La quaestio iuris concernente l'individuazione dell'esatta portata della controversa nozione di insussistenza del fatto trae origine dalla novellata formulazione dell'art. 18, L. n. 300/70, ai sensi del quale bisogna operare una distinzione tra illegittimità del licenziamento disciplinare per insussistenza del fatto, comportante una tutela reintegratoria (art. 18, comma 4) - applicabile anche in caso di accertamento del difetto di giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 18, comma 7) - e l'illegittimità del licenziamento per “altre ipotesi”, rispetto alle quali è predicabile una tutela meramente indennitaria (art. 18, comma 5).
Introduzione
La quaestio iuris concernente l'individuazione dell'esatta portata della controversa nozione di insussistenza del fatto trae origine dalla novellata formulazione dell'art. 18, L. n. 300/70, ai sensi del quale bisogna operare una distinzione tra illegittimità del licenziamento disciplinare per insussistenza del fatto, comportante una tutela reintegratoria (art. 18, co. 4) - applicabile anche in caso di accertamento del difetto di giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 18, co. 7) - e l'illegittimità del licenziamento per “altre ipotesi”, rispetto alle quali è predicabile una tutela meramente indennitaria (art. 18, co. 5). Per effetto dell'art. 18, co. 4 il giudice annulla il licenziamento e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro se accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
In proposito va osservato che il panorama dottrinario, interrogatosi sull'esegesi di "fatto" - la cui insussistenza, accertata in sede giudiziale, può dar luogo alla reintegrazione - si è inizialmente polarizzato intorno a due tesi: quella del fatto materiale, inteso come condotta realizzatasi nella realtà fenomenica e composta da azione e/o omissione, nesso di causalità ed evento, e la diversa tesi del fatto giuridico, rilevando dal punto di vista disciplinare e dunque dell'imputabilità al lavoratore, l'elemento volitivo, nonché con riferimento ad una soglia di gravità idonea a fondare il licenziamento.
È opportuno precisare che nessuna delle due tesi, così rigidamente intese, - stante le diverse criticità connesse a ciascuna – è stata accolta dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la quale invece, partendo non già dalla qualificazione del fatto come materiale o giuridico, bensì dall'opera di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ha affermato che l'insussistenza del fatto contestato comprende non solo i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche l'ipotesi del fatto sussistente, perché materialmente accaduto, ma privo del carattere di illiceità, non rilevante cioè dal punto di vista disciplinare o non imputabile al dipendente per assenza di consapevolezza e volontarietà. In tutte queste ipotesi trova applicazione la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità; invero, l'assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente deve essere ricondotta all'ipotesi che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell'insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l'applicazione della tutela cd. reale. Non può ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti sia pur sussistenti, ma di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile (Cass. sez. lav., n. 18418/2016).
Da quanto precisato risulta evidente che il fatto non solo deve materialmente concretizzarsi, ma deve altresì configurarsi come rilevante sul piano giuridico/disciplinare dal momento che, in mancanza del disvalore del fatto avvenuto, il licenziamento irrogato va dichiarato illegittimo e determina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. In altre parole, la Corte ritiene che la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale ed è pertanto idonea a dar luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4 (Cass. sez. lav., nn. 20540/2015 e 20545/2015). Si pensi in proposito ad un licenziamento comminato in ragione di un ritardo di pochi minuti che, pur consistendo in un fatto materiale, non è idoneo a giustificare il recesso datoriale, e quindi va qualificato come insussistente, dato che l'irrilevanza giuridica del fatto per la non-illiceità o per la scarsa o scarsissima importanza equivale alla sua insussistenza materiale, con il conseguenziale diritto alla reintegrazione.
A riguardo è anche interessante notare come la giurisprudenza di merito abbia precisato che, ai fini della reintegra, occorre guardare all'insieme degli elementi del fatto, così come contestato, ed effettuare una valutazione globale del medesimo, indagando l'atteggiamento psicologico del lavoratore e gli elementi della valutazione giuridica. Invero, prescindendo dalla valutazione del comportamento alla luce della sua qualificazione giuridica, si finirebbe per autorizzare l'estinzione del rapporto per ogni sorta di contestazione, anche di fatti privi di rilevanza giuridica e disciplinare. A prescindere dal caso in cui ci si trovi in presenza di previsioni disciplinari più o meno tipizzate e tassative, deve escludersi che possa dar luogo alla tutela meramente indennitaria una qualsivoglia infrazione disciplinare di qualsiasi entità e valore, sebbene materialmente sussistente e rispetto alla quale il lavoratore sia chiamato a rispondere per la presenza dei requisiti della responsabilità: perché una violazione minima, anche se non codificata nelle elencazioni che preludono alle sanzioni conservative, non potrebbe mai comportare, per comune interpretazione, la sola tutela indennitaria quando risulti evidente l'abbaglio del datore di lavoro, il suo torto palese, o ancora, la pretestuosità della contestazione.
Nella giurisprudenza di merito si è affermato altresì che la mancanza di proporzionalità del fatto rispetto alla sanzione, anche in casi meno eclatanti, conduce alla reintegra, attraverso il ragionato confronto che il giudice deve instaurare con le previsioni collettive per cui l'ipotesi del fatto lieve non regolato a livello disciplinare non può certo – per un elementare principio di giustizia – essere trattato peggio di un caso più grave, ma espressamente punito con sanzione conservativa (App. Brescia, n. 173/2015).
La disciplina dell'insussistenza del fatto a seguito del D.lgs. n. 23/2015 nel licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo
La questione dell'applicazione delle conseguenze, reintegratorie o risarcitorie, previste dall'art. 18 novellato può porsi solo in caso di accertata insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di recesso. A riguardo la giurisprudenza ha precisato non solo che la mancanza degli elementi della fattispecie di illecito determina l'insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, ma altresì che la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale, dando perciò luogo alla tutela reintegratoria anche a seguito della L. n. 92/2012 (Cass. sez. lav., n. 20545/2015).
Il co. 1 dell'art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015, disciplinante il contratto di lavoro a tutele crescenti, prevede che, nel caso in cui «non ricorrono gli estremi» del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria. Il comma 2 stabilisce invece che, negli stessi casi, qualora «sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore», il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegra. La disposizione sostituisce l'art. 18, comma 4, L. n. 300/70 come novellato dalla L. n. 92/2012, a norma del quale il giudice ordina la reintegra nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per insussistenza del fatto materiale.
A riguardo, la relazione illustrativa al D.Lgs. n. 23/2015, precisa che «Fermo restando l'onere della prova a carico del datore di lavoro rispetto alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, l'onere della prova rispetto all'insussistenza del fatto materiale contestato (unica fattispecie di licenziamento per motivo soggettivo o giusta causa per cui può scattare la tutela reintegratoria) è in capo al lavoratore». In proposito, parte della dottrina rileva degli aspetti di possibile illegittimità costituzionale nel fatto che per esercitare il diritto ad ottenere la reintegra il lavoratore non potrebbe avvalersi della mancata prova del fatto posto a base del licenziamento, ma dovrebbe fornire la prova di un fatto contrario o presunzioni dalle quali sia desumibile il fatto negativo, con la conseguenza che, in tale ipotesi, l'esercizio del diritto alla reintegrazione è talmente difficoltoso da rimanere solo sulla carta. Sul punto deve osservarsi che se così fosse, il lavoratore sarebbe onerato da una probatio diabolica tralasciando di ricordare che la regola sul riparto dell'onere della prova impone di tener conto anche del principio – riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova (Cass. sez. trib., n. 9099/2012). Al fine di evitare un'applicazione incostituzionale dell'art. 3, comma 2, la stessa dottrina evidenzia come sia preferibile – adottando un'interpretazione costituzionalmente orientata, in sintonia con il principio enunciato dall'art. 2, comma 5, L. n. 604/1966, secondo il quale l'onere di provare il fatto posto a base del licenziamento incombe sul datore di lavoro – ritenere che la tutela reale trova applicazione ove è insussistente, perché non provato, il fatto posto a base del licenziamento, mentre la tutela risarcitoria ricorre in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento. Invero, altra dottrina evidenzia che la lettera di contestazione del fatto addebitato – contenente l'esposizione delle circostanze del fatto ascritto - con cui ha inizio il procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 7 St. Lav. assume un rilievo centrale poiché, nel fornire le indicazioni necessarie per individuare il fatto, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare una fotografia del fatto materiale oggetto di contestazione, senza far uso di espressioni valutative.
L'insussistenza del fatto nell'ipotesi del licenziamento disciplinare
Per quanto concerne il licenziamento disciplinare, la dottrina sottolinea l'arduo compito svolto dalla giurisprudenza alla luce dei dubbi circa il significato da attribuire al “fatto oggetto di contestazione” ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. n. 300/70, con riferimento segnatamente alla sua insussistenza.
Preliminarmente è opportuno osservare che, nell'ambito del licenziamento disciplinare, la previa contestazione dell'addebito - configurandosi come necessaria rispetto a tutte le sanzioni disciplinari - ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, idoneo a giustificare la sanzione. In proposito la Corte di Cassazione ha precisato che tale connotato risulta integrato ove siano fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto rispetto al quale il datore di lavoro ha ravvisato l'infrazione disciplinare o il comportamento violativo degli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. In particolare, la nuova formulazione dell'art. 18 St. Lav. ha tenuto distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione fra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica dell'insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento negativo, dello stesso fatto, accertamento che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo all'individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato (Cass. sez. lav., n. 23669/2014).
Va rilevato come l'insussistenza del fatto contestato, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4 nella nuova formulazione, richiamata dal comma 7 per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo per giustificato motivo oggettivo, è stata ravvisata dalla Suprema Corte anche in ordine alla fattispecie di radicale difetto di contestazione dell'infrazione, in quanto determinante l'inesistenza dell'intero procedimento e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, dovendosi ritenere assolutamente privo di giustificazione un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito (Cass. sez. lav., n. 25745/2016).
È opportuno osservare che, in caso di licenziamento disciplinare, nel nuovo testo dell'art. 18 St. Lav., il fatto contestato al lavoratore che sia privo del carattere di illiceità va considerato insussistente, derivandone il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. sez. lav., n. 20540/2015). In precedenza la Suprema Corte - dopo aver ribadito che nell'ambito del licenziamento disciplinare la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 si applica solo nell'ipotesi di insussistenza del fatto (inteso come fatto materiale, dal quale esula ogni valutazione relativa alla proporzionalità) posto a fondamento del recesso datoriale, o nell'ipotesi in cui il medesimo fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, in base alle disposizioni del CCNL o del codice disciplinare applicabile – aveva precisato che tra le “altre ipotesi” di insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo di cui all'art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 ai fini dell'applicazione della tutela indennitaria rientra anche la violazione del requisito della tempestività, quale elemento costitutivo del diritto di recesso, mentre esulano dall'ambito applicativo di tale disposizione le violazioni procedurali previste dall'art. 7, L. n. 300/1970 (Cass. sez. lav., n. 23669/2014). Va soggiunto che in ordine alla tempestività è stata rimessa la questione alle Sezioni Unite con Ordinanza n. 10159/2017, che sarà oggetto di analisi nel prosieguo della trattazione.
Lo stesso orientamento risulta seguito dalla giurisprudenza di merito la quale ha affermato che l'ipotesi concernente un licenziamento disciplinare fondato su una contestazione dell'addebito generica, privando il lavoratore della facoltà di offrire prove a discarico ed il giudicante di delimitare e accertare il fatto, comporta l'applicazione della tutela reintegratoria in forma attenuata di cui all'art. 18, comma 4, L. n. 300/70 per insussistenza del fatto contestato (Trib. Milano, Ordinanza 15 aprile 2015).
Già la giurisprudenza di merito aveva affermato che il fatto contestato, la cui inosservanza comporta l'applicazione dell'art. 18, comma 4, Stat. Lav., va inteso con riferimento non solo alla sua componente oggettiva (fatto materiale) ma anche a quella soggettiva (fatto giuridico) comprensiva della valutazione in ordine al dolo o alla colpa del lavoratore e alla proporzionalità della sanzione rispetto alla infrazione. Inoltre, ai fini della tutela reale o indennitaria nel licenziamento disciplinare, il giudice non può guardare soltanto al mero fatto ipotizzato o contestato dal datore, ma deve guardare allo stesso fatto in relazione alla nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, con la conseguenza che il giudizio di proporzionalità tra infrazione e sanzione ai sensi dell'art. 2106 c.c. mantiene il suo valore essenziale nella scelta della tutela da applicare anche quando il fatto tipico sussiste ma non sia grave in assenza di una tipizzazione da parte dei contratti collettivi e del codice disciplinare (Trib. Ravenna 18 marzo 2013).
Merita altresì segnalare che la complessa tematica dell'insussistenza del fatto contestato assume dei risvolti significativi anche sotto il profilo dell'onere probatorio del licenziamento discriminatorio rispetto al quale va rilevato che il lavoratore, il quale contesta la portata discriminatoria del licenziamento, non può essere gravato dall'onere di dimostrare l'insussistenza dei fatti dedotti a giustificazione del recesso, poiché ciò comporterebbe un'inversione della regola probatoria agevolata prevista dalla L. n. 604/1966, in forza della quale nell'ipotesi di discriminazioni è sufficiente la semplice allegazione di elementi capaci di convincere prima facie il giudice del collegamento obiettivamente esistente tra il licenziamento ed uno dei fattori protetti dai divieti di discriminazione.
Conclusivamente è opportuno osservare che la Suprema Corte ha recentemente affermato che la novella del 2012 ha introdotto una graduazione delle ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da motivi disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggior evidenza la sanzione della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria all'ipotesi del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo. Ne consegue che, attualmente, il giudice deve procedere ad un giudizio più completo ed articolato rispetto al passato, dovendo accertare non solo se sussistano la giusta causa o il giustificato motivo di recesso, ma, nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante (Cass. sez. lav., n. 13178/2017).
La tardività della contestazione: ipotesi di insussistenza del fatto? La rimessione della questione alle Sezioni Unite
Preliminarmente è opportuno osservare che in tema di qualificazione della tardività, la giurisprudenza della Suprema Corte, relativamente ai casi disciplinati dalla normativa precedente alla riforma della L. n. 92/2012, sembra concorde nel ritenere che l'immediatezza del provvedimento espulsivo configuri un elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento induce ragionevolmente alla considerazione che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore (Cass. sez. lav., nn. 20719/2013 e 2902/2015).
Recentemente, con riferimento all'ipotesi di un licenziamento disciplinare tardivo, la Corte di Cassazione ha ritenuto che un fatto tardivamente contestato a distanza di un anno e mezzo, dovesse essere ritenuto insussistente, non possedendo l'idoneità ad essere verificato in giudizio. Secondo tale arresto giurisprudenziale la tardiva contestazione, costituendo un vizio del procedimento che impedisce un'efficace difesa del lavoratore, porta a qualificare il fatto addebitato come insussistente in quanto di per sé inidoneo all'accertamento in giudizio, così precludendo ogni valutazione in ordine alla reale esistenza dell'addebito. Ne consegue che un fatto non tempestivamente contestato non integra un fatto - inadempimento, avendo lo stesso datore di lavoro, con un comportamento concludente, dimostrato la scarsa rilevanza per lui di un tale inadempimento exart. 1455 c.c. (Cass. sez. lav., n. 2513/2017). Questo orientamento – alla stregua del quale dall'intempestività, sub specie dell'inidoneità della contestazione del fatto, discende l'insussistenza dello stesso, definito tamquam non esset, incide sulla natura del vizio del licenziamento intervenuto in forza di contestazione tardiva poiché ricostruisce l'ipotesi della tardività quale vizio sostanziale, ponendosi in contrasto con altro orientamento secondo il quale, mentre il licenziamento intimato ad eccessiva distanza dall'accertamento del fatto contestato si configura quale indice di assenza di una giusta causa, diversamente, la tardività della contestazione disciplinare si atteggia a mera violazione delle garanzie procedurali di cui all'art. 7, L. n. 300/70 (Cass. sez. lav., n. 5396/2003). Invero, la Suprema Corte si è espressa in più occasioni affermando che la violazione del requisito della tempestività, quale elemento costitutivo del diritto di recesso, si differenzia dal requisito di immediatezza della contestazione che rientra tra le regole procedurali (Cass. sez. lav., n. 23669/2014), poiché il principio di tempestività della contestazione - la cui funzione è consentire il confronto tra le parti, rendendo possibile l'esercizio di difesa del lavoratore e di tutela dell'affidamento del medesimo - appartiene al procedimento disciplinare, integrando un vizio processuale del licenziamento (Cass. sez. lav., n. 5396/2003) che comporta le conseguenze risarcitorie previste dall'art. 18, comma 6 o, eventualmente configura, nel caso di tardività priva di alcuna giustificazione, un'ipotesi diversa dall'insussistenza del fatto contestato e pertanto rientrante nell'ingiustificatezza del licenziamento disciplinare sanzionata ex art. 18, comma 5.
In ragione della polifonia interpretativa sul punto e soprattutto a causa della pregnante differenza in ordine alle conseguenze sanzionatorie che attualmente promanano dalla diversa qualificazione giuridica della tardività - laddove invece la disciplina anteriore alla riforma legislativa dell'art. 18 St. Lav. prevedeva esclusivamente la tutela reintegratoria per ogni ipotesi di illegittimità sia formale che sostanziale - la questione è stata oggetto di rimessione al Primo Presidente della Corte di Cassazione con Ordinanza n. 10159/2017, affinché intervenga la pronuncia chiarificatrice delle Sezioni Unite.
L'insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l'obbligo di repêchage
Dalla lettura della norma di cui all'art. 18, comma 7, L. n. 300/70 – ai sensi del quale il giudice, dopo aver accertato la manifesta insussistenza del fatto, “può” applicare la tutela reale attenuata prevista dal comma 4 - emerge che la tutela reintegratoria si configura quale ipotesi meramente eventuale, sulla quale incide il potere discrezionale del giudice nel decidere se ripristinare il rapporto di lavoro o dichiararne la risoluzione condannando il datore di lavoro al pagamento di un'indennità. Si tratta di una formulazione che pone notevoli dubbi interpretativi, poiché dalla stessa non è possibile evincere i parametri che il giudice deve valutare nell'esercizio della facoltà di ordinare la reintegrazione con possibili derive applicative connotate da incertezza e/o irragionevole diversità sul piano del trattamento sanzionatorio. Sul punto è stato osservato in dottrina che, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, dovrebbe ritenersi che il “potere” al quale il dato normativo fa riferimento si compendia in quello del giudice di accogliere il ricorso con la conseguenza che all'accoglimento per manifesta insussistenza del fatto dovrebbe seguire sempre la tutela reintegratoria. Tale soluzione, tuttavia, non appare idonea a spiegare il dato letterale della norma “Può altresì applicare la predetta disciplina...” in relazione all'espressione adoperata nel quarto comma dell'art. 18 “Il giudice...annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione...”.
Ove il fatto materiale produttivo-organizzativo posto a base del licenziamento non venga ad esistenza sul piano fenomenologico, come nell'ipotesi in cui il datore disponga un licenziamento per soppressione della funzione, mantenendo in realtà il relativo posto di lavoro in ambito aziendale, la dottrina osserva che, non solo non sussiste il giustificato motivo oggettivo, quale esito di una qualificazione giuridica del fatto, ma neppure è apprezzabile la ragione economica materiale posta a base del licenziamento, mancando il fatto materiale in sé considerato, rilevando invece una falsificazione della realtà basata su una motivazione infondata e pretestuosa. La stessa dottrina non manca di sottolineare come, nell'ambito del licenziamento per g.m.o., fatto e valutazione giuridica del fatto risultano necessariamente ed intimamente connessi, così come accade in ogni sistema giuridico in cui fatto e valore costituiscono elementi imprescindibili dell'ipotesi normativa, con la conseguenza che “il fatto fenomenologicamente concepito (ossia la situazione produttiva o organizzativa alla base del licenziamento) viene valutato ed apprezzato dall'ordinamento – grazie al mediumdell'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale – per verificare se esso assuma o meno i caratteri tipici indicati dalla legge, ed assurgere quindi a ragione legittimante il recesso”. Ed ancora, la dottrina - premettendo che per fondare il licenziamento il fatto, prima di essere esistente deve essere giuridicamente ammissibile, ossia pertinente e inerente alla struttura concettuale dell'enunciato normativo di cui all'art. 3, L. n. 604/1966 – rileva che la “manifesta insussistenza” è circoscritta a quei fatti che siano giudicabili come pertinenti per fondare un licenziamento poiché se così non fosse non avrebbe senso discutere di un fatto che in sé non può essere posto a base del licenziamento. A ciò consegue, come sostiene sul punto la dottrina suddetta, che se il fatto posto a base del licenziamento, pur sussistente, non è legittimamente adducibile dal datore per giustificare il recesso, non si vede perché non dovrebbe essere considerato insussistente con conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione, dal momento che l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e l'ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo sono giuridicamente la stessa cosa, perché unico è il prisma dell'art. 3 L. n. 604/1966 attraverso cui l'ordinamento giuridico valuta il fatto.
Recentemente la Suprema Corte ha affermato che, in base all'interpretazione letterale dell'art. 3 della L. n. 604/1966, deve escludersi che il licenziamento per motivo oggettivo sia giustificato solo in presenza di un presupposto fattuale identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli o di spese notevoli di carattere straordinario cui sia necessario far fronte, dal momento che la disposizione de qua richiede soltanto che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d'impresa. Ne consegue che, fermo restando il controllo giudiziale sull'effettività e non pretestuosità del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato, il licenziamento per g.m.o. è legittimo anche se connesso all'esternalizzazione dell'attività a terzi o dalla ripartizione delle mansioni fra il personale già in forza all'azienda, non essendo indispensabile, affinché possa ravvisarsi un giustificato motivo oggettivo, che l'impresa versi in situazioni di mercato sfavorevoli o debba far fronte a spese notevoli di carattere straordinario. Ciò in ragione del fatto che il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti l'attività produttiva è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, quale espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Dunque, il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall'imprenditore, senza che risulti necessaria, rispettivamente, la prova da parte del datore e l'accertamento da parte del giudice, dell'andamento economico negativo dell'azienda (Cass. sez. lav., n. 25201/2016).
In conclusione sembra opportuno svolgere una riflessione con riferimento all'ipotesi in cui la realità del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. venga accertata giudizialmente, ma il datore di lavoro non adempia all'obbligo di repêchage. A riguardo, preliminarmente giova ricordare come recentemente la Suprema Corte, - confutando il consolidato orientamento imperniato sulla netta divaricazione tra onere di allegazione in capo al lavoratore e di prova in capo al datore di lavoro, fondato sul principio secondo cui "il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di repêchage" – ha affermato che spetta al datore di lavoro che vuole dimostrare la legittimità del licenziamento l'onere della prova non solo della effettiva presenza delle ragioni economiche o organizzative che hanno determinato il licenziamento del dipendente, ma anche della mancanza di posizioni di lavoro o mansioni libere in azienda e ciò indipendentemente dal fatto che il lavoratore ne abbia o meno dedotto l'esistenza in giudizio (Cass. sez. lav., nn. 5592/2016 e 9869/2017).
La dottrina si è interrogata in ordine al tipo di conseguenza applicativa derivante dalla violazione dell'obbligo di ricollocamento da parte del datore di lavoro, quale censura di un profilo di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. Quid iuris ove il datore di lavoro non adempia all'obbligo del repêchage? Trova applicazione la tutela reintegratoria oppure la sanzione più lieve della tutela indennitaria forte?
La risposta al quesito è suscettibile di variazioni a seconda che si ritenga che nella verifica dell'insussistenza del fatto – che si sostanzia nella valutazione della veridicità del fatto posto a base del recesso e del nesso di causalità tra il fatto addotto e la scelta del lavoratore licenziato -, rientri (quale fattispecie interna) o meno (e sia dunque da considerare come un fatto esterno), il rispetto dell'obbligo di repêchage.
In proposito parte della dottrina sottolinea che ove il repêchage sia possibile, il fatto posto a base del licenziamento dovrebbe essere valutato come manifestamente insussistente, dal momento che se il repêchage fosse stato attuato, il fatto alla base del recesso non vi sarebbe stato. In altre parole, seguendo questo orientamento – che considera il repêchage quale elemento di fatto - l'inadempimento dell'obbligo datoriale consistente nella previa verifica di una possibile ricollocazione del lavoratore in alternativa al licenziamento da considerarsi quale extrema ratio, comporterebbe l'applicabilità della tutela in forma specifica compendiata della reintegrazione.
Sull'argomento non risultano decisioni della Corte di legittimità che affrontino il problema nei termini suddetti.
Guida all'approfondimento
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Sommario
La disciplina dell'insussistenza del fatto a seguito del D.lgs. n. 23/2015 nel licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo
L'insussistenza del fatto nell'ipotesi del licenziamento disciplinare
La tardività della contestazione: ipotesi di insussistenza del fatto? La rimessione della questione alle Sezioni Unite
L'insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l'obbligo di repêchage