Legittimità del licenziamento per giusta causa intimato per insulti rivolti al superiore gerarchico

Valerio Berti
20 Luglio 2016

La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale. La critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti, ed essa non può non ricevere pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca ai superiori qualità manifestamente disonorevoli.
Massima

La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale. La critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui

all'

art. 2 Cost.

, può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti, ed essa non può non ricevere pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca ai superiori qualità manifestamente disonorevoli.

Il caso

Con sentenza depositata il 12.3.2013, la Corte d'appello di Potenza rigettava il gravame proposto dall'

Istituto Provinciale di Vigilanza

ricorrente e confermava la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato dall'azienda al dipendente, condannandola a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcire in suo favore tutti i danni conseguenti.

Le ragioni poste a fondamento della sentenza di rigetto risiedevano nella impossibilità di rinvenire nel caso in esame, a detta della Corte di Appello, gli estremi della giusta causa di recesso e, segnatamente, la fattispecie dell'insubordinazione, in quanto “le espressioni ingiuriose rivolte ad un suo superiore gerarchico e indirettamente alla dirigenza tutta non si erano tradotte in un rifiuto di adempiere, essendo piuttosto espressive di un'abitudine lessicale, priva di intenti realmente offensivi e aggressivi”.

L'istituto di Vigilanza ricorreva quindi per la cassazione della sentenza resa dalla Corte di Appello di Potenza.

La questione

La questione sottesa alla risoluzione della presente controversia attiene all'ambito di estensione della cd. insubordinazione. La Suprema Corte ha quindi delimitato e per un certo verso esteso l'ambito di operatività della nozione di insubordinazione.

La giurisprudenza ha solitamente ricondotto l'insubordinazione nell'alveo della violazione degli obblighi di diligenza e di obbedienza affermati dall'

art. 2104 c.c.

, secondo cui “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

Sulla scorta di tale connessione poi, l'insubordinazione è stata ad esempio ravvisata nel mancato adempimento di ordini legittimi da parte del datore di lavoro ovvero nel compimento di atti in relazione alla loro intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (in questo senso

Cass. 18 gennaio 1999, n. 434

;

Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514

, entrambe richiamate a supporto da

Cass. 26 aprile 2016

, n. 8249

).

Le soluzioni giuridiche

Con la Sentenza in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che qualsiasi comportamento tenuto dal lavoratore e atto a pregiudicare l'esecuzione delle disposizioni impartite nel quadro dell'organizzazione aziendale sia idoneo a configurare l'insubordinazione nei confronti dei superiori gerarchici.

Tre sono stati i motivi di gravame avanzati dall'Istituto di vigilanza.

Con il primo motivo, l'Istituto ha sostenuto che la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che gli addebiti contestati al lavoratore non giustificassero il licenziamento, “sul rilievo che le espressioni ingiuriose e diffamatorie rivolte ai superiori non si sarebbero tradotte in un rifiuto di adempiere, trovando piuttosto spiegazione in abitudini lessicali prive di qualsiasi intento realmente offensivo e aggressivo: più precisamente, parte ricorrente ravvisa contraddittorietà nell'assunto dei giudici di merito secondo cui il pur fondato timore che in futuro il lavoratore non sarebbe stato in grado di tenere comportamenti conformi alle regole del vivere civile e dell'organizzazione del lavoro non costituiva allo stato motivo per ritenere che egli avrebbe potuto assumere comportamenti negatori degli impegni assunti o lesivi del patrimonio o dell'organizzazione aziendale”.

Con il secondo motivo, La Società ricorrente evidenziava l'erroneità della decisione impugnata laddove aveva ritenuto “l'abuso del diritto di critica (vale a dire la critica esercitata con modalità lesive dell'immagine e del decoro dell'interlocutore) non potesse essere lesivo del vincolo fiduciario, sul rilievo che il CCNL sanzionerebbe con il recesso per giusta causa condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive ovvero il rifiuto di adempiere ad un ordine legittimo”.

Il terzo motivo – seppure non vagliato dalla Corte in quanto ritenuto assorbito nei precedenti motivi di gravame – intendeva stigmatizzare la decisione impugnata laddove la stessa aveva evidenziato che il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere le disposizioni di servizio concernenti i turni di lavoro non integrasse insubordinazione, sul presupposto che dette disposizioni non costituivano uno specifico ordine di servizio ma semplicemente una misura di tipo gestionale.

Orbene, trattati congiuntamente i primi due motivi sollevati dall'Istituto di Vigilanza, la Corte ha approfondito il concetto e i limiti dell'insubordinazione, precisando che la nozione di insubordinazione “non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale (giurisprudenza consolidata fin da

Cass. n. 5804 del 1987

)

”. Sulla scorta di tale presupposto, la Suprema Corte prosegue poi chiarendo come “la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all'

art. 2 Cost.

, può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale

”, ciò in quanto “l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli”.

A parere di chi scrive, l'elemento maggiormente innovativo non si rinviene tanto nell'estensione della nozione di insubordinazione come innanzi rappresentata, quanto piuttosto nel superamento degli ulteriori limiti che, leggendo la sentenza, evidentemente si potevano rinvenire nella contrattazione collettiva applicabile al caso in esame.

Sostiene sul punto la Suprema Corte che “né contrari argomenti possono ritrarsi dalla circostanza (pure valorizzata dalla Corte di merito) secondo cui il CCNL tipizzerebbe come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive”. Stando al dato testuale del CCNL difatti, la Corte avrebbe dovuto escludere che si potesse configurare nel caso in esame un'ipotesi di giusta causa di licenziamento, mancando nella fattispecie in esame una condotta che fosse anche fisicamente aggressiva da parte del lavoratore.

La Suprema Corte ha viceversa ritenuto che tale specificazione, seppure presente nel CCNL ai fini della configurabilità di una giusta causa di licenziamento, non potesse in realtà comportare alcuna limitazione nella valutazione della fattispecie, in quanto “la "giusta causa" di licenziamento è nozione legale e il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. da ult.

Cass. n. 4060 del 2011

)

”.

Osservazioni

La pronuncia in esame si colloca nel solco di quelle decisioni che ritengono che il giudice non possa intendersi costretto dalle tipizzazioni delle ipotesi di giusta causa di licenziamento dettate dal contratto collettivo applicato.

La decisione appare quindi in primo luogo coerente con i principi tempo addietro enunciati dall'

art. 30, comma 3, Legge 4 novembre 2010 n. 183

, secondo cui “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del

decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276

, e successive modificazioni

”.

Non si può difatti fare a meno di rilevare come il riferimento legislativo imponga al Giudice una mera valutazione - anziché un dovere di conformazione - delle tipizzazioni disciplinari contenute nei CCNL, cosicché il giudicante è certamente libero di valutare, in concreto, se sussistano o meno le condizioni idonee a supportare un licenziamento per giusta causa a prescindere dalla perfetta coincidenza del fatto materiale con la tipizzazione contrattuale.

La decisione sembra inoltre introdurre un concetto di “correttezza formale dei toni e dei contenuti che deve essere mantenuta pur sempre dal lavoratore nei confronti dell'Azienda e dei soggetti gerarchicamente ordinati, pena la violazione dei principi posti a base del sinallagma contrattuale e dei doveri sanciti dall'

art. 2104 c.c.

Difatti la violazione di un comportamento orientato in tal senso, potrebbe comportare la violazione della “tutela della persona umana” e minare la “autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli”.

La Corte, non solo ribadisce che la giusta causa di licenziamentoè una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali e come tale delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa”, ma sembra altresì propendere per l'estensione del medesimo principio “contenitivo” anche nei confronti delle tipizzazioni di licenziamento contenute nel CCNL, idonee evidentemente ad accogliere tra le loro fila causali diverse seppure non specificamente richiamate ovvero diversamente descritte.

Le maglie della nozione di insubordinazione devono perciò ritenersi a geometrie variabili, atte a stringersi e dilatarsi per ospitare l'ampiezza di valutazione di cui gode il giudice dei fatti di causa posti a fondamento del licenziamento.