Dirigenti

Giulia Busin
06 Marzo 2024

I dirigenti d'azienda sono considerati una categoria di lavoratori subordinati il cui rapporto di lavoro è regolato da normative speciali e dalla contrattazione collettiva dei vari settori di appartenenza. L'identificazione della figura del dirigente d'azienda passa attraverso una serie di situazioni giuridiche soggettive diverse da quelle sancite per il lavoratore dipendente tout court.

Inquadramento

Il rapporto di lavoro del dirigente è sempre stato caratterizzato da peculiarità che contraddistinguono l'intera vita del rapporto professionale – e non solo l'eventuale fase patologica dello stesso – rispetto al contratto di lavoro subordinato delle altre categorie professionali.

La figura del dirigente, che costituisce la funzione apicale nel sistema di inquadramento dei prestatori di lavoro subordinato di cui all'art. 2094 c. c., si distingue dalle altre categorie di cui all'art. 2095 c.c. (operai, impiegati e quadri) per la capacità di influenzare e indirizzare l'andamento dell'impresa o di un settore autonomo della stessa, ovvero per le elevate competenze manageriali e specialistiche riconnesse al ruolo.

Sotto diversi profili, la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale si connota per una regolamentazione che non è sovrapponibile a quella delle altre categorie di lavoratori subordinati.

Si pensi all'esclusione dei dirigenti dalla disciplina relativa all'orario di lavoro, alle pause o al lavoro straordinario, nonché alla previsione, per essi, in luogo delle tutele generalmente previste in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, di un meccanismo sanzionatorio essenzialmente contrattuale contro i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificatezza.

In tale panorama normativo, un ruolo non secondario è stato assunto anche dalla giurisprudenza, la quale ha previsto criteri distintivi della figura del dirigente rispetto agli altri prestatori di lavoro subordinato sia con riferimento ai tratti che qualificano la categoria, sia in relazione alla nozione di giusta causa di recesso.

Nozione di dirigente

Il codice civile, benché richiami, tra le categorie dei prestatori di lavoro subordinato, quella dirigenziale, ha scelto di astenersi dal fornirne una definizione unitaria di dirigente o dall'indicare i requisiti che ne contraddistinguono la figura, lasciando il compito di circoscrivere i requisiti della categoria alla contrattazione collettiva e alle decisioni della magistratura del lavoro.

Il dirigente quale alter ego dell'imprenditore e l'evoluzione giurisprudenziale

La giurisprudenza più risalente ha ricostruito una nozione restrittiva della figura in commento, secondo la quale il dirigente, qualificato come alter ego dell'imprenditore (cd. dirigente apicale) e collocato al vertice dell'organizzazione aziendale, è colui che svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell'azienda con scelte di respiro globale e che si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro, dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale, per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia (cfr., ex multis, Cass. sez.l av., 22 dicembre 2006, n. 27464).

Il dirigente, nella sua qualità di lavoratore subordinato, è soggetto al potere di etero-direzione datoriale, ma in una forma attenuata, nel senso che non si ha sottoposizione ad un penetrante potere direttivo e di controllo, bensì alle direttive generali dell'imprenditore sulle politiche da perseguire, senza che vi sia un assiduo controllo e una reiterazione di ordini (cfr., ex multis, Cass.sez. lav., 21 gennaio 2009, n. 1536).

Nel solco di questa nozione, la giurisprudenza ha successivamente elaborato ulteriori criteri per riconoscere la categoria dirigenziale, quali l'esercizio di un ampio potere di autonomia nell'imprimere le direttive di organizzazione dell'azienda e nella gestione delle relative responsabilità, la preposizione al vertice della piramide gerarchica con esercizio dei poteri su tutto il personale o su un vasto gruppo di essi, la responsabilità diretta verso l'imprenditore sull'andamento dell'azienda o di un suo particolare settore in rapporto all'estensione delle funzioni assegnate, il carattere spiccatamente intellettuale e fiduciario della collaborazione.

In evidenza: prassi

Pur se nell'ambito dell'attuazione del D.Lgs. 29 dicembre 2016 n. 253 (recante le disposizioni di recepimento della cd. Direttiva ICT - Intra-Corporate Transfer), il Ministero dell'Interno e il Ministero del Lavoro hanno affermato che la categoria di dirigente, ai fini dell'applicazione del decreto, “è prevista dall'art. 2095 c.c. ed è da riferirsi ad un lavoratore che svolge funzioni connotate da elevata professionalità, autonomia decisionale, responsabilità nei confronti dell'imprenditore, nonché da poteri di coordinamento e controllo dell'intera attività aziendale o di un ramo autonomo dell'impresa” (cfr. Circ. Min. Int. – Min. Lav. 9 febbraio 2017, n. 517).

La giurisprudenza più recente – alla luce delle dimensioni della struttura che può presentare un'azienda, della molteplicità delle dinamiche interne, nonché delle diversità di ruoli e funzioni che si possono presentare nelle organizzazioni aziendali complesse – ha riconosciuto che la qualifica di dirigente può ricomprendere gradi e livelli diversi di responsabilità. Pertanto, essa non spetta solamente ai dirigenti apicali, ma anche ai dirigenti intermedi e di grado minore che, per la preparazione professionale ed autonomia decisionale loro demandata, seppur in un ambito aziendale più ristretto, sono in grado di operare con un corrispondente grado di responsabilità nell'ambito di un reparto autonomo dell'impresa (tra le ultime,cfr. Cass. sez. lav., 4 agosto 2017, n. 19579).

Come conferma la dottrina (tra gli altri, Pergolesi e Meucci), la nozione legale di dirigente sarebbe, quindi, comprensiva non solo della figura del cd. top manager ma, altresì, delle figure del cd. middle manager e del cd. low manager, dirigenti che preordinano gli strumenti operativi per l'attuazione delle scelte strategiche, ovvero impiegati in ruoli professionali o di staff caratterizzati dall'elevata specializzazione professionale a supporto ed orientamento indispensabile per l'assunzione delle decisioni fondamentali dell'azienda.

In evidenza: l'impiegato con funzioni direttive

Il tratto distintivo della qualifica dirigenziale rispetto a quella dell'impiegato con funzioni direttive è dato dall'ampiezza delle funzioni, estese per la prima qualifica all'intera azienda o ad un ramo autonomo di essa e tali da incidere, per effetto dell'autonomia e della discrezionalità delle decisioni, sull'andamento della stessa azienda e che invece sono circoscritte, nella seconda ipotesi, solo ad un settore, ramo, servizio o ufficio.

L'impiegato con funzioni direttive è preposto, quindi, ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e svolge la sua attività sotto il controllo dell'imprenditore o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con una corrispondente limitazione di responsabilità (cd. pseudo-dirigente) (cfr. Cass. sez. lav, 16 settembre 2015, n. 18165).

Il dirigente nelle definizioni fornite dalla contrattazione collettiva

I maggiori contratti collettivi applicati ai dirigenti (ad esempio, il CCNL Dirigenti Industria e il CCNL Dirigenti Terziario) hanno fornito una definizione convenzionale di tale figura. Allo scopo di individuare e circoscrivere i tratti distintivi del dirigente non è sufficiente, dunque, riferirsi alle elaborazioni della giurisprudenza, ma è necessario indagare, con riferimento agli specifici settori produttivi e merceologici, la descrizione offerta dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato che il contratto collettivo nazionale, riflettendo la volontà delle parti stipulanti e la loro specifica esperienza di settore, assume valore vincolante e decisivo nell'individuazione dei tratti peculiari del dirigente, tanto da imporre al giudice del lavoro, in caso di contenzioso relativo alla qualificazione del rapporto di lavoro, l'obbligo di attenersi ai requisiti specificamente previsti dai contraenti collettivi (cfr. Cass. sez. lav.26 aprile 2005, n. 8650).

In evidenza: la definizione di dirigente nell'ambito dei CCNL di categoria

CCNL Dirigenti Industria: “Sono dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le condizioni di subordinazione di cui all'art. 2094 c.c. e che ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa”.

CCNL Dirigenti Terziario: “Sono dirigenti a norma dell'art. 2094 c.c. […] coloro che, rispondendo direttamente all'imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l'impresa o ad una sua parte autonoma”.

La qualifica dirigenziale e la carica di amministratore di società

Non è infrequente che, in capo ad un medesimo soggetto, sussistano contemporaneamente un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale con la società e la posizione di membro del consiglio d'amministrazione della medesima società.

Secondo la giurisprudenza, il ruolo di amministratore di una società di capitali è cumulabile con la qualifica dirigenziale ove sia accertato, in concreto: (i) lo svolgimento da parte del dirigente di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita e (ii) il disimpegno dell'attività riconnessa al contratto di lavoro subordinato con assoggettamento del medesimo dirigente ad un effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare da parte dell'organo amministrativo pluripersonale (cfr., ex multis, Trib. Milano 13 febbraio 2017, n. 91).

Di conseguenza, la qualifica di lavoratore subordinato non è compatibile con quella di amministratore unico di una società di capitali, in quanto la soggezione del lavoratore al potere di controllo e disciplinare è escluso dalla immedesimazione, in un unico soggetto, del ruolo di esecutore della volontà sociale e di organo esclusivo competente ad esprimerla (cfr. Cass. sez. lav., 1 agosto 2013, n. 18414).

Altrettanto è stato ritenuto per la figura dell'amministratore delegato quando abbia poteri di gestione illimitati e tali da escludere la distinzione tra l'organo titolare dei poteri gestori stessi e il dirigente (cfr. Trib. Milano 2 maggio 2012, n. 5080).

Costituzione ed esecuzione del rapporto di lavoro dirigenziale

Per la costituzione del rapporto di lavoro subordinato del dirigente non è richiesta la forma scritta, la quale, tuttavia, si rende necessaria allo scopo di poter prevedere istituti che – alla luce del ruolo spiccatamente fiduciario che caratterizza la prestazione di lavoro del dirigente – consentano di salvaguardare specifici interessi datoriali, quali la riservatezza e la confidenzialità rispetto al know-how aziendale, il divieto di prestare attività concorrenziale in una fase successiva alla cessazione del rapporto e la previsione di una remunerazione variabile al raggiungimento di obiettivi aziendali.

Contratto a tempo determinato

Il contratto di lavoro per il personale dirigenziale può essere stipulato anche con l'apposizione di un termine di durata, rispetto al quale il legislatore ha individuato precisi limiti.

L'art. 29 del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, nell'ambito della disciplina che regola il rapporto di lavoro a tempo determinato, prevede espressamente: (i) un limite massimo quinquennale per la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato con personale dirigenziale e (ii) un periodo di non recedibilità, salve le ipotesi di giusta causa, pari a tre anni dall'inizio del rapporto.

Salvo quanto sopra, al dirigente non si applicano la disciplina e le garanzie previste per l'apposizione di un termine di durata al rapporto di lavoro come, invece, per le altre categorie in cui si suddividono i prestatori di lavoro subordinato.

Orario di lavoro

L'art. 17, D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 esclude l'applicazione ai dirigenti delle norme concernenti l'orario normale di lavoro, la durata massima dell'orario, lo straordinario, le pause, nonché il lavoro notturno.

Di conseguenza, per i dirigenti, la delimitazione di un orario normale di lavoro può essere disposta solo in via pattizia, nell'ambito, quindi, delle previsioni contenute nel contratto collettivo applicato al rapporto, delle prassi aziendali esistenti oppure del contratto individuale di lavoro (cfr. Cass. sez. lav., 23 luglio 2004, n. 13882).

In evidenza: il rapporto di lavoro part-time del dirigente

In mancanza di una specifica previsione normativa (anche a seguito delle recenti riforme), permangono dubbi sulla compatibilità dei singoli aspetti della disciplina del rapporto di lavoro part-time con le peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale. La giurisprudenza, tuttavia, ha ammesso in via pressoché generale la possibilità di instaurare un rapporto di lavoro part-time con un dirigente ove siano rispettate, tra l'altro, le seguenti condizioni: (i) sia previsto un limite quantitativo della prestazione lavorativa e, conseguentemente, un criterio di controllo dell'orario di lavoro prestato dal dirigente (tale, però, da non snaturare l'autonomia tipica di tale figura) e (ii) sia rimessa all'autonomia del dirigente la distribuzione dell'orario di lavoro, tramite la previsione di clausole elastiche (cfr. Cass. sez. lav., 1 settembre 2008, n. 22003).

Ferie

Il dirigente, al pari degli altri prestatori di lavoro subordinato, ha diritto ad un periodo di astensione dal lavoro non inferiore a quattro settimane su base annuale, che – salvo diversa disposizione dei contratti collettivi – devono essere godute per almeno due settimane nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, entro i 18 mesi successivi.

La giurisprudenza non riconosce al personale dirigenziale il diritto alla monetizzazione delle ferie non godute all'atto della cessazione del rapporto di lavoro e, quindi, il diritto di percepire la relativa indennità sostitutiva, sul presupposto che il dirigente ha il potere di attribuirsi le ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, stabilendo, altresì, quando goderne.

Eccezione a tale principio – con conseguente diritto del dirigente a percepire la relativa indennità sostitutiva – è costituita dalle ipotesi in cui particolari necessità aziendali, assolutamente eccezionali ed obiettive, abbiano impedito al medesimo dirigente la fruizione delle ferie.

Il diritto alla monetizzazione delle ferie non godute sussiste, tuttavia, per i dirigenti non apicali, per i quali è prevista l'autorizzazione alle ferie da parte del superiore gerarchico (cfr. Cass. sez. lav., 30 aprile 2015, n. 8791).

In evidenza: omessa fruizione delle ferie e onere della prova

Il potere, in capo al dirigente, di scegliere da sé tempi e modi di godimento delle ferie costituisce eccezione da sollevarsi e provarsi a cura del datore di lavoro; per contro, l'esistenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive, ostative alla fruizione di tali ferie, integra una contro-eccezione da proporsi e dimostrarsi a cura del dirigente (cfr. Cass. sez. lav., 10 ottobre 2017, n. 23697).

Patto di non concorrenza

Il datore di lavoro ed il dirigente possono stipulare – al momento dell'assunzione, nel corso del rapporto di lavoro o a seguito della sua cessazione – un patto di non concorrenza, ossia un accordo attraverso il quale viene limitato lo svolgimento dell'attività lavorativa del dirigente successivamente alla conclusione del rapporto lavorativo precedente.

Il patto di non concorrenza è disciplinato dall'art. 2125 c.c. che prevede espressamente la nullità dell'accordo nel caso in cui quest'ultimo non risulti da atto scritto, nonché ove il vincolo non sia contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo e non sia appositamente remunerato.

Quanto all'oggetto del patto, è necessario che l'accordo indichi specificamente l'attività di cui il datore di lavoro intende vietare l'esercizio una volta concluso il rapporto lavorativo con il dirigente.

Al riguardo, la giurisprudenza ritiene nullo l'accordo che, in relazione all'ampiezza del suo oggetto (i.e. l'attività lavorativa vietata), sia tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore fino a comprometterne ogni capacità reddituale (cfr. Trib. Milano, 6 maggio 2015). Conseguentemente, il patto è valido ove sia lasciata al dirigente, in concreto, la possibilità di svolgere un'attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita nel corso del rapporto di lavoro (cfr. Trib. Milano 31 luglio 2003).

Il patto di non concorrenza del dirigente non può superare la durata di cinque anni cosicché, se le parti hanno pattuito una durata maggiore, quest'ultima deve intendersi ipso iure ridotta nella misura massima stabilita dall'art. 2125 c.c.

L'accordo deve indicare espressamente il territorio entro cui l'attività del dirigente è vietata.

La giurisprudenza ritiene che, nell'era del mercato globale, siano legittimi i patti di non concorrenza estesi non solo al territorio nazionale, ma anche all'intero territorio europeo (cfr. Cass. sez. lav., 10 settembre 2003, n. 13282).

La dottrina ritiene che il divieto di concorrenza possa anche non avere un limite territoriale a condizione che sia contenuto entro circoscritti limiti di oggetto (tra gli altri, Zoli).

Per quanto riguarda l'ammontare del compenso, questo deve risultare idoneo a remunerare il sacrificio imposto al dirigente di ricollocarsi liberamente sul mercato. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene nulle le pattuizioni non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al dirigente e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno (cfr. Trib. Milano, 25 marzo 2011).

Trattamenti retributivi

È frequente che la retribuzione del dirigente sia composta, oltre che da una componente mensile fissa, da una parte variabile collegata al raggiungimento di determinati obiettivi.

La necessità di coinvolgere maggiormente i prestatori di lavoro nell'ambito dei risultati aziendali ha spinto a ricercare, accanto a quelle più tradizionali, nuove forme di incentivazione, i cui effetti economici siano direttamente influenzati dalla crescita dell'impresa. Con riferimento alla categoria dei dirigenti, non è infrequente, quindi, che sia riconosciuta la partecipazione a piani di stock option o MBO, l'erogazione di bonus, etc.

Non mancano forme di remunerazione previste in caso di risoluzione del rapporto di lavoro con il dirigente, che hanno il pregio di individuare, sin dalla genesi dello stesso, l'impatto economico collegato alla cessazione del rapporto. In tal senso, si registrano clausole che attribuiscono ai dirigenti i cd. golden parachutes, ovverosiail diritto di ricevere (significative e preconcordate) somme di denaro in caso di cessazione anticipata del rapporto ad iniziativa del datore di lavoro.

Sono anche previste forme di retention che coinvolgono sia il datore di lavoro che il dirigente, il quale si vincola a non recedere dal rapporto di lavoro, fatte salve ipotesi di giusta causa, prima di un determinato periodo. Nell'ambito di tali clausole, la parte che recede prima del tempo minimo concordato è tenuta al pagamento di una penale che viene generalmente individuata in una somma pari alle retribuzioni mancanti al completamento del periodo di stabilità.

La giurisprudenza ritiene nulle le formule di retention poste ad esclusivo favore del datore di lavoro, ritenendosi che, in assenza di controprestazioni a favore del dirigente, esse finiscano per pregiudicare la libera esplicazione del percorso di carriera del medesimo (cfr. Cass. sez. lav., 9 giugno 2017, n. 14457).

Risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente

Al rapporto di lavoro del dirigente, con la sola eccezione della previsione riguardante l'obbligo di intimazione per iscritto, non si applica la disciplina speciale sui licenziamenti individuali (art. 10, L. 15 luglio 1966, n. 604), né le disposizioni relative al giustificato motivo, oggettivo e soggettivo, di recesso di cui all'art. 3, L. n. 604/1966.

Nell'ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, il recesso delle parti è caratterizzato dalla libera recedibilità e soggiace alle previsioni generali dettate dagli artt. 2118 e 2119 c. c., a fronte delle quali ciascuna delle parti può recedere dal rapporto riconoscendo all'altra un periodo di preavviso, salvo che il recesso intervenga per giusta causa.

Licenziamento

Fatte salve le ipotesi di licenziamento radicalmente nullo (tra cui rientrano quello discriminatorio e quello intimato senza forma scritta), le quali trovano la propria fonte e regolamentazione nell'art. 18, co. 1, della L. 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento del dirigente può ricadere nelle seguenti categorie:

  • il licenziamento di natura soggettiva (o disciplinare), riconducibile ad un comportamento colpevole o inadempiente del dirigente e graduabile, a seconda della gravità della condotta al medesimo ascritta, nel licenziamento per giusta causa (senza preavviso) e nel licenziamento per giustificatezza soggettiva (con preavviso);
  • il licenziamento di natura oggettiva, riconducibile ad una riorganizzazione dell'azienda o a ragioni economiche relative alla stessa, denominato licenziamento per giustificatezza oggettiva (con preavviso).

Attesa l'inapplicabilità al dirigente della disciplina sui licenziamenti individuali, per verificare la presenza di eventuali rimedi sul piano sanzionatorio, il parametro di riferimento è costituito dalla contrattazione collettiva.

I contratti collettivi nazionali individuano i riferimenti della giustificatezza del licenziamento e, in sua assenza, prevedono una indennità supplementare aggiuntiva rispetto all'indennità per il periodo di preavviso, graduate tra un minimo e un massimo in funzione dell'anzianità di servizio.

La giurisprudenza ha elaborato a sua volta una propria nozione di giustificatezza, dando vita a diversi indirizzi interpretativi.

Un primo gruppo di sentenze ha ritenuto che, per la sussistenza della giustificatezza del licenziamento, può assumere rilievo qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto ed idoneo, nell'ambito di una valutazione globale della fattispecie, ad escludere la pretestuosità ed arbitrarietà del recesso (cfr., ex multis, Cass. sez. lav., 17 marzo 2014, n. 6110).

Un secondo gruppo di sentenze, accanto al limite negativo costituito dal divieto di atti arbitrari o pretestuosi, ha ravvisato nel generale dovere di correttezza e buona fede che presiede all'esecuzione dei contratti (ivi incluso il contratto di lavoro) il parametro positivo in base al quale valutare la giustificatezza del recesso datoriale ai sensi della contrattazione collettiva applicabile (cfr., ex multis, Cass. sez. lav. 19 settembre 2011, n. 19074).

La nozione di giustificatezza del licenziamento si discosta da quella di giustificato motivo prevista dall'art. 3 della L. n. 604/1966, in quanto è estraneo il concetto di extrema ratio del recesso datoriale che connota quest'ultima disposizione.

Sul piano soggettivo l'asimmetria trova la propria ragion d'essere nello spiccato rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, in virtù delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali. Di conseguenza, anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante può costituire una valida ragione di rottura del vincolo contrattuale, così come una non secondaria deviazione del dirigente dalle direttive generali del datore di lavoro (cfr. Trib. Modena, 5 maggio 2017). In questi casi la giurisprudenza ha riconosciuto la validità del recesso datoriale.

Sul piano del licenziamento riconducibile a esigenze oggettive, la giurisprudenza ha chiarito che il recesso datoriale non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità di continuare il rapporto a fronte di una situazione di grave crisi aziendale, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 della Cost. all'imprenditore, che verrebbe radicalmente negata ove si impedisse a quest'ultimo, fatte salve arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli di gestione dell'impresa (cfr. Cass. sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13958).

Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento per esigenze oggettive, non è obbligato a verificare, all'interno dell'impresa, l'esistenza di posizioni vacanti cui reimpiegare il dirigente alla luce del regime di libera recedibilità che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale. Di conseguenza, l'obbligo di repêchage non rientra tra gli oneri cui il datore di lavoro deve far fronte per procedere all'estromissione del manager (cfr., ex multis, Cass. sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7046).

Per quanto riguarda la giusta causa di licenziamento, lo stringente rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro comporta che anche fatti di modesto rilievo, tali da impedire il provvedimento espulsivo nei confronti del personale non dirigenziale, od estranei alla prestazione di lavoro possano determinare la decisione dell'imprenditore di recedere in tronco dal rapporto.

La giurisprudenza ha ritenuto che la tenuità del fatto addebitato al dirigente sul piano disciplinare, anche qualora abbia cagionato un danno patrimoniale irrilevante per l'azienda, può fondare un licenziamento per giusta causa, ove la valutazione della condotta del dirigente sotto il profilo sintomatico sia indicativa della futura incapacità del manager di adempiere correttamente le obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro (cfr. Cass. sez. lav., 18 settembre 2014, n. 19684).

Dimissioni

Il dirigente può recedere dal contratto di lavoro rassegnando le proprie dimissioni nel rispetto dei termini di preavviso stabiliti dal contratto collettivo applicato, oppure con effetto immediato ove intervenga una giusta causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

Anche nel caso delle dimissioni, la giusta causa va verificata in concreto, come nell'ipotesi in cui il dirigente assuma, a giustificazione della volontà di recedere con effetto immediato dal rapporto, l'esistenza di un demansionamento.

In tale ipotesi, non è sufficiente qualunque modificazione qualitativa o quantitativa della prestazione richiesta al dirigente, essendo invece necessario che essa incida sul livello professionale raggiunto dal manager, sulla sua collocazione nell'ambito aziendale, sulla rilevanza del ruolo ricoperto e sull'ampiezza dei poteri decisionali attribuiti (cfr. Cass. sez. lav., 13 dicembre 2017, n. 29958 che richiama Cass. sez. lav., 11 luglio 2005, n. 14496).

La magistratura del lavoro ha ritenuto sorrette da giusta causa le dimissioni rassegnate dal dirigente a fronte del reiterato mancato pagamento della retribuzione, della riduzione unilaterale della retribuzione stessa, nonché della collocazione del dirigente in ferie forzate (cfr. Trib. Milano, 16 febraio 2016).

I contratti collettivi di categoria prevedono ipotesi (tassative) di dimissioni qualificate, le quali hanno la funzione di permettere al dirigente il recesso dal rapporto di lavoro in conseguenza di eventi aziendali che incidano significativamente sulla sua posizione professionale o sul contenuto delle proprie responsabilità, tra le quali un cambiamento sostanziale degli assetti proprietari dell'impresa o una cessione del ramo d'azienda.

In evidenza: eventi particolari che incidono sulla struttura societaria del datore di lavoro

L'art. 13 del CCNL Dirigenti Industria – che prevede, in caso di trasferimento di proprietà dell'azienda, la facoltà del dirigente di recedere dal rapporto entro 180 giorni dalla data legale dell'avvenuto cambiamento senza l'obbligo di preavviso e con il diritto al riconoscimento di un trattamento pari a 1/3 dell'indennità sostitutiva del preavviso spettante per il licenziamento – deve essere interpretato nel senso che la norma trova applicazione anche nel caso di cessione dell'intero pacchetto azionario della società datrice di lavoro poiché, in tal caso, l'acquirente assume il pieno controllo del capitale sociale e si verifica, dunque, un integrale mutamento dell'assetto proprietario della società (cfr. Trib. Milano, 17 giugno 2003).

Riferimenti

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v.  Cass., sez. lav., ord. 06 dicembre 2023, n. 34155

Cass. civ., 16 giugno 2009, n. 13953

Cass. civ., 19 maggio 2008, n. 12630

Cass. civ., 24 maggio 2006, n. 12226

Cass. civ., 23 luglio 2004, n. 13882

Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5526

Cass. civ. 10 settembre 2003, n. 13282

Cass. civ. 11 luglio 2007, n. 15489

Cass.civ. 1 settembre 2008, n. 22003

Cass.civ. 21 gennaio 2009, n. 1536

Cass. civ. 28 marzo 2011, n. 7046

Cass. civ. 19 settembre 2011, n. 19074

Cass. civ, 17 marzo 2014, n. 6110

Cass. civ. 18 settembre 2014, n. 19684

Cass. civ. 30 aprile 2015, n. 8791

Tribunale Modena 5 maggio 2017

Normativi:

Art. 2094 c.c.

Art. 2095 c.c.

Art. 2118 c.c.

Art. 2119 c.c.

Art. 2125 c.c.

Art. 2, L. 15 luglio 1966, n. 604

Art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300

Art. 17, D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66

Art. 29, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81