Recesso per giusta causa dell'agente e diritto al minimo provvigionale
18 Novembre 2016
Massime
La condotta del preponente che renda più difficoltoso per l'agente l'esercizio dell' attività lavorativa (nella specie, con ordini di affiancamento, a settimane alterne, a colleghi operanti in zone geografiche lontane tra di loro che costringevano l'agente a viaggiare tra il nord e il sud d'Italia) costituisce una giusta causa di recesso dell'agente, in quanto gravemente lesiva del vincolo fiduciario, da essa desumendosi la volontà di arrecargli disagio nello svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto dell'importanza del ruolo dell'agente, responsabile di una attività di coordinamento nella sua autonomia di programmazione e non soggetto a direttive vincolanti.
La perdita del compenso provvigionale minimo subita dall'agente che receda per giusta causa prima del termine fissato per la liquidazione di tale somma, non costituisce un danno da perdita di chance ma un danno da lucro cessante, in quanto non integra una mera occasione sfumata di conseguire un determinato bene ma costituisce un mancato guadagno (quasi) certo, quale conseguenza immediata e diretta, a norma dell'art. 1223 c.c., del suddetto recesso. Rispetto ad una tale qualificazione giuridica, non ricorre alcun inammissibile mutamento della domanda di risarcimento da lucro cessante in quella da perdita di chance per l'obiettiva diversità delle due tipologie di danno. Il caso
La vicenda in esame riguarda il caso di un agente di commercio, capo area per l'Italia orientale, responsabile di una attività di coordinamento e non soggetto a direttive vincolanti, che recede per giusta causa a seguito di un comportamento dell'amministratore unico della società preponente fonte di notevole disagio per la sua attività (mancata consegna del materiale promozionale richiesto per il suo lavoro, ordini di affiancamento, a settimane alterne, di un collega in Friuli e di un altro in Puglia). Il giudice di secondo grado, la Corte d'Appello di Ancona, riteneva sussistere la giusta causa ma escludeva il diritto dell'agente al minimo provvigionale pattuito in euro 80.000 ritenendo che non era ancora decorso il termine stabilito per il riconoscimento del relativo compenso e che mancava la prova della certezza della percezione del relativo importo.
Ricorreva in Cassazione la società preponente censurando la pronuncia per vizio di motivazione sull'erroneo assunto di giusta causa del recesso e per violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. per inesistenza di alcun inadempimento ad obblighi fondamentali della preponente integranti giusta causa di recesso dell'agente. L'agente a sua volta spiegava ricorso incidentale lamentando che, nel negargli il trattamento minimo provvigionale - la cui corresponsione era stata fissata contrattualmente in data successiva a quella in cui si era verificato il recesso - la Corte fosse incorsa in una erronea elaborazione del giudizio prognostico, travisando i principi in materia di risarcimento del danno da perdita di chance.
La Corte di Cassazione ritiene inammissibili i motivi di censura avanzati dalla società perché tesi ad una diversa ricostruzione del fatto a fronte di una motivazione logica e coerente, ed accoglie il motivo incidentale dell' agente, affermando che la perdita, per effetto del recesso, del trattamento provvigionale minimo dovesse qualificarsi come mancato guadagno ai sensi dell'art. 1223 c.c. e dunque che la percezione di tale importo fosse esclusivamente dipendente dalla consumazione del termine finale. Le questioni
La pronuncia in esame affronta due rilevanti questioni attinenti all'istituto del recesso per giusta causa nel contratto di agenzia:
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte dà continuità all'orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l'istituto del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., previsto per il rapporto di lavoro subordinato, è applicabile analogicamente anche al contratto di agenzia e, nella fattispecie, al recesso dell'agente, con consequenziale diritto di quest'ultimo alla indennità prevista dall'art. 1751 c.c. in caso di cessazione del rapporto (tra le molte, Cass. sez. lav., 29 settembre 2015, n. 19300; Cass. sez. lav., 12 ottobre 2007, n. 21445). E fa presente che nel contratto di agenzia, per la valutazione della gravità della condotta che può dare luogo a giusta causa di recesso, il rapporto di fiducia assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell'attività di cui gode l'agente, per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali e che, di conseguenza, per la legittimità del recesso nel rapporto di agenzia, è sufficiente un inadempimento di consistenza minore rispetto a quella richiesta nel lavoro subordinato. Ciò vale anche quando il rapporto di agenzia sia caratterizzato dalla parasubordinazione (v. per tutte, Cass. sez. lav., 25 maggio 1996, n. 4849).
La Corte ricorda che quella di giusta causa è una nozione che la legge – al fine di consentire l'adeguamento delle norma alla realtà sociale, articolata e mutevole nel tempo - configura come una disposizione di limitato contenuto, come un modello generico che richiede di volta in volta di essere specificato in sede interpretativa. Al riguardo, specifica che va distinto l'accertamento della concreta ricorrenza, nei fatti dedotti, degli elementi che integrano il parametro normativo e della loro attitudine a costituire giusta causa di recesso - che costituisce una valutazione dei fatti demandata al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se priva di errori logici o giuridici - e l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. Quest'ultima, infatti, viene compiuta dal giudice di merito al pari di ogni giudizio fondato su norme giuridiche, atteso che, nell'esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma elastica, il giudice compie un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori. La Suprema precisa che il suo sindacato si limita proprio a questa attività di sussunzione del fatto - incontestato - nella norma elastica, trattandosi di un sindacato sul vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c. p. c., precisando che comunque ciò può avvenire solo “a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. sez. lav., 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. sez. lav., 2 marzo 2011, n. 5095)”.
Ciò premesso, a giudizio della Suprema, la Corte marchigiana ha correttamente integrato il precetto elastico della giusta causa, in quanto, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha giudicato di “rilevante gravità” la condotta addebitata al preponente che aveva reso più difficile per l'agente l'esercizio del suo lavoro “tenuto conto dell'importanza del suo ruolo di capo area dell'Italia orientale, responsabile di un'attività di coordinamento nella sua autonomia di programmazione e non soggetto a direttive vincolanti”. Tale argomentazione della Corte territoriale porta a ritenere inammissibili le censure attinenti al vizio di motivazione ai sensi dell' art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. (oggetto della riformulazione operata dal D.L. n. 83/2012 conv. nella L. n. 134/2012), perché si risolvono in una rivisitazione critica dei fatti posti alla base del recesso dell'agente e delle valutazioni probatorie, di competenza esclusiva del giudice di merito.
Interessante è anche la seconda questione affrontata dalla Suprema, relativa alla qualificazione giuridica della mancata corresponsione all'agente della provvigione minima di 80.000 euro che la società preponente si era obbligata ad erogare all'agente qualora, entro una determinata data (il 31 agosto 2004, successiva a quella in cui vi è stato il recesso) questi non avesse conseguito compensi provvigionali di pari importo. In proposito, gli ermellini affermano un importante principio di diritto secondo cui la perdita del minimo provvigionale pattuito “non integra una mera occasione sfumata di conseguire un determinato bene, alla stregua di una perdita di chance, ma un mancato guadagno (quasi) certo, quale conseguenza immediata e diretta a norma dell'art. 1223 c.c. del suddetto recesso, esclusivamente dipendente dalla consumazione del termine finale, indipendentemente dal volume di provvigioni conseguito, inferiore a quello minimo garantito.” In tal modo, la Corte marca una netta distinzione (non così scontata in giurisprudenza, si v. ad esempio, Cass. Civ., 10 dicembre 2012, n. 22376 che utilizza indistintamente i termini “danno da lucro cessante o da perdita di chance”), rilevante ai fini probatori, tra due tipologie di danno: quello da lucro cessante, qualificato come “effettiva diminuzione patrimoniale, quale naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di una rilevante probabilità secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto” e danno da perdita di chance quale “concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, ancorché non consistente in una mera aspettativa di fatto, ma in un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto”. E conclude per la riforma della sentenza di appello nella parte in cui afferma che “non si ha prova della certa percezione dell'importo” nella ipotesi in cui l'agente “non fosse stato costretto a recedere dal rapporto”, in quanto nel tempo intercorrente tra il recesso e la data fissata per l'erogazione dell'importo “si sarebbero potute verificare le più svariate circostanze, tali da escludere il diritto alla provvigione minima garantita”. In tal modo, sottolinea la Suprema, i Giudici di Appello finiscono per negare lo stesso giudizio prognostico “posto che l'attesa della maturazione del termine” fissato per la percezione dell'importo, “contraddice radicalmente la formulazione di un giudizio secondo un criterio di rilevante probabilità” mentre pone in evidenza la necessità di rapportarsi ai criteri di “certezza” che presiedono alla liquidazione del danno “già completamente verificatosi al momento del giudizio”. Osservazioni
La pronuncia ha ricordato che il precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. costituisce una norma “elastica” che necessita di un'attività di integrazione ad opera del giudice di merito. Al riguardo, la giurisprudenza ha rilevato che il vincolo fiduciario che lega l'agente al preponente riveste una intensità maggiore rispetto a quella richiesta nel rapporto di lavoro subordinato, con la conseguenza che, ai fini della legittimità del recesso del preponente o dell'agente, può essere ritenuto sufficiente un inadempimento di minore consistenza. Così, sono state ritenuta idonee a giustificare un recesso in tronco da parte del preponente, la condotta del titolare di agenzia che aveva inserito, nelle classi di merito di alcune polizze assicurative, autoattestazioni di rischio degli assicurati successivamente disconosciute dalle relative compagnie assicuratrici (Cass. sez. lav., 30 ottobre 2015, n. 22285) come pure la condotta dell'agente che aveva emesso polizze auto su diverse piazze italiane non perfezionate, né registrate, né talvolta rinvenute presso l'agenzia preponente (Cass. sez. lav., 17 febbraio 2011, n. 3869) mentre è stata ritenuta irrilevante la mancata partecipazione dell'agente ad una riunione indetta dal preponente in quanto ritenuto obbligo meramente strumentale ed accessorio rispetto alla principale obbligazione dell'agente (Cass. sez. lav., 12 giugno 2000, n. 7986).
Così, sono stati ritenuti legittimi perché sorretti da giusta causa: il recesso dell' agente a seguito di una drastica diminuzione del proprio portafoglio clienti dovuta al mutamento dei rapporti commerciali tra la società preponente ed una società terza (Cass. sez. lav., 1 aprile 2014, n. 7567), il recesso in presenza di un rifiuto del preponente di pagare le provvigioni per uno specifico ordine (Cass. sez. lav., 26 maggio 2014, n. 11728) e il recesso dell'agente in caso di cessione di azienda senza sufficiente garanzia, da parte del cessionario, del regolare adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del rapporto di durata (Cass. sez. lav., 12 ottobre 2007, n. 21445). Così pure si è precisato che benché il preponente abbia l'obbligo, ai sensi dell'art. 1749 c.c., di agire con correttezza e buona fede nei confronti dell'agente, potendo la violazione di detti obblighi contrattuali configurare, in base alla gravità delle circostanze, giusta causa di scioglimento dello stesso rapporto di agenzia, tuttavia, a differenza che nel rapporto di lavoro subordinato, non sussiste un suo obbligo, analogo a quello del datore di lavoro, di protezione della professionalità del lavoratore dipendente (così Cass. sez. lav., 29 settembre 2015, n. 19300, che ha statuito che il preponente non è tenuto a tutelare gli interessi dell'agente attraverso l'imposizione di regole di conservazione dei contratti procurati a garanzia dell'immagine di colui che abbia concorso a procurarli).
Inoltre, con riguardo alle modalità di comunicazione del recesso, ferma restando la necessità della contestazione immediata dei fatti posti alla base del recesso (con la conseguente preclusione di dedurre successivamente fatti diversi da quelli contestati), il preponente - a differenza di quanto richiesto nel lavoro subordinato - non è comunque tenuto a fare riferimento fin dal momento della comunicazione del recesso a fatti specifici essendo, al contrario, sufficiente che essi, in caso di controversia, siano dedotti e correlativamente accertati dal giudice (Cass. sez. lav., 27 febbraio 1989, n. 1071) e che l'agente sia posto in condizione di difendersi con congruo anticipo, in quanto i fatti siano dall'agente conosciuti aliunde (tra le più recenti pronunce, v. Trib. Pescara 8 luglio 2016, n. 691; per la giurisprudenza di legittimità, tra le molte, Cass. sez. lav. 25 marzo 2011, n. 7019; Cass. sez. lav., 4 giugno 2008, n. 14771).
La sentenza in commento, come detto, affronta anche la questione della qualificazione del danno subito dall'agente per la mancata percezione del compenso provvigionale minimo, da corrispondersi in una data successiva a quella in cui è stato esercitato il recesso, e, nella fattispecie, ritiene che si tratti di danno futuro, in termini di lucro cessante che, pertanto, va risarcito quale “effettiva diminuzione patrimoniale” e “naturale sviluppo di fatti concretamente accertati”. In proposito rimarca un discrimen tra danno da lucro cessante e danno da perdita di chance: il primo è un danno futuro e certo, il secondo è un danno potenziale. Tale distinzione ha rilevanti ricadute applicative: mentre nel primo caso, per la risarcibilità del danno il giudice deve accertare se vi sia stata una “effettiva diminuzione patrimoniale” facendo ricorso ad un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (Cass. Civ., 27 aprile 2010, n. 10072), nel secondo caso deve basarsi su un giudizio probabilistico che tenga conto della perdita di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene.
La Suprema Corte mostra così di aderire a quella giurisprudenza consolidata secondo cui per rendere risarcibile un danno futuro se non basta la “mera eventualità” di un pregiudizio futuro è invece sufficiente la fondata attendibilità che esso si verifichi secondo la normalità e la regolarità dello sviluppo causale (v. per tutte, Cass. Civ., 14 febbraio 2000, n. 1637; Cass. sez. lav., 20 gennaio 1987, n. 495). Inoltre, operando il suddetto discrimen, sembra aderire alla tesi “intermedia” sulla natura del danno da perdita di chance, oggi prevalente rispetto alle due che si erano contrapposte in passato: la tesi cosiddetta ontologica e la tesi cosiddetta eziologica. Secondo la prima, la chance deve intendersi riferita ad un danno emergente comunque attuale e concreto, trattandosi di bene suscettibile di valutazione patrimoniale in sé e per sé. Conseguentemente, secondo questa tesi viene risarcita la perdita della mera opportunità, possibilità ed anche solo speranza, di conseguire un'utilità (v. Cass. sez. lav., 27 giugno 2007, n. 14820; Cass. Civ. - Sez. Un.,26 gennaio 2009, n. 1850; Cass. Civ., 18 settembre 2008, n. 23846; Cass. Civ., 25 maggio 2007, n. 12243). In termini probatori, la prova del danno da perdita di chance non attiene al nesso eziologico tra condotta ed evento (all'an), ma riguarda la consistenza percentuale di un bene già presente nel patrimonio del soggetto (il quantum). La tesi eziologica, invece, qualifica la chance in termini di lucro cessante, ritenendo che la sua perdita sia risarcibile solo quando l'occasione perduta si presentava, se valutata con prognosi postuma, anche in via presuntiva, assistita da “considerevoli possibilità di successo” o da “ragionevole probabilità di verificarsi” (v. Cass. Civ., 28 settembre 2010, n. 20351; Cass. Civ., 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. Civ., 19 febbraio 2009, n. 4052). Conseguentemente, secondo quest'altra tesi, la chance assurge ad uno strumento per dimostrare il nesso causale tra la condotta impeditiva e la verificazione del danno patito. |