Impugnazione del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale per violenza morale e dolo

Francesco Bedon
18 Maggio 2017

Nell'ambito dei rapporti di lavoro è sempre più consueto, anche in un'ottica deflattiva delle potenziali controverse giurisdizionali, che il dipendente ed il datore di lavoro convengano di stipulare accordi e pattuizioni con le quali il lavoratore, volontariamente, abdica alla facoltà di godere, o anche di rivendicare in sede giudiziale, alcuni diritti riconosciuti dalla legge o dal contratto collettivo, a fronte di concessioni, spesso di natura economica, da parte del datore di lavoro. Altrettanto frequenti sono però i casi in cui i lavoratori, all'esito di una conciliazione, decidono di impugnare la transazione stipulata, contestandone la validità e invocando la sussistenza di vizi sostanziali (vizi del consenso) o formali al momento della sottoscrizione dell'accordo. L'articolo, dopo un breve excursus sulla disciplina vigente in tema di conciliazioni e transazioni, analizza due recenti pronunce giurisprudenziali che hanno esaminato l'impugnazione da parte di lavoratori di due conciliazioni per un dedotto vizio del consenso, e in particolare in un caso per violenza morale e nell'altro per dolo.
Inquadramento

Nell'ambito dei rapporti di lavoro è sempre più consueto, anche in un'ottica deflattiva delle potenziali controverse giurisdizionali, che il dipendente ed il datore di lavoro convengano di stipulare accordi e pattuizioni con le quali il lavoratore volontariamente abdica alla facoltà di godere, o anche di rivendicare in sede giudiziale, alcuni diritti riconosciuti dalla legge o dal contratto collettivo, a fronte di concessioni, spesso di natura economica, da parte del datore di lavoro.

La disciplina in tema di rinunce e transazioni nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato è costituita dall'art. 2113 c.c., che prevede, al comma 1, l'invalidità, o meglio l'annullabilità, dei soli accordi transattivi con cui il lavoratore rinuncia a diritti inderogabili scaturenti da norme di legge o di contratto.

Tali pattuizioni, proprio perché ricadono nel regime dell'annullabilità e non in quello della nullità, devono essere impugnate dal lavoratore entro 6 mesi dalla loro sottoscrizione, a pena di decadenza: nel caso in cui il lavoratore ometta di impugnare la transazione nel termine semestrale previsto dalla norma citata, per la legge, il lavoratore implicitamente attribuisce validità in via definitiva all'atto originariamente viziato.

La giurisprudenza, nel corso del tempo, ha infatti operato una netta differenziazione all'interno della categoria dei diritti indisponibili ex art. 2113 c.c., distinguendo un nucleo di diritti assolutamente indisponibili (es.i diritti aventi un contenuto non patrimoniale, posti a tutela dell'integrità fisica del prestatore ex art. 2087 c.c.; il diritto al TFR, etc. ..), la cui dismissione è affetta da nullità (e non dalla semplice annullabilità) insanabile, e diritti relativamente indisponibili la cui rinuncia è invece sanabile omettendo di impugnare l'accordo transattivo nel termine semestrale di decadenza.

Tanto premesso, occorre inoltre precisare che il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare il licenziamento, facendone oggetto di rinunce o transazioni che sono sottratte alla disciplina dell'art. 2113 c.c., che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi.

Infatti, l'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra nell'area della libera disponibilità, come è desumibile dalla facoltà di recesso "ad nutum" di cui il medesimo dispone, dall'ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e dalla possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione (Cass. sez. lav., n. 13134/2000).

Quindi, l'accordo concluso tra dipendente e datore di lavoro avente ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2113 c.c., in quanto, anche quando è garantita la stabilità del posto di lavoro, l'ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso in base all'art. 2118 c.c. (Cass. sez. lav., n. 22105/2009 e Cass. civ., sez. VI, n. 6265/2014).

Accordi nelle sedi c.d. "protette" e vizi del consenso

Nella maggior parte dei casi le transazioni con i lavoratori vengono formalizzate nelle sedi c.d. “protette”, previste dall'art. 2113, co. 4, c.c. (Commissioni di conciliazione presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro [ex DTL], Sindacati, Commissioni di certificazione, etc.,..), così da assicurare un adeguato supporto al lavoratore e in modo da far rientrare nelle rinunce del prestatore, che sono oggetto della transazione, anche i diritti scaturenti da norme inderogabili di legge o da accordi collettivi.

L'art. 2113, co. 4, c.c. prevede infatti espressamente che il regime di invalidità previsto dall'art. 2113 c.c. non si applica, e quindi l'atto abdicativo è pienamente valido ed efficace, qualora il consenso all'atto di rinuncia o transazione sia stato prestato in una delle c.d. “sedi protette”.

L'intervento del sindacato, considerato soggetto terzo che garantisce il lavoratore, è idoneo a superare la presunzione di condizionamento del consenso del lavoratore, garantendo la genuinità della scelta dello stesso e la consapevolezza dei diritti dismessi. Va poi rilevato che l'accordo raggiunto in sede sindacale può ascriversi al novero di quei negozi, qualificati in dottrina anche come atti di autonomia negoziale individuale assistita, in cui la presenza del rappresentante sindacale - cui è stato conferito espresso mandato - funge da garanzia di libertà effettiva e di informazione piena del lavoratore circa i suoi diritti. In altre parole, la “copertura” sindacale suggerisce che il contenuto della conciliazione esprima, per quanto riguarda la posizione del lavoratore, una consapevole volontà di rinuncia globale, raggiunta senza alcuna coartazione della spontaneità della rappresentazione della realtà, con l'intento di definire, contestualmente alla firma dell'accordo, la questione pendente.

La preclusione in parola, tuttavia, non impedisce al giudice di accertare la sussistenza di eventuali vizi del consenso in cui siano incorse le parti nella definizione dell'accordo in sede sindacale, con una valutazione di fatto che, se adeguatamente motivata, è incensurabile in sede di legittimità (si veda Cass. sez. lav., 20 febbraio 1988, n. 1804).

Peraltro, risultano frequenti i casi in cui i lavoratori, all'esito di una conciliazione stipulata in sede sindacale - e spesse volte dopo avere già percepito dall'azienda il corrispettivo pattuito nell'accordo - decidono di impugnare la transazione stipulata, contestandone la validità e invocando la sussistenza di vizi sostanziali (vizi del consenso) o formali, come, ad esempio, la mancata assistenza effettiva del soggetto sindacale, al momento della sottoscrizione dell'accordo.

Primo caso giurisprudenziale

Dopo questa prima breve panoramica sulle transazioni e sulla loro impugnabilità, andiamo ad analizzare 2 sentenze, una emessa dalla giurisprudenza di merito ed una dalla Corte di Cassazione, che si sono pronunciate su due fattispecie dove i lavoratori, al fine di travolgere e superare l'efficacia preclusiva di una intervenuta conciliazione avvenuta in sede sindacale, e all'esito di una procedura di licenziamento collettivo, hanno dedotto un vizio del consenso, nel caso oggetto dell'esame dal Tribunale di Napoli consistito nella violenza morale, e nel caso della Suprema Corte consistito nel dolo.

Nel caso su cui si è pronunciato il tribunale partenopeo (Trib. Napoli, 26 gennaio 2017, n. 660), due lavoratrici, di cui una “referente sindacale” aziendale, venivano coinvolte in una procedura di licenziamento collettivo ex art. 4 e 24, L. n. 223/1991, in cui interveniva anche l'O.S. territoriale di riferimento, che si concludeva con un accordo tra azienda e O.S. – che lo aveva illustrato e condiviso con i lavoratori - di non opposizione al licenziamento a fronte dell'indennità di mobilità e della corresponsione ai lavoratori di un incentivo all'esodo, subordinato alla sottoscrizione da parte di ciascun lavoratore di un accordo transattivo “tombale” da formalizzarsi in sede sindacale.

Successivamente alla ratifica del verbale di conciliazione in sede protetta e alla percezione dell'incentivo all'esodo pattuito nell'accordo transattivo, le due lavoratrici impugnavano il verbale di conciliazione sottoscritto con l'assistenza sia del preposto conciliatore, sia della funzionaria provinciale dell'OO.SS. a cui avevano conferito mandato di assisterle.

In particolare, le lavoratrici asserivano l'invalidità del verbale di conciliazione deducendo sia la mancata effettiva assistenza da parte del rappresentante sindacale nella conclusione del verbale di conciliazione, sia l'intervenuta soggezione psicologica che le lavoratrici avrebbero patito a causa delle condotte dei rappresentanti sindacali e del Direttore risorse umane dell'azienda, che avrebbero “minacciato” di non corrispondere l'incentivo all'esodo in caso di mancata sottoscrizione del verbale di conciliazione individuale.

Il Tribunale di Napoli ha quindi dapprima verificato che l'accordo fosse stato raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte degli esponenti della sua organizzazione sindacale, analizzando se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, fosse stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa: “Occorre, dunque, che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale, cioè di quella alla quale egli ha ritenuto di affidarsi" (Cass. sez. lav., n. 11167/1991).

Secondo il Tribunale partenopeo, dal verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale, emergeva che entrambe le lavoratrici non solo avevano conferito espresso e specifico mandato alla OO.S.S., essendo indicata sia la funzionaria territoriale, segretaria di tale OO.SS. “in assistenza della lavoratrice”, ma avevano anche sottoscritto il verbalea conferma del mandato conferito alla FILCAMS CGIL”.

Ulteriore conferma dell'effettività dell'assistenza sindacale ricevuta dalle lavoratrici, secondo il Giudice derivava dalla circostanza che, oltre alla Segretaria Provinciale dell'OO.S.S., era presente al momento della firma anche un altro sindacalista nel ruolo di Conciliatore e di rappresentante delle ricorrenti, come risultava dalla delega firmata e allegata all'accordo transattivo.

Il Tribunale osservava inoltre che, nel caso di specie, una delle due lavoratrici, per volontà dei colleghi, aveva svolto la funzione di referente sindacale aziendale e, pertanto, era strettamente a contatto con la Segretaria Provinciale dell'O.O.S.S., tanto da comunicarle i nominativi dei lavoratori che, a fronte di un incentivo all'esodo, non si sarebbero opposti alla procedura di mobilità avviata dall'azienda: circostanza che dimostrerebbe come le lavoratrici fossero perfettamente a conoscenza che la procedura di mobilità si sarebbe conclusa con una non opposizione al licenziamento, la stipula di un verbale di conciliazione in sede sindacale e l'erogazione a loro favore di un incentivo all'esodo.

Inoltre, stante la costante presenza ed il ruolo prettamente attivo svolto dalla funzionaria dell'OO.SS., che in tutte le fasi della procedura di mobilità aveva informato e assistito i lavoratori, il Tribunale giungeva alla conclusioneche le lavoratrici fossero pienamente consapevoli che il licenziamento sarebbe avvenuto solo a condizione della sottoscrizione del verbale di conciliazione individuale che prevedeva un incentivo all'esodo, risulta dalla partecipazione delle stesse lavoratrici nella fase della procedura di mobilità, avendo le medesime proposto la non opposizione al licenziamento dietro pagamento di un incentivo all'esodo, come indicato nella mail del 20.1.14”.

Secondo il Tribunale dunque, nella specie il contenuto della stessa transazione “non è il frutto di imposizione unilaterale del datore di lavoro, senza un valido apporto delle organizzazioni sindacali interessate, ma risulta oggetto di un contributo delle stesse lavoratrici, essendo stato concluso dopo contatti intercorsi tra rappresentanti sindacali, la parte datoriale e le stesse ricorrenti. Quindi, il fatto che, secondo le ricorrenti, tale assistenza sia stata mal resa, è questione che non riguarda la sua effettività, ma il merito dell'assistenza stessa e tocca, semmai, i rapporti tra lavoratore e rappresentante sindacale, ma non può incidere sulla validità della transazione senza, peraltro, condurre il giudice ad una inammissibile valutazione, nel merito, del contenuto dell'accordo sostituendosi al rappresentante sindacale" (Trib. Larino, 13 agosto 2011, n. 80).

Alla luce di ciò, emerge il principio per cui ruolo attivo e partecipe svolto dagli organi sindacali e dalle stesse lavoratrici che hanno proposto di non opporsi al licenziamento dietro pagamento di un incentivo è sufficiente a sottrarre il lavoratore da una condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, con la conseguenza che l'accordo si ritiene raggiunto in una situazione di effettiva assistenza e garanzia del lavoratore da parte degli esponenti dell'organizzazione sindacale.

Il Tribunale passava poi ad esaminare il secondo motivo di impugnazione dei verbali di conciliazione, ossia l'asserita sussistenza di una soggezione psicologica da parte delle ricorrenti a causa delle condotte adottate sia dai rappresentanti sindacali, sia del Direttore delle risorse umane dell'azienda, che avrebbero “minacciato” di non corrispondere l'incentivo all'esodo in caso di mancata sottoscrizione della conciliazione individuale.

Il Tribunale, dopo avere osservato che con il verbale di accordo sindacale conclusivo della procedura di licenziamento collettivo era stato stabilito che l'azienda avrebbe proceduto alla riduzione del personale ed alla contestuale messa in mobilità volontaria dei lavoratori che avessero aderito alla mobilità solo a condizione che venissero sottoscritti specifici verbale di conciliazione individuali, nei quali era previsto un incentivo all'esodo, rilevava che: “era noto alle parti attrici che la buona uscita sarebbe stata corrisposta solo previa sottoscrizione dei verbali di conciliazione che presupponeva la non opposizione al licenziamento e le relative rinunce: in tal modo, il mancato pagamento del bonus, in caso di omessa sottoscrizione del verbale, non integra una violenza morale, che per essere tale deve essere di tal natura da fare impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole.

Ed infatti, in tema di violenza moralequale vizio invalidante del consenso, i requisiti previsti dall'art. 1435 c.c. possono variamente atteggiarsi, a seconda che la coazione si eserciti in modo esplicito, manifesto e diretto, o, viceversa, mediante un comportamento intimidatorio, oggettivamente ingiusto, anche ad opera di un terzo; è in ogni caso sempre necessario che la minaccia sia stata specificamente diretta al fine di estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l'annullabilità e risulti di tale natura da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell'autore di essa” (Cass. sez. lav., 18 agosto 2004, n. 16179)”.

Nella specie, entrambe le lavoratrici avevano già dichiarato alla loro OO.SS. di non opporsi al licenziamento per poter fruire dell'incentivo all'esodo da parte della Società e dell'indennità di mobilità, tanto che la procedura di licenziamento collettivo si è chiusa con un accordo in tal senso, che le lavoratrici hanno poi formalizzato con gli accordi individuali.

Non vi è stata, dunque, alcuna minaccia per forzare le ricorrenti alla stipula del verbale di conciliazione impugnato; anzi, è stata proprio per volontà delle ricorrenti e delle loro colleghe che la procedura di mobilità ha avuto tale esito.

Precisa inoltre il Tribunale facendo presente che “Né d'altro canto è configurabile un male ingiusto, atteso che la società non era in alcun modo condizionata al pagamento del bonus, essendo frutto di una scelta discrezionale correlata alla non opposizione al recesso e alla sottoscrizione dei verbali di conciliazione”.

Si consideri poi, che al momento della conclusione del verbale di conciliazione, le ricorrenti risultavano licenziate e, quindi, non avrebbero potuto aspirare al pagamento del bonus qualora non avessero sottoscritto il verbale di conciliazione, potendo solo impugnare il recesso ed ottenendo le tutele previste dall'ordinamento in caso di fondatezza delle domande. Non è configurabile quindi alcuna violenza morale, né pressioni piscologiche quando si condiziona la corresponsione di un incentivo all'esodo alla stipula di un verbale di conciliazione che è, quindi, perfettamente valido ed efficace, quando sottoscritto nella piena consapevolezza delle parti che hanno assunto precisi, reciproci e legittimi impegni.

Secondo caso giurisprudenziale

Ha avuto esito decisamente diverso il giudizio avanti alla Corte di Cassazione, conclusosi con la sentenza 30 marzo 2017, n. 8260.

Nel caso su cui si è pronunciata la Suprema Corte, un dipendente veniva licenziato all'esito di una procedura di mobilità, sulla base che la sua posizione lavorativa fosse eccedente e sarebbe stata, dunque, soppressa. Il dipendente sottoscriveva un verbale di conciliazione sindacale per formalizzare e accettare la conclusione del rapporto, ma subito dopo il lavoratore veniva a conoscenza del fatto che l'azienda aveva assunto un nuovo dipendente per lo svolgimento delle medesime attività da lui stesso svolte in precedenza.

Il lavoratore impugnava il verbale di conciliazione, adducendo che dalla ricerca datoriale di una posizione lavorativa identica alla propria derivava la conseguente inesistenza delle condizioni della sua esuberanza, ed integrava la prova indiretta della sua induzione, per raggiro, ad accettare la proposta di mobilità firmando l'accordo transattivo.

A seguito dell'impugnazione del verbale di conciliazione, la Corte di Cassazione ha dichiarato nullo il verbale sottoscritto dalle parti, ritenendolo viziato dai raggiri del datore di lavoro, il quale aveva indotto il lavoratore alla firma del verbale sull'assunto che la posizione lavorativa di quest'ultimo sarebbe stata definitivamente soppressa.

La Suprema Corte ha, in particolare, dichiarato idonea a integrare "raggiro" anche una condotta di silenzio malizioso, ritenendo che il silenzio su “circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce, per l'ordinamento penale, elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo".

Partendo da tale presupposto, la Corte ha pertanto ritenuto che "nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l'inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l'inganno perseguito, determinando l'errore del deceptus, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell'art. 1439 c.c.”.

Appare evidente, dalle conclusioni a cui giungono le pronunce esaminate, come anche le conciliazioni sindacali non costituiscano una “barriera invalicabile” nei confronti delle rivendicazioni dei lavoratori e come tali accordi siano potenzialmente sottoposti al vaglio giudiziale e debbano quindi essere formalizzate, nel rispetto della volontà del lavoratore, della sua piena consapevolezza dei diritti che si accinge a dismettere e con una effettiva assistenza sindacale.

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