“Rito Fornero” e Licenziamenti: genesi storica ed inesorabile tramonto di una procedura inopportuna e poco amata

29 Settembre 2016

La procedura di cui all'art. 1, commi da 47 a 68 della Legge n. 92/2012 (cosiddetto Rito Fornero), pur destinata, negli originari auspici del Legislatore, ad evitare alcune incongruenze del precedente sistema processuale, ha creato, sin dalla sua introduzione, notevoli problematiche, preoccupazioni e complicazioni per gli Avvocati e per i Giudici. Fin da subito, gli operatori del settore ne hanno chiesto l'abrogazione tanto che, lo scorso 10 marzo 2016, la Camera dei Deputati, in sede di discussione sulla legge delega per l'efficienza del processo civile ha approvato un testo normativo che, quantomeno per il futuro, dovrebbe ricondurre, con alcune modifiche, le cause di impugnativa di licenziamento alla disciplina ordinaria dell'articolo 414 c.p.c. e seguenti.
Introduzione

La procedura di cui all'art. 1, commi da 47 a 68 della Legge 28 giugno 2012, n. 92 (cosiddetto Rito Fornero), pur destinata, negli originari auspici del Legislatore, ad evitare alcune incongruenze del precedente sistema processuale, ha creato, sin dalla sua introduzione, notevoli problematiche, preoccupazioni e complicazioni per gli avvocati e per i giudici.

Fin da subito, gli operatori del settore, valutandone l'inopportunità, se non l'inutilità, ne hanno chiesto l'abrogazione, ipotesi fatta propria dalle forze politiche, tanto che, lo scorso 10 marzo 2016, la Camera dei Deputati, in sede di discussione sulla “Legge delega recante disposizioni per l'efficienza del processo civile”, ha approvato un testo normativo che, quantomeno per il futuro, dovrebbe ricondurre, con alcune modifiche, le cause di impugnativa di licenziamento alla disciplina ordinaria dell'art. 414 c.p.c. e seguenti.

Prevedendosi ancora tempi non brevi per la seconda lettura del progetto di legge abrogativo, si dovrà ancora comunque convivere, per qualche tempo, con la richiamata disciplina processuale. Stante il veloce revirement, vale domandarsi quali siano state le ragioni che, nel 2012, hanno condotto il Parlamento ad affiancare, con la legge 28 giugno 2012, n. 92, la innovativa revisione della normativa sui licenziamenti e la radicale riscrittura dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), con il nuovo complesso “rito”, destinato, nelle dichiarate intenzioni, a “velocizzare” le cause aventi ad oggetto le impugnative di licenziamento.

Ragioni dell'esigenza di celerità delle decisioni sui licenziamenti

La principale delle critiche formulate alla disciplina delle tutele in caso di licenziamento prevista dalla legge 20 maggio 1970 n. 300, identificava la reintegrazione come l'unica forma sanzionatoria del licenziamento illegittimo, risultando con la stessa inibito al Giudice di modulare diverse ed intermedie ipotesi riparatorie di un errato recesso. Sino al 1970 operava ancora l'effetto sospensivo dell'appello, per cui, in caso di condanna in primo grado, la parte beneficiaria di una sentenza, gravata di appello, doveva attendere la pronunzia di secondo grado.

Con lo Statuto dei Lavoratori, il Legislatore non solo previde la sanzione della reintegrazione e la provvisoria esecutività della sentenza, ma, a tutela economica del lavoratore ingiustamente licenziato, affiancò, al provvedimento di reintegrazione, la condanna ad un risarcimento del danno da licenziamento (in misura non inferiore a 5 mensilità), per cui, ove condannato alla reintegrazione, il datore di lavoro, con sentenza immediatamente esecutiva, subiva un ulteriore onere risarcitorio.

Pur con l'introduzione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori continuava comunque a sussistere un autentico e concreto interesse del lavoratore che, spesso non attratto a rientrare in un ambiente non più psicologicamente gradito, preferiva non attendere ed accettava ipotesi transattive non favorevoli. Anche dopo il 1970, la lunghezza del processo per impugnativa di licenziamenti evidenziava, quindi, ancora uno scollamento tra necessità di intervento sollecito a tutela del lavoratore e tempi di emissione della sentenza.

La Legge 11 agosto 1973, n. 533 istitutiva del processo del lavoro

A ciò pose un sensibile rimedio la legge 11 agosto 1973, n. 533, che, istituendo il rito del lavoro, con giudice unico identificato nel Pretore, contribuì notevolmente a velocizzare le decisioni, con assegnazione di una corsia privilegiata per le cause di impugnativa di licenziamento. La formulazione della legge era nei fatti improntata al raggiungimento di risultati inimmaginabili in termini di velocità, posto che, in essa, era previsto che il giudice, nei 5 giorni successivi al deposito della domanda, da formularsi sotto forma di ricorso, dovesse emettere un immediato provvedimento di fissazione dell'udienza, e che questa dovesse essere tenuta nel termine di 60 giorni.

Al 5° comma dell'art. 420 c.p.c., era inoltre dato spazio determinante all'interrogatorio libero ed era prevista una pressoché immediata ammissione dei mezzi di prova, da assumersi, ove possibile, nella stessa udienza, o al più tardi in altra udienza da fissarsi nei giorni feriali immediatamente successivi. Il rinvio per la decisione era ammesso nel termine di dieci giorni, con facoltà delle parti di depositare note difensive nei cinque giorni precedenti. Anche per l'appello era prevista la fissazione dell'udienza di discussione entro il termine di 60 giorni, con decisione generalmente immediata, stante l'improponibilità di nuove prove.

La normativa del processo del lavoro del 1973 prevedeva quindi termini brucianti (primo grado ed appello in sei mesi) per cui, ove applicata nello spirito e nelle intenzioni del Legislatore, non avrebbe mai avuto ragione di essere sostituita con altra disciplina più veloce. All'art. 429 c.p.c., era inoltre prevista, in caso di condanna al pagamento di somme in favore del Lavoratore, l'applicazione automatica della rivalutazione monetaria, con accentuazione dell'interesse alla velocizzazione anche da parte del datori di lavoro, sempre meno interessati a strategie difensive di trascinamento dei giudizi.

Pur se vennero previsti mezzi e dotazioni straordinarie di risorse e strutture nonostante l'impegno di tutti gli operatori, l'endemico allungamento dei tempi, prevalentemente dovuto alla non perentorietà dei termini indicati dalla legge per i Giudici e la carenza di mezzi rispetto alla pesantezza dei ruoli, continuò ad impedire una concreta efficacia deterrente della reintegrazione. Il meccanismo virtuoso infatti si inceppò molto presto e le Preture vennero presto sommerse dai ricorsi.

La legge del 1973 raggiunse comunque effetti notevoli, facendo qualificare, nel panorama processuale italiano, la procedura del lavoro come la più organica ed efficace, tanto da essere adottata a modello da successive riforme del processo civile.

In tale contesto, i lavoratori hanno sempre considerato le innovazioni degli anni '70 come fonti specifiche di tutela del posto di lavoro, rafforzate dall'orientamento di parte prevalente della giurisprudenza, che ha ben presto fatto coincidere l'ammontare del danno da licenziamento con tutte le mensilità intercorse sino alla reintegrazione.

La legge 11 maggio 1990 n. 108

Tale ultimo orientamento è risultato normativamente confermato con l'entrata in vigore della legge 11 maggio 1990, n. 108, che, in caso di declaratoria di illegittimità del recesso, eliminando la previsione minima del danno, ha previsto, come automatica, l'applicazione di un'indennità di reintegrazione commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, unita al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per l'identico periodo, sostanzialmente equiparandosi il risarcimento a tutto quanto il lavoratore avrebbe percepito ove il rapporto non si fosse mai interrotto.

Con il tempo la combine di normativa, sostanziale e previdenziale, è andata a regime, con essa amplificando il metus del datore di lavoro, il quale ha sempre più percepito il forte rischio economico connesso all'adozione di licenziamenti, non tanto e non solo per la materiale reintegrazione, quanto per le conseguenze economiche di valenza risarcitoria che, in ragione dei tempi e delle incertezze della giustizia nei vari gradi di giudizio, venivano spesso, salvo l'aliunde perceptum, a determinare condanne economicamente e poco sopportabili soprattutto per aziende di contenute dimensioni.

I lavoratori, non sempre interessati all'effettivo ripristino del rapporto, ma attratti dalle cospicue cifre delle condanne risarcitorie, si sono quindi trovati in posizione privilegiata, quantomeno in caso di trattative economiche, e ciò nella consapevolezza che, lungi dal costituire una componente di loro debolezza, la lunghezza dei processi veniva a costituire un elemento di forza contrattuale.

Per di più, non prevedendo la legge oneri decadenziali nella presentazione dei ricorsi, non si escludevano situazioni di attesa tattica dei lavoratori, finalizzate, tenuto conto dei pesanti oneri di prova dell'aliunde perceptum a carico del datore, a far valere detta opportunità in funzione degli effetti esponenziali del danno ottenibile.

La giurisprudenza (significativa quella adottata dalla Corte d'Appello di Roma) ha preso, quindi, concretamente in esame casi di effettivo ritardo nella presentazione dei ricorsi e, anche utilizzando la previsione dell'articolo 1227 c.c., ha ritenuto procedere a forme di attenuazione del danno, non previste dal Legislatore, che altrimenti, con la previsione automatica della legge 11 maggio 1990 n. 108, avrebbe raggiunto contenuti abnormi, aggravati in molte situazioni dalla facoltà, concessa unilateralmente al lavoratore, di rinunziare alla reintegrazione, con la monetizzazione della stessa nella misura fissa di 15 mensilità retributive.

Nei fatti, anche il lavoratore, pur come detto potenzialmente gratificato, in alcuni casi, dalla lunghezza dei processi, aveva comunque ampi motivi per dolersi del sistema, sia per i tempi sempre troppo lunghi per ottenere, ove spettante, la reintegrazione, sia per l'incertezza collegata alla natura precaria della ricostituzione del rapporto, soggetta alle successive verifiche di appello e di cassazione, sia per la concreta possibilità, in caso di riforma della sentenza di primo grado, di dover subire, oltre all'estromissione dal posto di lavoro, il peso, a volte drammatico, della restituzione di gran parte delle somme percepite provvisoriamente.

Procedura d'urgenza ex art. 700 c.p.c.

In presenza della mancata realizzazione dei risultati auspicati dal Legislatore con l'introduzione della disciplina ordinaria del lavoro, è stata in molti casi utilizzata la procedura d'urgenza prevista dall'articolo 700 c.p.c. che, pur a fronte dell'emissione di numerosi provvedimenti anticipatori, non ha tuttavia mai potuto erigersi a sistema, soprattutto a fronte della necessità di prova del pregiudizio irreparabile, elemento generalmente ritenuto inesistente in re ipsa per lo stato di disoccupazione del lavoratore ricorrente. Significativa è la circostanza che quasi sempre, in caso di proposizione di ricorso d'urgenza, le parti datoriali, pur fisiologicamente interessate ad un veloce accertamento sulla legittimità del licenziamento, costituendosi in giudizio, hanno eccepito la non ritualità della procedura d'urgenza, non solo deducendo l'inesistenza del periculum, ma soprattutto invocando l'esistenza della specifica ed alternativa procedura del lavoro, dotata, almeno formalmente, di tempi brucianti, ricevendo in ciò conforto da parte di molti giudici.

È stato così che, soprattutto da parte datoriale, stante l'impraticabilità politica di veder modificato l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori con adozione di forme sanzionatorie diverse dalla reintegrazione nel posto di lavoro, sono stati invocati interventi normativi di sollecita definizione del contenzioso, atti a contenere in qualche modo gli oneri risarcitori conseguenti alle lungaggini processuali. Il legislatore ha così tentato con varie iniziative di arginare il problema, prevalentemente costituito dal numero rilevante di cause di lavoro, introducendo forme di deflazione del ricorsi giudiziali.

Norme di deflazione del contenzioso

Si ricordano i vari tentativi di ridurre il numero delle cause di lavoro compiuto con forme agevolative delle conciliazioni, tutti falliti, soprattutto per l'omessa previsione normativa di forme preventive obbligatorie o contemplanti un autentico interesse di entrambi le parti di parteciparvi, nonché per l'assenza di forme premiali economicamente incentivanti e per la mancata previsione di sanzioni a carico della parte illogicamente indisponibile ad una trattativa.

Significativamente, anche il tentativo di condizionare la procedibilità delle cause di lavoro al preventivo esperimento di una procedura conciliativa presso la DPL, introdotta dal D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 80, si è rivelato, nei fatti, un costoso ed inutile adempimento burocratico ed una ulteriore forma di appesantimento nei processi, gravati di eccezioni e verifiche aggiuntive in ordine all'avvenuto corretto esperimento preventivo.

Nella ricerca di ipotizzare forme di velocizzazione, tra il Ministero del Lavoro e il Ministero di Giustizia si è così tentato un nuovo approccio processuale, sfociato, nel 2000, nell'istituzione della “Commissione Foglia”, che dopo lunga gestazione, ha elaborato una proposta, prevedente un «peculiare rito accelerato a cognizione sommaria, ma non superficiale, il regime di reclamabilità ed impugnabilità dell'ordinanza, con l'introduzione di una misura coercitiva sul modello dell'astreinte, a garanzia dell'ottemperanza all'ordine giudiziale di reintegrazione, la priorità nella trattazione di siffatte controversie».

Sulla scia della proposta della “Commissione Foglia”, sono seguiti diversi progetti di legge finalizzati all'istituzione di una procedura accelerata per le cause di licenziamento, nessuno dei quali è approdato alle commissioni parlamentari.

La situazione, già pesante per le aziende ed aggravatasi dopo i segnali di crisi internazionale conseguenti al 2008, ha visto una prima, timida, risposta del legislatore con la legge 4 novembre 2010, n. 183, nella quale, ai fini di contenimento dei tempi processuali, è stato, per la prima volta, definito un termine entro cui, dopo la impugnativa, dovesse essere depositato il conseguente ricorso, termine dapprima indicato in 270 giorni, successivamente ridotto a 180 giorni dalla legge 28 giugno 2012, n. 92.

Neppure tale norma, che ha certamente ridotto l'anomalia dei ritardi “tattici” dei ricorsi, ha tuttavia consentito, in ragione dei tempi sempre lunghi dei giudizi, di ridurre più di tanto le patologie di sistema in punto di oneri risarcitori a carico dei datori di lavoro costretto alla reintegrazione, per cui il problema è risultato solo in minima parte attenuato.

Legge 28 giugno 2012, n. 92, riforma dell'articolo 18 e introduzione di un nuova procedura per l'impugnativa dei licenziamenti

La spinta fondamentale alla introduzione di una disciplina speciale e celere è venuta con la crisi che ha portato all'emanazione della legge 28 giugno 2012, n. 92, notoriamente frutto della situazione di emergenza del 2011 e dei moniti dell'Europa che, per contrastare la recessione, invitava l'Italia ad adottare una diversa normativa finalizzata ad attenuare i vincoli in caso di cessazione dei rapporti di lavoro.

Con questa legge, adottata in situazione di emergenza e per salvare i conti pubblici, è stato rimosso il tabù della sanzione unica della reintegrazione, ipotesi che, nella prima stesura del governo, e quantomeno per i licenziamenti cosiddetti economici, era stata del tutto esclusa, per essere poi riconfermata pur con limiti particolarmente stretti, soprattutto con riferimento al giustificato motivo oggettivo.

La legge inoltre, al fine di attenuare le conseguenze delle condanne al danno riparatorio in caso di ritardo nella reintegrazione, salvi i casi eclatanti di licenziamento orale o licenziamento nullo, per i quali ha continuato a prevedere il pagamento di tutte le mensilità dal licenziamento alla reintegrazione, ha stabilito un limite alla sanzione risarcitoria, definito, al massimo, in 12 mensilità retributive, ancorché appesantite dal versamento dei contributi.

Per le altre ipotesi, la legge, escludendo la reintegrazione, ha negato un danno da ritardo, prevedendo solo un'indennità risarcitoria (definibile in un range da 12 a 24 mensilità) ancorata a parametri oggettivi, ma non più collegata alla durata del processo.

Tale sistema, prevalentemente risarcitorio, unito alla determinazione di termini massimi per la presentazione del ricorso, sarebbe stato, come è stato, di per sé sufficiente ad evitare le abnormità risarcitorie del passato, rendendo, nei fatti, superata l'esigenza di interventi modificativi della procedura del lavoro, che, come si è visto, almeno formalmente, ha continuato ad essere celere e semplice.

Nonostante ciò, il Legislatore del 2012 ha ritenuto, con l'art. 1, commi 47 e seguenti della Legge n. 92, di introdurre comunque una nuova procedura che, ricalcando, anche se con molte differenze, gli intenti della Commissione Foglia del 2002, ha identificato, per le cause di licenziamento, un iter veloce ed in parte sommario nel presupposto che lo stesso riuscisse a sanare le riscontrate patologie connesse ai ritardi delle decisioni.

Un siffatto intento emerge già dall'incipit di detta legge, ispirata, con varie modifiche dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, a stimolare l'occupazione. All'art. 1, comma 1 sub. c) si annunzia infatti l'introduzione di “un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie.

Nella relazione parlamentare di accompagnamento alla Legge si fa riferimento ad “un rito particolarmente snello, con una prima fase d'urgenza e con ampia discrezionalità del giudice nella gestione dell'istruttoria, con l'omissione di ogni formalità che egli ritenga non essenziale al contraddittorio. Già alla prima udienza, il giudice decide con ordinanza immediatamente esecutiva”.

Pur in presenza di tali nobili intenti, gli operatori del diritto del lavoro, ancorché intenti a valutare la portata sostanziale della legge 28 giugno 2012, n. 92, non hanno omesso di dimostrare le più ampie perplessità per il nuovo rito, non solo in quanto lo stesso si sostituiva a forme processuali già formalmente veloci, ma soprattutto in quanto esso introduceva un doppio binario di vertenze, con una nuova fase sommaria che, anziché semplificare, avrebbe prevedibilmente creato più complicazioni che soluzioni nella definizione di cause di impugnativa di licenziamento.

Con il “Rito Fornero” veniva infatti introdotta, e solo per giudizi di impugnativa del recesso ex art. 18, una procedura che si discostava dai canoni processuali ormai consolidati, con la sostanziale divisione del giudizio di primo grado in due fasi, una sommaria e l'altra di eventuale opposizione, finalizzato ad ottenere comunque una decisione precaria nel breve, ma a rischio di non poche incongruità.

Tra esse vennero immediatamente evidenziati: la sostanziale introduzione di quattro gradi di giudizio; la complessa definizione dei casi di applicabilità del rito; le varie difficoltà di scelta processuale della parte ricorrente; la sostanziale impossibilità di formulare delle domande subordinate per ipotesi di impugnativa non riconducibili all'art. 18 L. 300/70; l'impossibilità di accorpare più domande in un unico ricorso; la non esperibilità della procedura preventiva da parte del datore di lavoro; la varietà di opzioni cui il giudice deve far fronte in caso di ricorso non correttamente introdotto; la problematica della conoscibilità dell'opposizione da parte del giudice assegnatario della fase sommaria.

Pur a fronte di tali comprensibili complicazioni e difficoltà processuali, la nuova procedura è entrata a regime, obbligando gli operatori (avvocati e giudici) a condividerla ed a conviverci, impegnati, quantomeno, ad ottenere, con la ipotizzata maggior sollecitudine, ed a scapito di cause di altra natura, più celeri ordinanze e sentenze provvisoriamente esecutive sulle impugnative ex art. 18.

La Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sulle finalità di accelerazione della disciplina, si è allineata ad interpretare la nuova normativa siccome finalizzata ad accelerare questo tipo di controversie e ridurre i costi indiretti derivanti dalla durata del processo.

Le Sezioni Unite, con ordinanza Ordinanza Cass. S.U. n. 19674 del 18 settembre 2014, hanno statuito che “Il rito speciale è finalizzato all'accelerazione dei tempi del processo, nonché della stessa proposizione dell'impugnativa, avendo il legislatore voluto che la questione della reintegrazione – e più in generale dell'impugnativa del licenziamento per l'accesso alle tutele di cui all'art. 18 cit. – sia subito portata innanzi al giudice e decisa in tempi rapidi”.

In tal senso possono richiamarsi Cass. 20 novembre 2014, n. 24790; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3136 e Cass. 1 novembre 2015, n. 23073.

Il dichiarato scopo della norma, almeno formalmente, è stato quindi quello di prevedere per le controversie aventi ad oggetto le impugnative di licenziamento, un procedimento ancor più semplice e veloce di quello previsto dalla legge 533/1973 accelerando, almeno processualmente, l'emissione di provvedimenti provvisori nel bilaterale interesse del lavoratore e del datore di Lavoro.

Da molte parti si è autorevolmente sostenuto che tale innovazione normativa, pur precedentemente invocata per risolvere le esigenza di celerità, è giunta tuttavia fuori tempo, quando, prevedendosi la reintegrazione solo per ipotesi numericamente marginali, gran parte delle patologie precedentemente riscontrate si erano fortemente attenuate.

La celerità del rito aveva infatti ragion d'essere soprattutto nei casi di disposta reintegrazione e di pagamento delle mensilità di danno nelle forme previste dalla legge 11 maggio 1990 n. 108, mentre si manifestava meno essenziale per le altre ipotesi sanzionatorie aventi ad oggetto una monetizzazione del recesso illegittimo.

Uno dei modi di superamento delle maglie della nuova complessa procedura è stato identificato da alcuni (e tra essi il Presidente del Tribunale di Firenze espressosi in tal senso nelle “Linee Guida” del 17 ottobre 2012 o il Tribunale di Napoli in sentenza 25 settembre 2013), nella ritenuta facoltà del lavoratore di utilizzare alternativamente anche la procedura ordinaria, e ciò considerando che la legge n. 92/2012 non si è espressa, in modo inequivoco, sulla obbligatorietà del rito.

La questione è approdata, nel panorama dottrinario e giurisprudenziale, a due differenti conclusioni, l'una improntata ad una disponibilità del rito del soggetto agente, l'altra escludente alcuna facoltà di scelta.

La linea improntata alla alternatività, oltre a richiamare l'inesistenza di un divieto espresso, ha fatto leva sulla giurisprudenza di legittimità espressasi sulla questione analoga in materia di condotta antisindacale, risolta con la sentenza 8 .9.95 n. 9503, nella quale la Cassazione, ribadendo un precedente indirizzo, aveva affermato che i soggetti legittimati ad esperire la speciale azione sommaria ex articolo 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 possono esercitare l'azione anche in via ordinaria nelle forme del rito speciale del lavoro.

Detta linea non è stata ritenuta persuasiva dalla prevalente giurisprudenza di merito che, per le ipotesi ritenute sussumibili nell'impugnativa dei licenziamenti rientranti nell'ambito dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, anche quando debbano essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, deve applicarsi inderogabilmente la disciplina dell'art. 1, comma 47 e seguenti.

In tal senso è intervenuta anche la Suprema Corte con sentenza 11 novembre 2015, n. 23073 (qui commentata da Luigi Santini), ivi affermando l'impossibilità del lavoratore licenziato di rinunciare al rito speciale, non essendo stata la specialità prevista nel suo esclusivo interesse.

Secondo tale prevalente giurisprudenza, la obbligatorietà del rito risulta tecnicamente giustificata dalla preclusione per le parti di modificare o aggirare norme dettate per finalità pubblicistiche ed emanate nell'intento generale di assicurare comunque una decisione pressoché immediata alle impugnative di licenziamento, considerandosi sempre eventuale la fase di opposizione.

Al riguardo la Giurisprudenza ha ribadito che la procedura Fornero non costituisce un rito di natura cautelare, essendo avulso dal periculum in mora ed essendo strutturato per una cognizione ordinaria e, pur sommariamente, piena, così come confermato dalla citata ordinanza delle Sezioni Unite, 18 settembre 2014 n. 19674, ove si legge: “l'opposizione non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario, con cognizione piena a mezzo di tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti”.

Criticità ed illogicità del “Rito speciale Fornero”

Come sopra si è visto, in presenza di una precedente procedura del lavoro particolarmente orientata alla celerità, all'oralità e all'immediatezza, e verificato che gran parte delle anomalie e patologie non erano identificabili in difetti insiti nello schema processuale (che, salve poche crepe, dopo 43 anni di vigenza, è considerato ancora particolarmente moderno, utile ed efficace), bensì carenze di natura strutturale, di organizzazione e di mezzi, era arduo ritenere che la soluzione del problema potesse dipendere da una nuova modifica della procedura.

Immediatamente si è compreso che il “Rito Fornero” sarebbe stato fonte di una miriade di complicazioni procedurali in quanto, tra l'altro, non includente molte situazioni assimilabili al licenziamento (conversione di contratti a termine, licenziamento in ipotesi di tutela obbligatoria, licenziamento per superamento del comporto per malattia, licenziamento dei dirigenti e, soprattutto, in quanto ostativo alla proposizione di più domande con lo stesso ricorso, aspetto particolarmente delicato per gli avvocati, abituati, da sempre, alla formulazione di più domande in un unico ricorso, spesso le une subordinate alle altre.

Ciò avrebbe inevitabilmente comportato, come nei fatti ha portato, alla duplicazione se non la proliferazione di giudizi, per di più accentuata dalla sostanziale previsione per le impugnative, di quattro gradi di giudizio, due a cognizione piena, una sommaria e una di opposizione, con l'eventuale fase di reclamo e di cassazione.

Già dopo pochi mesi di vigenza della norma, ci si è resi conto che, in carenza di mezzi e risorse particolari (espressamente esclusi dall'art. 1, comma 69 della legge 92/2012), era utopistico pensare di risolvere il problema con un mero maquillage procedurale e che il nuovo rito non avrebbe consentito il raggiungimento di particolari risultati. Anzi, gli operatori hanno dovuto prendere atto che, a fronte di alcune oggettive accelerazioni, la maggior parte delle cause subivano rallentamenti imprevisti, a motivo di ordinanze interlocutorie, separazione di cause, rinvii per modifica del rito, per non parlare delle varie ipotesi di duplicazione, in primo grado, della medesima istruttoria (una nella fase sommaria e la seconda nella fase di opposizione), o della proposizione di giudizi separati in caso di rivendicazioni plurime dello stesso lavoratore, aspetti che probabilmente il Legislatore non aveva valutato con la dovuta ponderazione.

Alcune soluzioni introdotte dalla procedura in esame, anziché risolvere i problemi, contribuivano per di più ad aggravarle.

Va infatti considerato al riguardo che, al rito “ordinario” del lavoro, pur considerato ancora valido nel suo schematismo processuale, vengono già oggi generalmente addebitati alcuni sostanziali difetti, tra i quali: 1) la debolezza della posizione della parte ricorrente che, a seguito della costituzione del convenuto ex art. 416 c.p.c., non ha la possibilità di replicare, nei dieci giorni intercorrenti dall'udienza, con la dovuta compiutezza, risultando allo stesso difficile articolare nel verbale dell'udienza di discussione, argomentazioni, controeccezioni, documentazione e istanze di prova a contrasto con le deduzioni del convenuto; 2) l'eccessiva incertezza per le parti di coniugare il potere dispositivo previsto dal codice con le iniziative spesso imprevedibili del giudice, legittimato ad intervenire nel processo soprattutto in termini istruttori, ammissivi o negatori di istanze di prova, con provvedimenti difficilmente recuperabili nelle fasi successive del processo; 3) la non chiara differenziazione tra interrogatorio formale e interrogatorio libero, con utilizzazione da parte dei giudici di alcune frasi, spesso verbalizzate in modo non formale o fuori contesto, come capisaldi in fatto su cui ancorare la motivazione del provvedimento; 4) l'uso non chiaro, a volte debordante e spesso sbilanciato, del principio di prova acquisita per mancata contestazione.

Ebbene, nel “Rito Fornero”, tali difetti risultano tutti accentuati, essendo stato addirittura ridotto a cinque giorni il termine strettissimo a difesa per il ricorrente, quantomeno nella prima fase del giudizio.

Per quanto riguarda gli interventi istruttori, l'interrogatorio e la mancata contestazione, il possibile intervento imprevisto del magistrato è stato addirittura accentuato, risultando concesso al giudice, sia nella fase sommaria che nella fase di opposizione, di procedere, nel “modo ritenuto più opportuno”, agli atti di istruzione indispensabili, richiesti dalle parti o disposti d'ufficio ex articolo 421 c.p.c.

Tali accentuate incertezze, unite alle difficoltà nella presentazione del ricorso e al prevedibile allungamento dei tempi per giungere al giudicato, hanno immediatamente spinto molti interpreti ed operatori a chiedere una abrogazione della procedura.

Le critiche alle modifiche procedurali, da molti sommate alle critiche all'intero impianto della legge, considerata nel complesso troppo penalizzante per la posizione dei lavoratori, sono state comunque bilaterali, coralmente richiedendosi l'eliminazione di un rito, ritenuto inutile.

Proposte di abrogazione

Tra le ipotesi di modifica va menzionata quella articolata dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Roma nel 2013, nella quale non solo era richiesta una eliminazione dei commi da 47 a 69 della legge Fornero, ma, al fine di evitare il mantenimento, per anni ed anni, di un doppio regime, si richiedeva di disciplinare i processi in corso, prevedendo una forma di riassorbimento progressivo delle cause pendenti introdotte con la procedura speciale, con riconduzione delle stesse alla disciplina ordinaria.

È da menzionare inoltre una parallela iniziativa, meno articolata, portata avanti dall'AGI–Avvocati Giuslavoristi Italiani e dall'Associazione Nazionale Magistrati, che ha avuto maggiore successo, tanto da essere utilizzata come testo base dalla Camera dei deputati, che lo ha approvato nell'ambito della legge delega sulla riforma del processo civile.

Progetto di legge abrogativa approvato dalla Camera dei deputati

Pur a fronte dell'abrogazione della normativa per l'avvenire, il testo di legge approvato nel 2016 mantiene in vigore la procedura, sino in cassazione, per i giudizi in corso alla entrata in vigore della legge.

La nuova previsione normativa mantiene inoltre in vita il calendario speciale relativo ai giudizi di impugnazione di licenziamenti rientranti nell'ambito dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che devono essere trattate con particolare speditezza, con vigilanza particolare dei dirigenti degli uffici giudiziari e sanzioni disciplinari in caso di inosservanza, consentendo, altresì, che le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non proposte con rito ordinario ex art. 414 c.p.c. c.p.c., siano introdotte con i riti speciali, come l'articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, l'articolo 38 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (discriminazioni in tema di parità uomo donna) e l'articolo 28 della legge 220 del 21 settembre 2011.

Il testo di legge approvato ritorna quindi nell'alveo della procedura di lavoro delineata nel 1973, ritenuta nuovamente idonea ad assolvere, pur con un calendario particolare, le cause di licenziamento di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

È sintomatico verificare come la previsione adottata dal Parlamento, ai fini dell'invito alla trattazione con maggiore speditezza, continui a non distinguere tra domande che abbiano finalità reintegratorie e domande tendenti ad ottenere solo un'indennità economica, mentre sarebbe stato logico un distinguo, in relazione al tipo di domanda, rendendo legittimo chiedersi perché siano stati esclusi dal calendario i giudizi di impugnativa dei licenziamenti non rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, quali ad esempio, quelli relativi a dipendenti di piccole aziende, i quali, pur se in termini ridotti, avrebbero egualmente diritto ad ottenere una celere accertamento in ordine alla legittimità o meno del recesso..

Non si è a tal uopo sufficientemente considerato che, ove la domanda sia proposta ai sensi dell'articolo 18, comma 5, dello Statuto dei Lavoratori, l'intervento del giudice condurrebbe ad una condanna di tipo esclusivamente economico, al pari delle domande formulate per impugnative di licenziamenti a tutela obbligatoria o quelle relativa a licenziamenti effettuati dopo il 5 marzo 2015. Non si vede la ragione del mantenimento del diverso trattamento processuale.

È facile, comunque, prevedere che, anche con il calendario speciale, a meno di una non ipotizzabile contrazione delle cause di lavoro, non si raggiungeranno particolari risultati in termini di celerità, tenuto conto dell'improbabile aumento degli stanziamenti per strutture di giustizia.

Opportunità dell'introduzione norme prevedenti nuove ed obbligatorie forme di soluzioni conciliative

Ma anche ove si raggiungessero risultati nell'adozione di sentenze di primo grado, la domanda di celere giustizia risulterebbe sempre insoddisfatta, tenuto conto che l'interesse delle parti non ha mai ad oggetto soluzioni processualmente non definite e precarie, con possibilità di impugnative, opposizioni, reclami, appelli e ricorsi di legittimità ecc., ma soluzioni certe e tombali, raggiungibili solo con il celere raggiungimento di un giudicato o attraverso sistemi di composizione mediata dei conflitti.

In tal senso, per accelerare la soluzione dei problemi e dare speditezza alle vertenze di lavoro, la strada obbligatoriamente percorribile non può che essere quella del ricorso a forme di mediazione preventiva, nella quale assumano concreto protagonismo gli avvocati. Tali soluzioni non devono però essere alternative e facoltative, ma incentivate ed obbligate, sanzionandosi la mancata partecipazione alla trattativa e nelle quali le parti siano “ante causam” chiamate ad incontrarsi e a darsi atto in termini definiti delle reciproche posizioni, in ciò coadiuvate da previsioni di legge che definiscano con chiarezza i termini massimi e minimi entro cui raggiungere un accordo.

Sotto tale profilo si è rivelata positiva la previsione di cui all'art. 1, comma 40, della Legge 28 giugno 2012, n. 92, che, costringendo, per i licenziamenti cd economici, le parti a trattare sulla base di parametri definiti, ha consentito di deflazionare moltissimo il contenzioso, attraverso uno strumento che già ha visto chiudere, in via definitiva, decine di migliaia di casi. Sarebbe auspicabile che una simile procedura si attivasse anche per i licenziamenti per giusta causa e per i licenziamenti collettivi.

In tal senso si pone, significativamente, la stessa normativa sul Jobs Act, che, pur prevedendo, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, l'applicazione della procedura del lavoro ordinaria anche per le cause di impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e pur eliminando la convocazione preventiva prevista dall'articolo 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 (come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92), ha introdotto la facoltà per il datore di lavoro, dopo aver inviato la lettera di licenziamento, di formulare al lavoratore, nei termini dell'impugnativa, un'offerta di conciliazione in una sede idonea, accompagnata da un assegno circolare per un valore coincidente al lordo di una mensilità pro anno, prevedendone la fruibilità, al netto, per il lavoratore.

Questa è certamente la strada giusta, posto che, non avendo potuto la procedura del lavoro trovare spazio per l'eccessivo contenzioso, è auspicabile che, riducendosi, in quanto definite in sedi esterne e con applicazione di indennità definibili in modo veloce e certo su parametri prestabiliti, le residuali vertenze di impugnativa di licenziamento non raggiungano numeri tali da impedire la veloce conclusione in sede giudiziale.

Nuovi spazi verrebbero peraltro ad aprirsi ove si desse effettivamente corso a forme di mediazione assistita anche in ambito di lavoro, con autorizzazione degli avvocati di “certificare” la consapevolezza dei propri clienti in ordine alle rinunzie compiute.

Va al riguardo segnalato che il progetto di riforma del codice di procedura civile, attualmente all'esame del parlamento, non esclude l'introduzione della “negoziazione assistita” per le cause di lavoro.

È quindi auspicabile che si incrementino procedure di conciliazione preventiva stragiudiziale che vedano coinvolti responsabilizzati in primis gli avvocati, i quali, in genere, avendo approfondito il caso, i documenti, e conoscendo le armi istruttorie a propria disposizione, conoscono perfettamente, nella valutazione dei rischi di causa, quale sia il giusto punto di caduta per un accordo transattivo.

Ove invero le parti, con i rispettivi avvocati, siano preventivamente obbligate a scoprire le carte ed a trattare sulla base delle stesse, anche manifestandosi formalmente le linee difensive e le ipotesi transattive proposte, sarebbe più agevole il raggiungimento stragiudiziale di un accordo, del quale i legali stessi si farebbero garanti, da favorirsi con forme di premialità fiscale.

Al giudice, che potrebbe decidere solo all'esito della formazione di un fascicolo contenente l'iter della trattativa preventiva, sarebbe rimesso quindi il solo celere compito di “fare giustizia”, con azione depurata dagli obbligatori, e spesso defatiganti, tentativi di conciliazione, affrancato per di più dall'imbarazzo della formulazione di ipotesi di accordo, in genere rese senza l'intervento mediatorio dei legali e solo sulla incompleta conoscenza dei fatti di causa, così come risultanti dalle posizioni, non sempre veritiere e tattiche delle difese di parte.

In conclusione, l'introduzione e abrogazione del “Rito Fornero” si è manifestata utile, se non altro, per sperimentare, sul campo, la tematica delle urgenze processuali e dei tempi della giustizia, nonché comprendere definitivamente l'inutilità dei tentativi solutori del problema con artifizi o modifiche meramente processuali.

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