere scisso dalla trasformazione del contratto in un comune rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Sotto tale profilo, le Sezioni unite giustificano la diversa soluzione accolta per il settore pubblico contrattualizzato – dove la trasformazione del rapporto è espressamente interdetta dall' art. 36, D. Lgs. n. 165 del 2001 con scelta che è stata ripetutamente ritenuta conforme tanto ai principi costituzionali “interni” quanto al diritto dell'Unione europea – rilevando come, proprio in virtù di questo diverso assetto normativo, la mancata conversione del rapporto si collochi come tale al di fuori dell'area del danno risarcibile. Nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in forza della regola generale (legittimamente) consacrata dall' art. 36 del D. Lgs. n. 165 del 2001 (e ribadita dall' art. 29 , comma 4, del D. Lgs. n. 81 del 2015 ), il danno, in altri termini, non può essere commisurato (come avviene invece nella diversa logica dell' art. 18, L. n. 300 del 1970 ) alla perdita del posto di lavoro, per l'appunto «perché una tale prospettiva non c'è mai stata», come sottolinea icasticamente la sentenza in commento.
Nella impostazione delle Sezioni unite – che è in ciò del tutto coerente con tale originaria e diremmo pregiudiziale difformità del dato normativo –, la equivalenza tra settore pubblico e privato quanto a rimedi azionabili viene recuperata ammettendo il lavoratore alla prova del maggior danno subìto in concreto (per la perdita delle chances di impiego e più in generale di carattere professionale derivanti dall'illecito comportamento contrattuale della pubblica amministrazione), oltre la misura presunta, entro il minimo delle 2,5 e il massimo delle 12 mensilità, dall' art. 32 della L. n. 183 del 2010 (e, oggi, dall' art. 28 del D. Lgs. n. 81 del 2015 ). |