12 Ottobre 2017

Il principio di soccombenza, esplicitato nell'art. 91 c.p.c, esprime una regola destinata ad operare per l'attribuzione del carico delle spese di lite: la regola per cui alla parte soccombente, e cioè alla parte le cui richieste siano state disattese dal giudice, si imputano gli oneri processuali necessari ai fini della relativa decisione, per avervi dato causa.
Inquadramento

Se la nozione di soccombenza ha carattere descrittivo poiché allude, in linea generale, alla coincidenza tra le richieste delle parti stesse e la decisione del giudice, il principio di soccombenza, esplicitato nell'art. 91 c.p.c, esprime «una regola destinata ad operare per l'attribuzione del carico delle spese di lite: la regola per cui alla parte soccombente, e cioè alla parte le cui richieste siano state disattese dal giudice, si imputano gli oneri processuali necessari ai fini della relativa decisione, per avervi dato causa» (Cass., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438).

La Corte di Cassazione ha anche chiarito che: «La parte soccombente va identificata … in quella che, lasciando insoddisfatta una pretesa …, abbia dato causa alla lite, ovvero con quella che abbia tenuto nel processo un comportamento rilevatosi ingiustificato» (Cass., sez. III, 10 settembre 1986, n. 5539) ed ancora «in quella che, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo ad una pretesa fondata, abbia dato causa al processo o alla sua protrazione e che debba qualificarsi tale in relazione all'esito finale della controversia…» (Cass.,sez. III, 30 marzo 2010, n. 7625).

Tale situazione è sicuramente ravvisabile anche quando il giudizio si concluda con una pronuncia in rito.

Infatti se la soccombenza costituisce un'applicazione del principio di causalità, che vuole non esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (per la trasgressione delle norme di diritto sostanziale), abbia provocato la necessità del processo, essa «… ben può essere determinata, anziché da ragioni di merito, per avere l'attore promosso il giudizio con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile, e tale dichiarato dal giudice adito con pronunzia che ha definito il giudizio, essendovi pure in tal caso il mancato accoglimento della domanda, ancorché per un impedimento di carattere processuale» (Cass., sez.lav., 27 dicembre 1999, n. 14576).

Sulla scorta di tali premesse è stato affermato che sussiste soccombenza anche qualora il rigetto della domanda derivi dall'esercizio, da parte del giudicante, dei suoi poteri officiosi.

Al fine dell'accertamento della parte risultata "soccombente", infatti, «non rilevano i comportamenti neutri della parte contro cui il giudizio venga promosso, e cioè quelli che non implicano l'esclusione del dissenso né importano l'adesione all'avversa richiesta, quali il restare inerte e non dedurre nulla in contrario all'accoglimento della domanda dell'attore» (Cass., sez. III, 15 luglio 2008, n.19456).

Come correttamente, quindi, è ritenuto soccombente e merita la condanna al rimborso delle spese processuali il convenuto contumace, oppure il convenuto che, pur avendo riconosciuto la fondatezza della pretesa altrui, non abbia fatto nulla per soddisfarla, sì da rendere superfluo il ricorso all'autorità giudiziaria (Cass., sez. III, 28 marzo 2001, n. 4485); così, qualora una domanda sia stata rigettata, l'attore deve essere considerato soccombente, ancorché il giudicante abbia rigettato la domanda anziché sulla base delle difese del convenuto in forza di altre considerazioni.

In evidenza

La condanna al pagamento delle spese del giudizio, in quanto consequenziale ed accessoria rispetto alla pronunzia che definisce il processo, può essere legittimamente emessa dal giudice a carico del soccombente anche d'ufficio, in mancanza di un'esplicita richiesta dalla parte che risulti vittoriosa, sempre che la stessa non abbia manifestato espressa volontà contraria (Cass., sez. VI, 11 febbraio 2015, n. 2719) e, di conseguenza, tale pronunzia non integra mai gli estremi del vizio di ultrapetizione (Cass, sez. II, 13 novembre 1979, n. 5889).

Criteri utili ad individuare la parte soccombente

Dopo aver definito la nozione di soccombenza è opportuno illustrare i criteri utili ad individuare la parte soccombente.

I passaggi che a tal fine il giudice deve compiere, sebbene non richiedano una esplicita motivazione, anche qualora in tal modo dovesse essere disattesa la sollecitazione a disporre la compensazione delle spese, sono i seguenti:

A) determinazione della domanda originaria, per tale intendendosi quella di primo grado;

B) valutazione del conseguimento totale o parziale del bene originariamente domandato o difeso, senza considerare il rigetto di eccezioni processuali o di merito svolte nel corso del giudizio (Cass., sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18503);

C) comparazione con l'esito finale del giudizio (unitariamente considerato, in caso di giudizi di impugnazione).

L'operazione predetta, se è semplice nel caso di processi con un solo convenuto e un solo attore che si concludano con l'integrale accoglimento di una delle prospettazioni, può risultare via via più difficile a seconda delle variabili oggettive e soggettive del giudizio.

Così, qualora la vittoria di una delle parti sia solo parziale, il primo problema, che si pone è quello della determinazione della misura della vittoria, che deve essere commisurata all'intera domanda inizialmente formulata.

La valutazione sarà relativamente semplice se si tratta di comparare dei valori monetari, mentre lo sarà assai meno quando occorra raffrontare non valori ma situazioni finali, come, ad esempio, in caso di domande di accertamento o costitutive.

In questo caso i "valori" da porre in comparazione sono quelli costituiti dai vantaggi economici e non che conseguono, da un lato, dall'accoglimento integrale della domanda, e dall'altro dalla situazione qual è a seguito dell'accoglimento parziale.

Il procedimento sopra illustrato può risultare difficoltoso anche nei processi oggettivamente e soggettivamente complessi, poiché deve essere seguito per ciascuna delle parti contendenti e per ciascuna domanda.

Per averne contezza basta considerare l'ipotesi, invero piuttosto semplice, in cui una parte risulti pienamente vittoriosa contro alcune controparti e totalmente soccombente nei confronti di un'altra o di altre.

Qui si tratta di scorporare dalle spese di lite da liquidare ad essa la quota imputabile alla difesa soccombente contro quelle parti in una misura che di solito è uguale per ciascuna delle parti soccombenti.

In evidenza

Volendo esemplificare meglio quanto appena detto pensiamo al caso in cui Tizio agisca nei confronti di Caio, Sempronio e Mevio, chiedendone la condanna in solido al pagamento di una somma. All'esito del giudizio Mevio risulta totalmente estraneo ai fatti a differenza di Caio e Sempronio. La soccombenza in tal caso è evidente: sono soccombenti verso Tizio, Caio e Sempronio ma Tizio è a sua volta soccombente verso Mevio. Allora si liquideranno le spese globali in favore di Tizio e di esse solo i 2/3 saranno accollati alle controparti soccombenti, Caio e Sempronio. Mevio avrà invece diritto alla rifusione delle spese nei confronti di Tizio.

Il procedimento diventa più complesso se, in ipotesi di una pluralità di soccombenti nella stessa posizione, al fine di determinare la esatta misura in cui essi devono concorrere alle spese occorra tener conto del loro rispettivo interesse nella causa, come prevede l'art. 97 c.p.c..

La norma, che costituisce una deroga all'art. 1294 c.c., subordina la solidarietà all'esistenza di un “interesse comune” ma è quanto mai controverso tra gli interpreti quando si verifichi un simile presupposto.

Secondo parte della dottrina esso sussiste quando la causa poteva essere proposta da o contro un soggetto ma ne ha coinvolti una pluralità, mentre dovrebbe escludersi in presenza di litisconsorzio necessario (Grasso).

Altri autori hanno invece ravvisato la comunanza di interesse ogni qual volta il rapporto sostanziale tra le parti sia tale che la soccombenza di una non possa essere disgiunta dalla soccombenza delle altre (Andrioli).

In giurisprudenza sulla questione si segnalano due orientamenti contrapposti.

ORIENTAMENTI A CONFRONTO: APPLICAZIONE DELL'

ART. 97 C.P.C.

L'interesse comune di cui all'art. 97 c.p.c. è ravvisabile nella richiesta del medesimo provvedimento o nella identità delle difese svolte e delle questioni controverse.

Cass. sez. III, 28 novembre 2007, n.24757; Cass. sez. II, 21 novembre 2006 n. 24680.

La comunanza di interessi la quale legittima, ai sensi dell'art. 97 c.p.c., la condanna solidale di più soccombenti al pagamento delle spese di giudizio, presuppone un interesse comune, che può rilevarsi anche in una convergenza di atteggiamenti difensivi, quando esista una sostanziale identità delle questioni dibattute tra le parti nel processo. Tale interesse è misura e limite del vincolo di solidarietà alla rifusione delle spese: nel senso che la solidarietà cessa quando il comune interesse sussista per una parte della domanda, e non per il resto.

Cass. sez. II, 6 aprile 1966, n. 1063; Cass. sez. III, 24 maggio 1972, n. 1628; Cass. sez. III, 11 aprile 2016, n.6976.

Secondo l'indirizzo da ultimo citato pertanto nel caso in cui risultino soccombenti due parti che avevano proposto altrettante domande, tra loro autonome e di valore diverso, ma sottese da un comune interesse, «la solidarietà deve essere rapportata alla misura dell'interesse comune e cioè a quella delle due domande che, per essere di minor valore, è ricompresa nel valore dell'altra, dovendosi per il resto rispettare il disposto dell'art. 97, comma 2, secondo periodo, c.p.c., per il quale il giudice, se le parti soccombenti sono più, condanna ciascuna di esse alle spese in proporzione del rispettivo interesse nella causa».

Lo stesso principio è stato affermato in altra sentenza rispetto ad una controversia promossa da un avvocato per il recupero del compenso per l'attività giudiziale svolta. In quella occasione la Suprema Corte aveva infatti statuito che: «il solo fatto di essere convenuti in giudizio per il pagamento di uno specifico importo unitamente ad altri debitori non può determinare la conseguenza che il cliente si trovi esposto a dover pagare compensi professionali determinati con riguardo al complessivo importo dovuto da tutti i soggetti convenuti nel medesimo giudizio» (Cass., sez. II, 29 ottobre 2015, n. 22102).

Peraltro stabilire in concreto quale sia l'interesse, necessariamente di natura economica, di ciascuna parte nella causa è però operazione quanto mai ardua cosicché i predetti principi non sono di agevole applicazione.

Ancora, occorre tener conto che, nel caso in cui vi siano più gradi di giudizio, l'individuazione della parte soccombente deve essere, in ogni caso, operata con riguardo all'esito finale del processo. Occorre, cioè, effettuare una valutazione globale ed unitaria, per la quale non rilevano né l'esito delle varie fasi del procedimento (se vi sono stati più gradi del giudizio) né la pronuncia emessa su singoli oggetti della domanda (si pensi alle spese relative al grado di cassazione quando vi sia stato il successivo giudizio di rinvio).

La soccombenza virtuale

È sempre il principio di causalità a giustificare l'applicazione della regola della c.d. soccombenza virtuale nella regolamentazione delle spese della causa che si concluda con la formula, individuata dalla prassi giurisprudenziale, della cessazione della materia del contendere e che, a ben vedere, non costituisce altro che un'ipotesi di estinzione del giudizio.

In evidenza

La cessazione della materia del contendere si verifica ogniqualvolta non si possa fare luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o per rinuncia alla pretesa sostanziale, per il venire meno dell'interesse delle parti alla soluzione in via giudiziale del conflitto, fatto salvo il residuo contrasto sul profilo delle spese, e va accertata dal giudice d'ufficio o su istanza di parte.

Contrariamente all'ipotesi di estinzione del giudizio per rinuncia agli atti, a norma dell'art. 306 c.p.c., che comporta che le spese vanno poste a carico del rinunciante in difetto di accordo delle parti in ordine alla regolamentazione delle spese processuali, il giudice laddove accerti il sopravvento difetto d'interesse alla pronuncia ai sensi dell'art. 100 c.p.c. e dichiari conseguentemente la c.d. cessazione della materia del contendere, la regolamentazione delle spese processuali deve avvenire secondo il principio della soccombenza virtuale (App. Bari, 28 febbraio 2012).

ORIENTAMENTI A CONFRONTO: IPOTESI CHE DETERMINANO SOCCOMBENZA VIRTUALE

Quando, nelle more del giudizio, si sia verificata una sopravvenienza fattuale satisfattiva dell'interesse al bene della vita sotteso alla proposizione dello stesso.

Trib. Siena, 3 giugno 2015.

Qualora le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice.

Trib. Massa, 7 ottobre 2015.

Quando le parti definiscano in via transattiva la lite senza trovare un accordo sul profilo delle spese processuali

Trib. Bari, 6 settembre 2012; Cass., sez. II, 24 luglio 1980, n. 4814.

Qualora poi la composizione amichevole si verifichi in sede d'impugnazione essa giustifica non già l'inammissibilità dell'appello o del ricorso per cassazione, bensì, da un lato, la rimozione delle sentenze già emesse, prive di attualità e, dall'altro, una pronuncia finale sulle spese, secondo una valutazione di soccombenza virtuale (Cass., sez. I, 13 settembre 2007, n. 19160; Cass., sez. I, 7 maggio 2009, n. 10553).

E' stato anche precisato che la regola della soccombenza virtuale impone in linea di massima al giudice la valutazione del fondamento della domanda, per verificare quale delle parti sarebbe risultata soccombente ove non si fosse verificato l'evento che ha posto fine alla lite, con la conseguenza che la condanna alle spese di lite, può esser emessa a carico della parte soccombente (pure virtuale) anche d'ufficio e in difetto di esplicita richiesta della parte vittoriosa, a meno che non vi sia un'espressa volontà contraria di quest'ultima che ne chieda la compensazione (Cass., sez. I, 22 ottobre 2007, n. 22106).

Tale verifica peraltro può non risultare agevole nei casi in cui la valutazione sulla fondatezza della domanda avrebbe richiesto necessariamente un passaggio istruttorio che, dato l'esito del giudizio, non ha avuto luogo.

La Cassazione, sia pure con riguardo al giudizio di impugnazione, ha statuito che la cessazione della materia del contendere impedisce al giudice di pervenire alla compensazione delle spese stesse, totale o parziale (Cass., sez. II, 23 aprile 2015, n. 8309) ma questa conclusione, dopo la drastica riduzione dei casi in cui è possibile compensare le spese, a seguito della modifica dell'art. 92 c.p.c., ad opera del d.l. n. 132/2014, risulta quanto mai residuale.

Un'eccezione alla regola in esame è costituita dall'art. 2377 c.c., nella parte in cui, all'ottavo e penultimo comma, stabilisce che, qualora la delibera assembleare impugnata venga sostituita, «il giudice provvede sulle spese ponendole di norma a carico della società», atteso che tale norma attribuisce rilievo, quale circostanza che, in linea di massima, giustifica la condanna alle spese della società, alla sostituzione della delibera e quindi può prescindere spesso dall'esame della c.d. soccombenza virtuale (a tale criterio invece dovrà ricorrersi se la sostituzione della delibera impugnata determini la cessazione della materia del contendere e la società si opponga alla condanna alle spese).

Del resto a spiegare tale specificità vale anche la considerazione che, dopo la sostituzione della delibera impugnata, è ben possibile che rimanga da valutare la fondatezza della domanda di risarcimento del danno - che sia stata avanzata in aggiunta a quella di annullamento - e, in caso di rigetto di essa, il giudice potrebbe ravvisare gli estremi della soccombenza parziale o reciproca.

E' stato peraltro giustamente osservato in giurisprudenza (App. Trento, 23 dicembre 2009) che la locuzione «di norma», utilizzata dal legislatore, lascia al giudice un margine di discrezionalità costituito dalla possibilità di disporre diversamente.

La previsione trova applicazione anche nel caso in cui venga prospettata la nullità e non la sola annullabilità della delibera (in virtù del richiamo ad essa da parte dell'art. 2379, ultimo comma, c.c.). Inoltre viene in rilievo sia nel procedimento, di natura cautelare, di sospensione dell'esecuzione delle delibere invalide di cui all'art. 2378, comma 3, c.c., atteso che anche nel corso di esso può emergere la possibilità di una sostituzione della delibera impugnata, anche su sollecitazione del giudice, sia nei procedimenti di impugnazione delle delibere di s.r.l. (ai sensi dell'art. 2479-ter, ultimo comma, c.c.).

É poi comunemente ritenuta applicabile in via analogica ai casi di annullamento di delibere di assembleari condominiali (Cass., sez. II, 5 giugno 1995, n. 6304) anche se in essi trova piena applicazione il principio della soccombenza virtuale dal momento che non è previsto per essi che le spese siano poste, in linea di massima, a carico del condominio.

L'estensione della regola della soccombenza ai giudizi sommari e camerali

La regolamentazione finale delle spese della lite, secondo il tenore letterale dell'art. 91 c.p.c., primo periodo, deve essere data «con la sentenza che chiude il processo», cosicché parrebbe che il principio non trovi applicazione in giudizi diversi da quello ordinario o qualora il giudizio ordinario non si concluda con sentenza.

In realtà diverse sono le eccezioni normativamente previste a tale regola.

Si pensi a quella in tema di procedimento cautelare o a quella, relativa al procedimento sommario di cognizione, introdotto dalla l. n. 69/2009 e disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c., secondo la quale, con l'ordinanza che definisce la controversia, il giudice provvede “in ogni caso” sulle spese del procedimento ai sensi degli artt. 91 ss. c.p.c. (art. 702-ter, ultimo comma, c.p.c.). Tale previsione vale anche per i procedimenti sommari speciali in virtù del richiamo ad essa da parte dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 150/2011.

La pronuncia sulle spese deve essere altresì contenuta, per espressa previsione normativa, nel decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 641, ultimo comma, c.p.c. e nella corrispondente ordinanza ex art. 186-ter c.p.c., nonché nell'ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. (non invece nell'ordinanza ex art. 186-bis c.p.c., almeno stando al tenore letterale della norma), atteso che si tratta di provvedimenti che possono acquistare efficacia analoga a quella della sentenza in caso di mancata reazione ad essi dell'ingiunto.

Si noti come l'applicabilità del disposto dell'art. 91 c.p.c. prescinda dalla natura del provvedimento con il quale il giudice definisce il giudizio.

La Corte costituzionale (Corte cost., sent., 14 novembre 2007, n. 37), infatti ha affermato che le ipotesi di previsione del regolamento delle spese processuali con provvedimenti non aventi natura di sentenza, devono essere considerate come espressione del principio generale secondo il quale il giudice che emette un provvedimento conclusivo di un procedimento, anche solo ipoteticamente idoneo a divenire definitivo, deve anche provvedere sulle spese.

La giurisprudenza di legittimità ha contribuito ad estendere l'ambito di applicazione dell'art. 91 c.p.c. dal momento che lo ha ritenuto riferibile a qualsiasi provvedimento che, nel risolvere contrapposte pretese, definisce il procedimento, e ciò indipendentemente dalla sua natura e dal rito al quale sia sottoposto.

Tale criterio, è stato chiarito, deve ispirare anche la regolamentazione delle spese processuali nel procedimento di opposizione ad ingiunzione di pagamento per sanzioni amministrative, a nulla rilevando in contrario che l'art. 23, l.24 novembre 1981, n. 689 prevedesse la condanna del solo ricorrente per l'ipotesi di rigetto dell'opposizione (Cass., sez. I, 2 febbraio 1998, n.1037; si noti peraltro che quella previsione non è stata riproposta nell'art. 6, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150), ed anche se il giudizio si concluda con la ordinanza di convalida (si vedano l'art. 6, comma 10, lett. b) e l'art. 7, comma 9, lett. b), d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150).

Altrettanto può dirsi per i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo (Cass., sez. VI, 18 marzo 2016, n. 5425).

La Cassazione (Cass., sez. II, 26 marzo 2013, n. 7625) ha ritenuto che anche la decisione che estrometta una parte dal giudizio ritenendola priva di legittimazione passiva debba provvedere al regolamento delle spese del relativo rapporto processuale. Essa infatti ha il valore di una pronuncia di rigetto della domanda proposta contro tale soggetto, ed esaurisce quindi nei confronti di quello la materia del contendere.

Il principio di cui all'art. 91 c.p.c. trova poi applicazione, per orientamento consolidato, anche nel procedimento per convalida di sfratto, nel senso che l'ordinanza pronunciata a norma dell'art. 663, primo comma, c.p.c., con cui lo sfratto è convalidato, deve contenere la condanna dell'intimato al rimborso delle spese sostenute dal locatore per gli atti del procedimento, comprese quelle per la rappresentanza tecnica (Cass., sez. III, 13 giugno 1994, n. 5720).

ORIENTAMENTI A CONFRONTO: GIUDIZI CAMERALI IN CUI E' STATO RITENUTO APPLICABILE IL PRINCIPIO DI SOCCOMBENZA

Procedimento diretto alla revoca dell'amministratore di condominio.

Cass., Sez. Un., 29 ottobre 2004, n. 20957.

Giudizio di reclamo ex art. 739 c.p.c. avverso il decreto del giudice tutelare che ha rigettato la istanza di nomina di un curatore speciale ad un minore.

Cass., sez. I, 16 maggio 2007, n. 11320.

Procedimento camerale che può svolgersi davanti alla Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 375 c.p.c..

Cass., sez. lav., 7 settembre 2007, n. 18906.

Procedimento camerale previsto dall'art. 2192 c.c., nel quale il Tribunale provvede su reclamo avverso il decreto emesso dal giudice del registro.

Cass., sez. I, 23 febbraio 2012, n. 2757.

Fase di deliberazione in camera di consiglio sull'ammissibilità dell'azione per la declaratoria giudiziale di paternità o maternità naturale anche quando tale fase si sia conclusa con la declaratoria di ammissibilità, per essere stato rigettato dalla Corte d'appello il reclamo.

Cass., sez. I, 14 gennaio 2000, n. 348.

Procedimento ex art. 2409 c.c., con la conseguenza che le spese della procedura vanno accollate agli amministratori le cui gravi irregolarità vengano accertate o, viceversa, a chi abbia proposto senza successo la denunzia.

Cass., sez. I, 5 luglio 2002, n. 9828.

Una pronuncia di legittimità ha ritenuto che il regolamento delle spese sia giustificato anche nel procedimento di interdizione (si è espressa nei medesimi termini, con riguardo al procedimento di inabilitazione, Cass., sez. I, 13 marzo 1980 n. 1680).

Infatti, sebbene tale procedimento presenti numerose peculiarità, quali la coesistenza di diritti soggettivi privati e di profili pubblicistici, la natura e non disponibilità degli interessi coinvolti, la posizione dei soggetti legittimati a presentare il ricorso, che esercitano un potere di azione, ma non agiscono a tutela di un proprio diritto soggettivo, gli ampi poteri inquisitori del giudice, la particolare pubblicità della sentenza e la sua revocabilità, esso si configura pur sempre come un procedimento contenzioso speciale, il che comporta l'applicazione ad esso di tutte le regole del processo di cognizione, salvo le deroghe previste dalla legge (Cass., sez. I, 9 novembre 2005, n. 21718).

Va peraltro evidenziato come tale pronuncia abbia individuato il soccombente nell'interdetto senza andare a valutare l'atteggiamento assunto dal convenuto rispetto alla domanda.

Tale conclusione si comprende se si considera che la stessa Corte ha ripetutamente affermato che nel giudizio d'interdizione e, conseguentemente in quello che abbia ad oggetto la revoca di essa, i parenti e gli affini non sono parti necessarie del procedimento, dal momento che hanno solo una funzione informativa (Cass., sez. I, 9 febbraio 2015, n. 2401).

Ad analoghe conclusioni la giurisprudenza di merito (Trib. Modena, dec. giud. tutelare, 13 marzo 2008) è giunta rispetto al procedimento per la nomina di amministratore di sostegno e a quello volto ad ottenere provvedimenti sull'affidamento condiviso di cui alla l. n. 54/ 2006 (Trib. minorenni Catania, 5 novembre 2008).

La soccombenza reciproca

L'ipotesi in esame, pur costituendo una delle ipotesi che ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c. giustificano la compensazione delle spese processuali costituisce indubbiamente una specificazione dello stesso principio di soccombenza.

La soccombenza reciproca si verifica, in senso stretto, sia quando il giudice respinga in tutto o in parte la domanda principale dell'attore e la domanda riconvenzionale del convenuto, sia quando la parte abbia formulato una pluralità di domande, una o alcune delle quali soltanto siano accolte (così tra le più recenti Cass., sez. VI, 23 settembre 2013, n. 21684).

Il concetto di soccombenza reciproca sottende quindi una pluralità di pretese contrapposte, rigettate dal giudice a svantaggio di entrambi gli istanti.

Si è escluso invece che la resistenza del convenuto alla pretesa attorea perché eccessiva o comunque solo in parte fondata, anche quando trovi successo nella statuizione del giudice che accolga solo in parte la domanda, non per questo si trasforma in pretesa riconvenzionale rispetto alla quale sia ravvisabile nell'attore una posizione di reciproca soccombenza (Cass., sez. I, 26 maggio 2006, n. 12629).

Il potere di provvedere alla compensazione delle spese ed alla determinazione della misura della stessa compensazione, è stato ricollegato tradizionalmente all'obbligatoria valutazione dell'insuccesso di ciascuno dei litiganti e della sua entità, oltre che dell'incidenza dell'attività processuale indebitamente svolta, richiesta o in ogni caso derivata dalle pretese avanzate infondatamente, e degli oneri che la controparte ha dovuto sostenere per contrastarle.

ORIENTAMENTI A CONFRONTO: POSSIBILITA' DI RAVVISARE LA SOCCOMBENZA RECIPROCA A FRONTE DI UNA RIDUZIONE PIU' O MENO SIGNIFICATIVA DEL QUANTUM DELLA PRETESA

Tesi negativa (nella vigenza della disciplina precedente alla l. 18 giugno 2009, n. 69) che ritiene che a fronte di tale ipotesi, fosse possibile la compensazione per giusti motivi, pro quota o per intero, specie qualora la parte convenuta avesse adottato posizioni difensive concilianti o di solo parziale contestazione degli avversari assunti.

Cass., sez. lav., 9 aprile 1986 n. 2493; Cass.,sez. III, 21 marzo 1994 n. 2653; Cass., sez. III, 9 marzo 2004 n. 4755; Cass., sez. I, 26 maggio 2006 n. 12629; Cass., sez. III, sentenza 10 dicembre 2012, n. 22388; Cass., sez. III, 12 maggio 2015, n. 9587; Cass., sez. VI – 2, 16 luglio 2015, n. 14976; Cass., sez. I, 3 aprile 2015, n.6860.

Tesi positiva secondo la quale la nozione di soccombenza di cui all'art. 92, comma 2, c.p.c. non è solo quella tecnica, dal momento che ricomprende anche l'ipotesi dell'attore che veda l'accoglimento della domanda e il bene della vita richiesto sulla base di una delle argomentazioni svolte, dopo che il giudice ne ha rigettate altre.

Cass., sez. III, 22 settembre 2000, n. 12541; Cass., sez. III, 21 ottobre 2009, n. 22381; Cass., sez. VI-3, 23 gennaio 2012, n. 901; Cass., sez. II, 23 settembre 2013, n. 21684; Cass., sez. III, 10 novembre, 2015 n. 22871.

Se si segue il secondo degli indirizzi sopra citati va tenuto presente che:

1) nel caso in cui siano accolte o rigettate domande contrapposte che si siano venute a trovare in cumulo nello stesso processo fra le stesse parti, concerne due distinti giudizi, nel senso di processi su due diverse domande introdotte, una da una parte e l'altra dalla controparte;

2) nel caso in cui risulti accolta parzialmente l'unica domanda proposta (tanto se essa si sia articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, quanto se la parzialità dell'accoglimento sia solo quantitativa e concerna una domanda che si articolava in un unico capo, concerne un'unica domanda, articolata in più capi o in unico capo).

Ora, se non vi fosse l'art. 92, comma 2,c.p.c. che dà rilievo all'esistenza della soccombenza vicendevole (questo essendo il significato letterale della parola "reciproco") quale ragione che può comportare la compensazione totale o parziale delle spese, nel caso dell'accoglimento parziale l'applicazione del principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. comporterebbe che per i capi o per la parte di domanda accolta il giudice dovrebbe fare luogo a proporzionale condanna alle spese a favore dell'attore e, per i capi o per la parte di domanda respinta a proporzionale condanna a favore del convenuto.

La presenza dell'art. 92, comma 2, c.p.c. in punto di compensabilità parziale o totale delle spese in caso di soccombenza reciproca, si risolve, allora, nel fornire al giudice anzitutto un mezzo per evitare che egli debba fare luogo:

a) a due condanne alle spese riguardo a ciascuna delle domande contrapposte;

b) a due distinte condanne proporzionali alla soccombenza di ciascuno pro parte o per capi sull'unica domanda.

L'art. 92, comma 2, c.p.c. comporta, però anche un'ulteriore conseguenza, la quale discende dal fatto che la norma dice che il giudice può e non che deve compensare parzialmente o totalmente le spese. La circostanza che questa regola sia solo di possibile e non di necessaria applicazione, infatti, suggerisce che il giudice, in presenza di soccombenza reciproca può anche applicare una regola diversa dalla compensazione totale o parziale.

Tale diversa regola consiste nella possibilità che il giudice, apprezzate le due soccombenze, possa, elidendo il rilievo di una delle due, giungere ad attribuire la soccombenza ad una sola delle parti.

La disciplina che l'art. 92, comma 2,c.p.c. dà alla soccombenza reciproca è utile ad attribuire al principio di soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. un significato non formale, vale a dire fondato sul mero raffronto tra quanto è stato accolto e quanto è stato rigettato, ma sostanziale.

Il criterio ed il limite che deve orientare il giudice nel definire i casi di soccombenza sostanziale e nell'escludere, rispetto ad essi, la compensazione totale o parziale è stato poi individuato dalla predetta giurisprudenza nel principio di causalità.

Le ricadute pratiche dell'applicazione di tali principii possono essere colte attraverso alcuni esempi (Lupano).

Qualora sia la domanda principale che quella riconvenzionale siano state respinte, ma il rigetto della prima ha richiesto, al contrario di quello della seconda, una istruttoria assai onerosa il giudice ben può condannare alle spese in misura prevalente l'attore. Analogamente, se l'attore ha visto accolta la sua domanda per una somma significativamente inferiore a quella richiesta è necessario verificare se e quali attività difensive il convenuto abbia dovuto svolgere per contrastare la pretesa eccessiva e, sulla base di ciò, compensare almeno parzialmente le spese.

Queste conclusioni sono state riprese ed integrate anche da una recentissima pronunzia della Suprema Corte (Cass., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438) che ha ribadito che:

- è indubbio che vi sia soccombenza reciproca in caso di parziale accoglimento dell'unica domanda proposta «per la semplice ma insuperabile ragione che, in caso contrario, l'attore, in quanto non soccombente, non potrebbe essere neanche considerato legittimato ad impugnare la pronunzia che abbia accolto la sua domanda solo in parte».

- il criterio in base al quale va operata la scelta (discrezionale) della compensazione totale o parziale è il principio di causalità;

- in base ad esso occorre procedere alla individuazione della parte cui siano eventualmente imputabili in prevalenza, per avervi dato causa, agendo o resistendo alle altrui pretese infondatamente, gli oneri processuali ricollegabili all'attività svolta per la istruzione e decisione delle varie domande proposte, o dei vari capi dell'unica domanda, o anche dell'unica domanda che sta risultata solo in parte fondata.

La Corte ha poi chiarito che l'applicazione di tale criterio può dar luogo ad esiti diversi ovvero:

a) in determinati casi potrebbero addirittura non sussistere affatto i presupposti per operare la totale o parziale compensazione delle spese di lite: e ciò nell'ipotesi in cui gli oneri del processo possano ritenersi di fatto imputabili ad una sola delle parti, in quanto il giudice ritenga, sulla base di una valutazione sostanziale (e quindi a prescindere dal formale esito processuale di reciproca soccombenza), che essi abbiano trovato integralmente causa, in definitiva, nell'accertamento dei diritti fondatamente fatti valere dall'attore ovvero, di converso, nell'accertamento dell'infondatezza delle sue pretese;

b) laddove il giudice valuti come sostanzialmente equivalenti gli oneri processuali imputabili a ciascuna delle parti si giustificherà, sotto il profilo della reciproca soccombenza, la integrale compensazione delle spese di lite;

c) la parziale compensazione con condanna di una delle parti al pagamento di una quota delle spese in favore dell'altra si giustificherà invece, sempre sotto il profilo della reciproca soccombenza, quando il giudice valuti che sussista una apprezzabile prevalenza degli oneri processuali imputabili ad una delle parti, in quanto ricollegabili alle attività processuali svolte per l'accertamento della infondatezza delle sue pretese o per l'accertamento della fondatezza delle pretese dell'avversario.

Particolarmente rilevante è anche il passo in cui la Corte spiega che, alla luce dei predetti criteri, è anche possibile pervenire alla «condanna dell'attore parzialmente vincitore al pagamento di una parte delle spese di lite, ma solo nel caso in cui, sulla base di una ideale valutazione di carattere sostanziale (e quindi non fondata sul mero esito formale della lite), il giudice ritenga che il convenuto, per difendersi dalle pretese infondate abbia dovuto affrontare oneri superiori a quelli necessari per difendersi dalle sole pretese fondate, e il solo maggior onere differenziale risulti addirittura superiore agli oneri che l'attore complessivamente avrebbe dovuto sostenere per la proposizione delle sole domande fondate (o della sola parte fondata dell'unica domanda)».

La Cassazione chiarisce anche che l'ipotesi, sarà «non frequentissima, ma neanche di impossibile configurazione», potendosi verificare «solo in caso di notevolissimo scarto tra l'entità della domanda e quella del suo accoglimento».

Siffatta ricostruzione della nozione di soccombenza reciproca è indubbiamente interessante perché, dopo la modifica dell'art. 92, comma 2, c.p.c. ad opera del d.l. n. 132/2014, consente anche per le “nuove” cause, come tali soggette alla nuova disciplina, la compensazione totale o parziale delle spese processuali anche al di fuori delle ipotesi tipiche.

Guida all'approfondimento
  • Grasso, Della responsabilità delle parti, in Commentario del c.p.c., diretto da Allorio, I, 2, Torino, 1973;
  • Andrioli Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957;
  • Lupano, Responsabilità per le spese e condotta delle parti, Torino, 2013;
  • Vaccari, Le spese dei processi civili, Milano 2017.
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