Condanna di rappresentanti e curatoriFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 94
27 Ottobre 2020
Inquadramento
L'art. 94 c.p.c., norma di applicazione non certo frequente, contempla un'ipotesi di responsabilità processuale di rappresentanti e curatori, con conseguente loro condanna al rimborso delle spese di lite in favore della parte vincitrice, sia in esclusiva che in solido con la parte rappresentata o assistita. Si discute se la disposizione ponga una deroga al criterio della soccombenza, facendo ricadere il carico delle spese non sulla parte bensì sul rappresentante ovvero sul curatore. Ma, in effetti, essendo previsto che la condanna sia pronunciata «anche in solido», è da credere che l'art. 94 c.p.c. introduca una deroga soltanto potenziale a detto principio, la quale si concretizzerà nella sola ipotesi che il giudice si avvalga del proprio potere discrezionale di condannare il rappresentante o curatore ed altresì condanni questi ultimi in esclusiva. Ai fini della condanna occorre il concorso dell'ulteriore requisito dei gravi motivi. Ai fini della condanna personale di rappresentanti e curatori (condanna che può essere richiesta dalla controparte) non occorre apposita istanza, sicché essa può essere pronunciata d'ufficio. Quando ciò accada, poi, il rappresentante o curatore diviene parte in causa, sia pure limitatamente al profilo della condanna alle spese, sicché è legittimato ad impugnare la sentenza che ha pronunciato la condanna in proprio, con esclusione riguardo, naturalmente, al capo concernente le spese. La condanna di rappresentanti e curatori e il principio di soccombenza
Si discute se la disposizione ponga una deroga al criterio della soccombenza, facendo ricadere il carico delle spese non sulla parte bensì sul rappresentante o curatore. In giurisprudenza si trova affermato, in una delle non molte pronunce in materia, che l'art. 94 c.p.c.
Certo è, tuttavia, che, a fronte del funzionamento oggettivo del principio della soccombenza, l'art. 94 c.p.c. impronta la regolamentazione delle spese, secondo un'impostazione comune all'art. 96 c.p.c., ad un criterio di «responsabilità personale di chi commette l'atto imprudente» (Scarselli, 151). In tal senso la norma costituisce deroga al principio per cui i soggetti attivi e passivi del rimborso delle spese giudiziali sono le parti in senso sostanziale della lite (p. es., Luiso, 420). Più volatile è la questione posta, se la disposizione costituisca o no deroga al principio della soccombenza. La dottrina è divisa sul rilievo di tale principio in relazione a quello di causalità, mentre la giurisprudenza adopera ugualmente, volta per volta, i due concetti, senza assumere un definitivo punto di vista riguardo ad una disputa di contenuto essenzialmente dottrinale: sicché la relazione tra il principio di soccombenza e l'art. 94 c.p.c. riceve risposte diverse secondo la posizione assunta nei riguardi del primo. Si discute altresì del significato del precetto normativo secondo cui la condanna può essere pronunciata «anche in solido con la parte rappresentata o assistita». La condanna personale del rappresentante, indubbiamente, può essere pronunciata sia in solido col rappresentato che in esclusiva (Cass. civ., 20 marzo 1962, n. 554). Secondo alcuni, una volta pronunciata la condanna solidale della parte e del rappresentante o curatore, la prima, dopo aver pagato, potrebbe ripetere dal rappresentante o curatore l'esborso sostenuto. Ciò sull'assunto che la norma non sia diretta tanto a risarcire il vincitore delle spese, che sono state a lui cagionate dall'attività del rappresentante, quanto ad esonerare dal carico delle spese la parte i cui interessi sono stati mal curati. Sotto questo profilo la condanna solidale deve ritenersi ipotizzata non tanto per il caso in cui il rappresentato condivida con il rappresentante la responsabilità di aver dato vita al processo, quanto nella previsione che l'applicazione della norma torni a svantaggio del vincitore, che potrebbe vedersi assegnare come debitore, un insolvente; da qui la possibilità che il rappresentato ripeta poi interamente dal condebitore solidale le somme che è chiamato a pagare in forza della solidarietà: l'obbligazione si divide quindi a norma dell'art. 1298, comma 2, c.c. (Grasso, 1021). Non sembra esservi, tuttavia, alcun indice normativo dal quale desumere che la previsione di solidarietà sia posta a tutela del vincitore, onde far sì che questi non venga a trovarsi esposto all'insolvenza del rappresentante o curatore: del resto, se l'art. 94 c.p.c. stabilisce che le spese debbano essere poste a carico del rappresentante o curatore in dipendenza della sua condotta, non potendo per contro gravare sulla parte «ignara e incolpevole» (Scarselli 1998, 151), non pare conseguente ritenere che la parte ignara e incolpevole, debba poi nondimeno sopportare il carico delle spese di lite. Sembra piuttosto da credere, allora, che la condanna del rappresentante o curatore in esclusiva, ovvero in solido con la parte, sia da porre in relazione con la responsabilità per aver intentato la lite nonostante gravi motivi militassero in senso opposto: il giudice, perciò, potrà porre le spese di lite esclusivamente a carico del rappresentante o curatore nella misura in cui ritenga soltanto sua la responsabilità della lite proposta, potrà graduare le responsabilità di rappresentante o curatore e parte e, infine, potrà condannare solidalmente entrambi, rimanendo in tal caso regolato il rapporto tra di loro ai sensi dell'art. 1298 c.c. Quanto alla condanna del rappresentante o curatore al rimborso delle spese di singoli atti compiuti dal vincitore, la previsione è stata ricondotta al dettato dell'art. 92 c.p.c., sicché l'art. 94 c.p.c. regolerebbe i casi in cui il rappresentante ha usato della rappresentanza secondo gli interessi della parte, ma non ha agito con lealtà e probità verso l'avversario, ed è giusto quindi che risponda in proprio verso di lui del comportamento mantenuto (Grasso, 1022).
Impugnazione-intervento del rappresentante-curatore
Quando venga pronunciata la condanna di cui all'art. 94 c.p.c., poi, il rappresentante o curatore diviene parte in causa, sia pure limitatamente al profilo della condanna alle spese, sicché è legittimato ad impugnare la sentenza che ha pronunciato la condanna in proprio, con esclusivo riguardo, naturalmente, al capo concernente le spese. Inoltre, in tema di condanna alle spese del giudizio del rappresentante o del curatore della parte, ai sensi dell'art. 94 c.p.c., la legittimazione ad intervenire nel processo spetta al soggetto passibile, in ragione della carica rivestita e per gravi motivi, di detta condanna, da individuarsi, attesa la natura sanzionatoria dell'eccezionale disposizione, nella persona fisica che abbia rappresentato o assistito la parte principale all'epoca in cui sia stato compiuto l'atto o instaurato il rapporto, oggetto della controversia (Cass. civ., 4 luglio 2012, n. 11194, che, con riferimento a giudizio di impugnazione della deliberazione di assemblea condominiale, ha riconosciuto la legittimazione, in veste di interventore adesivo dipendente, dell'amministratore in carica all'epoca di assunzione della delibera impugnata, del quale era stata richiesta la condanna personale alle spese, negando ogni rilievo ai successivi avvicendamenti avvenuti nel medesimo incarico). Estensione soggettiva della disposizione
La norma è ritenuta applicabile ai rappresentanti e curatori di persone fisiche, ma anche ai rappresentanti di persone giuridiche. Difatti.
Le disposizioni contenute nell'art. 94 c.p.c. che contemplano la condanna alle spese, eventualmente in solido con la parte, del soggetto che la rappresenta, devono dunque ritenersi applicabili anche agli organi della persona giuridica che rappresentano quest'ultima in giudizio (nello stesso senso, in motivazione, Cass. civ., Sez. U., 6 ottobre 1988, n. 5398 da ultimo Cass. civ., 8 ottobre 2010, n. 20878): sicché l'amministratore di una società per azioni può essere, di conseguenza, condannato al pagamento delle spese in solido con la società da esso rappresentata in giudizio (Trib. Como 9 dicembre 1994). Parimenti è stato ritenuto possa essere condannato personalmente ai sensi dell'art. 94 c.p.c. il soggetto che agisca in giudizio in qualità di legale rappresentante di una società già estinta (App. Milano 12 marzo 2003). Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, rigettato per manifesta infondatezza, determina la condanna ex art. 94 c.p.c. del legale rappresentante della reclamante, che ha agito in nome e per conto della società dichiarata fallita, senza la normale prudenza (App. Venezia 11 aprile 2018). Il curatore dell'inabilitato, esplicando solo una funzione di carattere ausiliario negli atti di straordinaria amministrazione, che l'inabilitato deve compiere con la sua assistenza, non è parte della lite promossa dall'inabilitato medesimo e può essere condannato in via diretta al pagamento delle spese solo nel concorso delle condizioni richieste dall'art. 94 c.p.c. (Cass. civ., 28 ottobre 2019, n. 27475). La norma, inoltre, non si riferisce né al sostituto processuale, che agisce per definizione in nome proprio, né al falsus procurator, «che è, a tutti gli effetti, parte del processo che instaura» (Grasso 1973, 1019). Ritiene in prevalenza la dottrina che la formula «coloro che rappresentano la parte in giudizio» non possa intendersi riferita a chi svolge funzioni di rappresentanza tecnica della parte, ossia agli avvocati (p. es. Andrioli, 265; Gualandi, 103; Grasso, 1019; Pajardi, 1614; Bianchi D'Espinosa, 277). In tal senso anche il giudice delle leggi ha talora affermato che l'art. 94 c.p.c. «concerne l'istituto — del tutto distinto dalla rappresentanza tecnica — della "parte in senso formale", che assume la qualità di parte per rappresentare quella "sostanziale" o per integrarne la capacità» (Corte cost. 30 novembre 2007, n. 405). La soluzione negativa si fonda anzitutto sul richiamo ai lavori preparatori al codice di procedura civile (per tutti Grasso, 1020) e, più in generale, sulla considerazione che ciò che è imputabile sia pur per colpa al difensore va, sul piano delle spese, imputato oggettivamente alla parte in applicazione del principio della soccombenza (Cipriani, 323). Altri pervengono all'opposta conclusione valorizzando la formulazione letterale della norma ed in particolare la locuzione «assistenti», intesa come riferita all'assistente tecnico, ossia al difensore (così Vecchione, 1137; analoga conclusione in Ricca Barberis, 160; Cecchella 2004), nonché sulla ratio della previsione, con la quale il legislatore «ha fatto la scelta non della responsabilità oggettiva della parte ma della responsabilità personale di chi commette l'atto imprudente» (Scarselli, 152). Si è così sottolineato che, al di là della soluzione desumibile dal dato testuale,
L'assunto secondo cui l'art. 94 c.p.c. si riferisce anche al difensore non sembra poter trovare decisiva smentita nei lavori preparatori, atteso il modesto rilievo ermeneutico, meramente sussidiario, che essi, in generale, posseggono. E, d'altro canto, la considerazione secondo cui le spese ricadrebbero sulla parte in dipendenza del rapporto di mandato intercorrente con il difensore non pone nel debito conto la peculiarità di tale rapporto, emergente dagli artt. 82 e 83 c.p.c., da cui si desume che non di vero e proprio mandato si tratta, sia perché la parte è sottoposta alla regola dell'onere di patrocinio, sia perché i poteri di gestione della lite sono esercitati in esclusiva dal difensore — con i limiti degli atti di disposizione del diritto in contesa — nella massima autonomia e discrezionalità. Va da sé che la ratio posta a fondamento dell'art. 94 c.p.c. — ossia la considerazione che i soggetti indicati dalla norma esplicano, anche se in nome altrui, un'attività processuale in maniera autonoma — sembra doversi estendere con piena ragione ai difensori. Né l'applicazione della norma ai difensori può ritenersi preclusa in ragione del, peraltro discusso, carattere eccezionale della disposizione, la quale costituirebbe un'eccezione al principio della soccombenza (ma non manca chi ritiene che l'art. 94 c.p.c. sia espressione del principio di causalità, che innerverebbe l'intera disciplina delle spese di lite, tra i quali Cordopatri, 348), giacché l'interpretazione prospettata, limitandosi a sfruttare nella sua più ampia dilatazione la portata semantica del testo di legge, è semmai esempio di interpretazione estensiva, ma non certo di analogia, oggetto del divieto di cui all'art. 14 disp. prel. c.c. Ciò con la precisazione che per i fini del menzionato risultato ermeneutico nulla rileva la rubrica della disposizione, riferita ai soli rappresentanti e curatori, giacché rubrica legis non est lex. Sicché, in definitiva, non vi è alcun ostacolo ad intendere l'espressione «coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio» come riferita anche ai difensori, espressamente tenuti del resto in prima persona al dovere di lealtà e probità sancito dall'art. 88 c.p.c. La soluzione che precede è stata accolta da un giudice di merito (Trib. Reggio Emilia 12 luglio 2007). In un'altra ampia pronuncia (Trib. Cagliari 19 giugno 2008) sono state impiegati diversi argomenti al fine di dimostrare l'applicabilità dell'art. 94 c.p.c. ai difensori. Si è tra l'altro osservato che: i) il codice di rito si riferisce «in genere», ossia senza porre ulteriori distinzioni, a «tutti coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio», caratterizzandosi così per «l'estensione massima dell'ambito soggettivo della responsabilità per le spese di lite»; ii) parte della dottrina ha tratto dal riferimento al «giudizio» l'inclusione dei difensori entro l'ambito di applicabilità della norma; iii) tale interpretazione si pone in armonia col principio di causalità, ispiratore della disciplina delle spese di lite; iv) la medesima lettura si armonizza con la previsione dell'art. 88 c.p.c., secondo cui anche i difensori sono tenuti a comportarsi in giudizio con lealtà e probità. In proposito, non è superfluo rammentare che la parte la quale intenda agire o resistere in giudizio non è normalmente in grado di comprendere se l'iniziativa che si avvia ad intraprendere abbia o non abbia, in iure, un qualche fondamento tale da giustificare una fiduciosa attesa dell'esito del processo: proprio per questo è imposto l'onere di patrocinio. Ed è il caso di sottolineare che il difensore è sottoposto ad un vero e proprio obbligo di raccogliere il «consenso informato» del cliente, ponendolo sull'avviso dei possibili esiti della vertenza (v. già Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14597), consenso informato che non solo si riflette, in generale, nel «dovere di chiarimento ed informazione al cliente intorno alle possibilità di successo» (Santoro-Passarelli, 25) ovvero nell'«obbligo di illuminare il cliente» in funzione della sua autodeterminazione (Lega, 234), ma che trova un preciso riscontro nel Codice deontologico forense, dotato di valore normativo primario (Cass. civ., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810). In questo quadro le scelte della difesa tecnica ricadono esclusivamente sull'avvocato, quali che siano state le indicazioni provenienti dal cliente. Se, in altre parole, quest'ultimo sollecita una scelta sbagliata, l'avvocato può tutt'al più rinunciare al mandato, ma non può mai abdicare al proprio dovere di informare il cliente della retta strada da perseguire. Ecco, allora, che la lettura più recente dell'art. 94 c.p.c., lungi dal presentarsi quale fuga in avanti priva di sostegno normativo, può costituire «una leva sensibile che è in grado di contribuire a ridefinire il ruolo dell'avvocato nel processo e nella società portando, inevitabilmente, il difensore a scegliere strategie in grado di contemperare le necessità ed aspettative del cliente a quelle proprie derivanti dalla perduta immunità dagli esiti negativi del processo» (Ficarelli, 154). È discusso, in dottrina, se la condanna personale del rappresentante possa essere pronunciata d'ufficio ovvero sia sottoposta alla regola dell'art. 112 c.p.c. (in senso favorevole Grasso, 1019; contra Andrioli, 265). La S.C. pone in evidenza come, a differenza di quanto previsto dall'art. 96, comma 1, c.p.c. per la condanna della parte per responsabilità aggravata, la quale va esplicitamente richiesta, l'art. 94 del codice di rito contempli il potere del giudice di condannare, per gravi motivi, il rappresentante o il curatore della parte alle spese dell'intero processo o di singoli atti anche indipendentemente da una specifica richiesta della controparte, giacché inerisce pur sempre al potere-dovere del giudice di regolare le spese processuali sostenute dalle parti con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, secondo quanto previsto dall'art. 91 c.p.c. (Cass. civ., 18 marzo 2003, n. 3977; nello stesso senso, in motivazione, Cass. civ., Sez. Un., 6 ottobre 1988, e da ult. Cass. civ., 28 ottobre 2019, n. 27475). Viene del resto sottolineato come appaia arduo sostenere che la controparte, «sulla base di un eventuale interesse a che si sia assegnato quale obbligato il rappresentante, piuttosto che l'uno o l'altro rappresentato…, abbia il potere di provocare una pronuncia del giudice sulla condanna del primo rilevando il cattivo esercizio della rappresentanza; il che implicherebbe il potere di impugnare la sentenza per quel caso, in caso di rigetto dell'istanza» (Grasso, 1022). Quanto alla parte, quest'ultima, al fine di chiedere in prima persona la condanna dei soggetti elencati dall'art. 94 c.p.c., ha l'onere di intervenire, eventualmente munendosi di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. se non ha la capacità di stare in giudizio di persona. I gravi motivi
Ai fini della condanna, inoltre, occorre il concorso dell'ulteriore requisito dei gravi motivi, i quali vanno scrutinati in dipendenza della valutazione soggettiva della condotta dei rappresentanti o curatori. Si è ritenuto che tale valutazione debba essere compiuta in termini di violazione del dovere di probità e lealtà, previsto dall'art. 88 c.p.c., ovvero, altrimenti, di mancanza della normale prudenza cui fa riferimento il secondo comma dell'art. 96 c.p.c.
Questa affermazione — ribadita daCass. civ., Sez. Un., 6 ottobre 1988, n. 5398; Cass. civ., 8 ottobre 2010, n. 20878 — non sembra tuttavia del tutto persuasiva. Il secondo comma dell'art. 96 c.p.c. trova difatti applicazione con riguardo alle iniziative giudiziarie ivi indicate ove compiute senza la «normale prudenza», cioè anche con colpa lieve in ragione della intrinseca potenzialità lesiva delle iniziative medesime in caso di inesistenza del diritto fatto valere. La colpa lieve, cioè, diviene qui elemento soggettivo sufficiente per il fatto che esso si associa a condotte ad elevata potenzialità lesiva: il che non sembra pertinente alla disposizione dettata dall'art. 94 c.p.c. Pare allora da credere che la previsione di quest'ultima disposizione debba essere piuttosto accostata al primo comma dell'art. 96 c.p.c. e che, dunque, la condanna del rappresentante o curatore possa aver luogo, oltre che in caso di trasgressione dei doveri di probità e lealtà, in ipotesi di mala fede o colpa grave. D'altronde, il margine di valutazione della fondatezza di un'iniziativa giudiziaria possiede sempre per definizione un'estensione ampia ed incerta: sicché l'allontanamento dalla regola generale, secondo cui il rapporto concernente le spese di lite intercorre tra le parti in senso sostanziale del processo, merita di essere derogata, per l'appunto, per motivi gravi e non per un qualche generico errore di previsione che, seppur non giustificabile sul piano soggettivo, non meriti particolare censura. Se così non fosse, per di più, l'art. 94 c.p.c. finirebbe per rappresentare un ostacolo troppo forte all'esercizio dei diritti spettanti a quelle parti tenute ad agire a mezzo di rappresentanti o curatori, i quali potrebbero essere indotti a trascurare ogni iniziativa giudiziaria per il troppo elevato pericolo di vedersi addossare le spese di lite. È dunque da escludere che la condanna di rappresentanti o curatori possa aver luogo non solo nell'ipotesi «nelle quali questi ultimi abbiano intentato una lite da ritenersi palesemente infondata» (Scarselli, 151), ossia dinanzi ad iniziative giudiziarie completamente fuori bersaglio, ma anche in caso di lite meramente «inopportuna, od ancora evitabile» (Scarselli, 151).
Fattispecie
In giurisprudenza è stato ravvisato comportamento perpetrato in violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c., costituente pertanto grave motivo ai sensi dell'art. 94 c.p.c., la condotta di un avvocato che, costituitosi quale procuratore (in senso sostanziale) della parte, aveva negato contro verità la già intervenuta definizione transattiva della lite con specifico riguardo al credito ivi in contestazione, dando così luogo alla «inutile protrazione del giudizio per oltre un anno» (Cass. civ., 18 marzo 2003, n. 3977). È stata invece esclusa la sussistenza dei gravi motivi in caso di proposizione di un regolamento preventivo di giurisdizione sulla considerazione che esso, pur proposto in violazione di un indirizzo giurisprudenziale univoco, investiva per la prima volta le disposizioni della legge n. 430 del 1986 e presentava quindi «un qualche margine di opinabilità tale da giustificare da parte della società l'uso dello strumento regolamentare sia pure ai fini dilatori, ma non marcatamente e spudoratamente utilitaristici, come risulta confermato dallo sforzo dialettico compiuto dal patrocinatore» (Cass. civ., Sez. Un., 6 ottobre 1988, n. 5398). È appena il caso di osservare che l'atteggiamento benevolo che traspare dalla pronuncia mal si accorda con l'ampio indirizzo che ha ritenuto sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c. la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione in fattispecie già univocamente risolte dalla giurisprudenza (tra le moltissime, p. es., Cass. civ., Sez. Un., 2 marzo 1982, n. 1280). È stata parimenti esclusa l'applicabilità dell'art. 94 c.p.c. nel caso del legale rappresentante di una società che aveva agito in rappresentanza della società estintasi, perché cancellata, ma aveva fatto ciò in un arco temporale in cui la giurisprudenza riteneva che l'estinzione della persona giuridica conseguisse soltanto all'effettiva liquidazione di tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo (Cass. civ., 8 ottobre 2010, n. 20878). A norma dell'art. 94 c.p.c. gli eredi beneficiati possono essere condannati personalmente alle spese processuali, riguardo a giudizi promossi con riferimento a rapporti già facenti capo al de cuius soltanto per gravi motivi che il giudice deve specificare nella sentenza; ed è, pertanto, illegittima la decisione che condanni al pagamento delle spese giudiziali gli eredi che, in quanto beneficiati, sarebbero tenuti anche all'obbligazione in parole intra vires, senza alcuna specificazione, e quindi personalmente, omettendo l'indicazione dei gravi motivi (Cass. civ., 24 marzo 1981, n. 1712; v. pure Cass. civ., 11 agosto 1977, n. 3713).
Riferimenti
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