I principi della sentenza De Tommaso al vaglio della Corte di cassazione
12 Febbraio 2018
Massima
La prima Sezione della Corte di cassazione, pronunciandosi in tema di misure di prevenzione, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, lett. a) e b) e 4, comma 1, lett. c) del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 per contrasto con gli artt. 2 del protocollo 4 e 1 del protocollo addizionale della Cedu, come interpretato dalla Corte Edu nella sentenza del 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, non rinvenendo nella normativa nazionale un deficit di chiarezza, determinatezza e tassatività. Il caso
Con la sentenza in commento la Prima Sezione della Corte di cassazione si occupa nuovamente di una richiesta di incidente di legittimità costituzionale delle norme del codice antimafia (d.lgs. 159/2011) che dettano i criteri per individuare i soggetti destinatari di misure di prevenzione - personali e patrimoniali - a seguito della pronuncia della Corte Edu sull'ormai nota vicenda De Tommaso. Nel caso di specie, ad un soggetto imputato del delitto di usura erano state applicate, nel 2015, la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e la misura di prevenzione patrimoniale della confisca per una serie di beni. Nel maggio 2016, la Corte di appello aveva disposto la revoca della misura di prevenzione personale e confermato, invece, la parziale confisca dei beni che erano stati oggetto di apprensione in primo grado. La decisione della Corte di secondo grado trovava fondamento nel fatto che, da un lato, era stato possibile circoscrivere la constatazione di pericolosità soggettiva dell'imputato ad un limitato e piuttosto remoto periodo di tempo (il biennio 2007/2009), con la conseguente revoca ex tunc della misura personale per assenza del presupposto dell'attualità della pericolosità; da un altro lato, però, tale condizione soggettiva veniva riaffermata proprio in relazione a quel periodo, giacché dalle intercettazioni telefoniche era emersa una attività usuraria ben avviata e organizzata attraverso prestiti di denaro erogati a diverse persone da parte dell'imputato (e da altri membri della sua famiglia), in cambio di assegni con scadenza a breve termine e tassi variabili tra il 5% e il 10% mensile. Queste condotte consentivano, dunque, di inquadrare l'imputato nelle categorie criminologiche richieste dall'art. 1, comma 1, lett. a) e b) e richiamate dall'art. 4, comma 1, lett. c), del d.lgs. 159/2011, per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca c.d. disgiunta. Avverso il decreto della Corte di Appello l'imputato proponeva ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore, e successivamente depositava ad integrazione una memoria difensiva. La questione
Delle tre questioni avanzate nei motivi di ricorso proposti dalla difesa, quella alla quale la Corte di Ccassazione dedica particolare attenzione è la valutazione circa effettiva necessità di investire la Corte costituzionale dell'invocata questione di compatibilità tra il sistema legislativo delle misure di prevenzione e i principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce della sentenza della Corte Edu De Tommaso c. Italia del febbraio 2017. In particolare, la compatibilità era stata messa in discussione con riguardo all'art. 7 della Convenzione, in punto di prevedibilità delle conseguenze sfavorevoli delle proprie condotte, e all'art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione, in tema di tutela della proprietà. Le soluzioni giuridiche
Al fine di meglio analizzare la soluzione giuridica offerta dalla Suprema Corte, occorre illustrare, seppur brevemente, i contenuti della sentenza De Tommaso citata nel ricorso dell'imputato a sostegno della richiesta di incidente di costituzionalità. La Grande Camera della Corte Edu era stata chiamata a valutare la compatibilità tra la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza – applicata sulla base dell'allora vigente l. 1423/1956 – e la libertà di circolazione tutelata dall'art. 2, prot. 4 Cedu, verificando se la limitazione di tale libertà realizzata con la misura poteva essere ritenuta prevista dalla legge e necessaria in una società democratica per il perseguimento degli scopi menzionati dalla disposizione convenzionale (come la tutela della sicurezza nazionale o della pubblica sicurezza, il mantenimento dell'ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, la protezione dei diritti e libertà altrui). Esaminando il primo quesito, la Corte Edu aveva innanzitutto rilevato che il requisito della previsione per legge – fondamentale per attribuire liceità ad ogni ipotesi di restrizione di un diritto convenzionale – comportava non soltanto la necessità di individuare una specifica base legale della restrizione nell'ordinamento nazionale, ma anche la necessità che tale base legale fosse accessibile all'interessato e strutturata in modo da consentirgli di prevedere ragionevolmente la restrizione del diritto convenzionale come conseguenza della propria condotta. Se non vi erano dubbi sul fatto che la base legale della misura di prevenzione in questione fosse la l. 1423/1956 e che questa fosse agevolmente accessibile ai cittadini, il problema sorgeva con riguardo alla sua idoneità ad assicurare lo standard convenzionale di prevedibilità. Sul punto, i giudici di Strasburgo rilevavano come la giurisprudenza costituzionale italiana (Cfr.: Corte Cost., sent. n. 177/1980) avesse dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 13 e 25, comma 3, Cost., della disposizione della l. 1423/1956 che consentiva l'applicazione delle misure di prevenzione a coloro che per le manifestazioni cui avessero dato luogo, dessero fondato motivo di ritenere di essere “proclivi a delinquere”, poiché tale fattispecie di pericolosità non consentiva di individuare con sufficiente precisione i casi in cui la misura potesse trovare applicazione e non dava la possibilità, né all'autorità giudiziaria né a quella di polizia, di individuare una base probatoria tale da supportare tale accertamento. Le misure di prevenzione non potevano essere adottate sulla base di un semplice sospetto, ma dovevano essere basate su una valutazione oggettiva di elementi di fatto da cui poteva trarsi il comportamento abituale della persona e il suo tenore di vita. La Grande Camera estendeva tali censure anche alle due fattispecie di pericolosità “generica” oggetto del suo scrutinio – l'abitualità del soggetto ai traffici delittuosi e al vivere con i proventi di attività delittuose – e, ritenendo che né la legge né la Corte costituzionale avessero chiaramente identificato gli elementi fattuali o le specifiche tipologie di condotta da prendere in considerazione per valutare la pericolosità sociale di un individuo – presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione – concludeva nel senso dell'insufficiente prevedibilità delle conseguenze della condotta del soggetto colpito dalla misura di prevenzione e, quindi, dell'inadeguatezza della legge agli standard convenzionali. La valutazione espressa dalla Corte Edu sulla cattiva qualità della legge (il riferimento era sì legato alla l. 1423/1956 ma vale anche con riguardo al d.lgs. 159/2011, stante la loro continuità normativa) in punto di chiarezza e precisione delle categorie criminologiche astratte, con i conseguenti riflessi negativi circa la prevedibilità delle conseguenze sfavorevoli del proprio agire, è certamente un segnale di sofferenza del sistema di prevenzione italiano. Tuttavia, tale valutazione negativa può essere recepita e posta a fondamento di un incidente di legittimità costituzionale solo allorquando si condivida il passaggio centrale di quella pronuncia, rappresentato dall'assenza di denotazione fattuale contenuta dalle previsioni di legge incidenti sul tema, che darebbero al giudice un congegno normativo essenzialmente discrezionale e basato su sospetti, nel cui ambito il giudizio prognostico di pericolosità sociale finirebbe per non derivare da una precedente analisi dei fatti, che è l'unica operazione che lo consentirebbe. Poste queste premesse, la Corte di cassazione nel caso in esame compie un altro tipo di valutazione, ponendosi nel solco già tracciato da quella giurisprudenza di merito che aveva preso le distanze dalla sentenza della Corte EDU (Cfr.: Trib. Milano, Sez. autonoma misure di prevenzione, decreto 7 marzo 2017 (dep. 13 marzo 2017); Trib. Palermo, Sez. I, decreto 28 marzo 2017). In primo luogo, viene rilevato che il giudizio di prevenzione – per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità –, finalizzato ad attribuire ad un individuo la condizione di pericolosità e lungi dall'essere un giudizio soggettivo e discrezionale dei giudici, richiede una complessa operazione preliminare di inquadramento del soggetto in una delle categorie criminologiche tipizzanti di rango legislativo sulla base dell'apprezzamento di fatti; e ciò sia sul fronte della pericolosità “generica” che della pericolosità “qualificata”. Entrando più nel dettaglio, tale giudizio si divide in due fasi: i) una fase “constatativa”, di apprezzamento dei fatti idonei ad iscrivere il soggetto in una delle categorie criminologiche predette, e ii) una fase “prognostica” in senso stretto, consistente nella valutazione delle probabili, future condotte, in chiave di offesa dei beni tutelati, secondo il generale paradigma logico di cui all'art. 203 c.p. Trattandosi, infatti, di applicare in via giurisdizionale misure tese a delimitare la fruibilità di diritti della persona costituzionalmente (e convenzionalmente) garantiti, o ad incidere fortemente e in via definitiva sul diritto sul diritto di proprietà, le misure di prevenzione, pur se sprovviste di una vera e propria natura sanzionatoria, rientrano in una accezione lata di provvedimento con portata afflittiva (in chiave preventiva), il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come fonte giustificatrice delle limitazioni. Da ciò discende la considerazione della ineliminabile componente ricostruttiva del giudizio di prevenzione, volta a rappresentare l'apprezzamento di fatti idonei o meno a garantire l'iscrizione del soggetto in una delle categorie criminologiche di pericolosità. Egli sarà, infatti, ritenuto pericoloso o non pericoloso in relazione al suo precedente agire, ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza, elevato ad indice rivelatore della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell'ordine sociale costituzionale o dell'ordine economico e ciò in rapporto all'esistenza di disposizioni di legge che qualificano le diverse categorie di pericolosità. Ad avviso della Corte, dunque, dalla sentenza De Tommasodeve trarsi la conseguenza non già della denunciata incostituzionalità ma del rafforzamento della considerazione per cui la descrizione delle categorie criminologiche di cui agli artt. 1 e 4 del d.lgs. 159/2011 ha lo stesso valore che nel sistema penale è assegnato alla norma incriminatrice, ossia esprimere la previa selezione e connotazione, con fonte primaria, dei parametri fattuali rilevanti, siano essi rappresentati da una condotta specifica (le ipotesi di indizio di commissione di un particolare reato, con pericolosità qualificata) o da un insieme di condotte (le ipotesi di pericolosità generica). E ciò, secondo la Suprema Corte, rende non condivisibile il giudizio espresso dai giudici di Strasburgo sulla qualità della legge, nel senso che le disposizioni di riferimento, nel caso di specie limitate alle ipotesi di dedizione abituale a traffici delittuosi (art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 159/2011) e/o al vivere abitualmente, anche in parte, con il provento di attività delittuose (art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 159/2011), contengono spunti tassativizzanti i quali - se concretamente rispettati - consentono di ritenerle disposizioni idonee ad orientare le condotte dei consociati in modo congruo e con rispetto del canone logico-giuridico della prevedibilità, richiamato proprio nella decisione della Corte Edu. Così, le locuzioni traffici delittuosi e proventi di attività illecite, interpretati in senso non generico, dimostrano come pur senza indicare delle fattispecie incriminatrici specifiche, il Legislatore abbia inteso prendere in esame la condizione di un soggetto che abbia in precedenza commesso dei delitti consistenti in attività di intermediazione o in vendita di beni vietati (per l'appunto, traffici delittuosi) o genericamente produttivi di reddito (cioè provento di attività delittuose). Dunque, l'aggettivo delittuoso non rappresenta una connotazione di disvalore generico della condotta pregressa del soggetto ma è un attributo che la qualifica, per cui il giudice della misura di prevenzione dovrà attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte (visto il riferimento all'abitualità) che siano rispondenti ad una previsione di legge penalmente rilevante. Per applicare una misura di prevenzione, il giudice dovrà trovare argomentazioni idonee a dimostrare: i) la realizzazione di attività delittuose, non episodica ma caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del soggetto proposto; ii) la realizzazione di attività delittuose che, inoltre, siano produttive di reddito illecito (il provento) o caratterizzate da un particolare modus operandi (il traffico); iii) la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare. E, secondo la Corte di cassazione, i giudici di Appello avevano fornito puntuali argomentazioni su questi punti per cui la richiesta di incidente di costituzionalità avanzata dall'imputato andava respinta. Osservazioni
La sentenza in commento consente di trarre lo spunto per alcune breve riflessioni. In primo luogo, come rilevato anche dai giudici di legittimità, la chiave di lettura fornita dal provvedimento de quo potrebbe avallare la tesi di quei fautori di una sostanziale assimilazione tra le misure di prevenzione (ante o praeter delictum) e le misure di sicurezza (post delictum). In vero, una simile obiezione dovrebbe ritenersi non decisiva in quanto non terrebbe conto della fondamentale differenza che persiste tra le due tipologie di misure preventive, definite dalla Corte costituzionale (sent. n. 291/2013) come due species di un unico genus. Infatti, mentre le misure di sicurezza seguono il giudicato sul reato specifico cui sono correlate, le misure di prevenzione per pericolosità generica possono precederlo e sono connesse ad un qualsiasi delitto produttivo di reddito, se e in quanto il giudice della prevenzione valuti, in fase constatativa come commessi dal soggetto alcuni delitti idonei a connotarne la condizione di pericolosità. Certamente tali condotte potrebbero essere già coperte dal giudicato di condanna, ma ciò non equivarrebbe ad assimilare le due classi di misure, siccome le misure di prevenzione continuano ad essere caratterizzate da una natura essenzialmente anticipatoria (rispetto agli esiti dei correlati giudizi penali) e di verifica complessiva della condotta tenuta dal soggetto in un determinato arco temporale, specie ai fini dell'eventuale applicazione di una confisca cd. disgiunta, come nel caso in esame. Ed è proprio la natura della confisca disgiunta che merita un ulteriore approfondimento, tema sul quale la Corte si limita a fare qualche accenno. A tal proposito, non si può non richiamare l'arresto delle Sezioni unite penali (sent. n. 4880/2014, Ric. Spinelli) nel quale la Suprema Corte spiega che nella confisca disgiunta la valutazione del giudice di prevenzione non possa, ovviamente, prescindere dal giudizio di pericolosità del soggetto proposto, ma possa invece prescindere da quello dell'attualità di tale condizione, che caratterizza invece le misure di prevenzione personale. E, infatti, se rispetto alla misura di prevenzione personale il requisito della persistente pericolosità continua ad avere una ragion d'essere, in quanto, potendo quella risolversi nel tempo o grandemente scemare, sarebbe aberrante una misura di prevenzione applicata a soggetto non più socialmente pericoloso, rispetto alla misura patrimoniale, la connotazione di pericolosità è immanente alla res, per via della sua illegittima acquisizione, e ad essa inerisce geneticamente, in via permanente e, tendenzialmente, indissolubile. Di conseguenza, presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale continua ad essere la pericolosità del soggetto inciso, ossia la sua riconducibilità ad una delle categorie soggettive previste dalla normativa di settore ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione. Ciò in quanto la confisca disgiunta non è istituto che ha introdotto nel nostro ordinamento una diretta actio in rem, restando imprescindibile il rapporto tra pericolosità sociale del soggetto e gli incrementi patrimoniali da lui conseguiti (Cfr.: Cass. pen., Sez. I, n. 48882/2013). Ad assumere rilievo non è tanto la qualità di pericoloso sociale del titolare, in sè considerata, quanto piuttosto la circostanza che egli fosse tale al momento dell'acquisto del bene. Se così è, e se tale rapporto è indefettibile, nel senso che, in tanto può essere aggredito un determinato bene, in quanto chi l'abbia acquistato fosse un soggetto pericoloso al momento dell'acquisto, resta esaltata la funzione preventiva della confisca, diretta a prevenire la realizzazione di ulteriori condotte costituenti reato, stante l'efficacia deterrente della stessa ablazione. Nelle misure di prevenzione patrimoniali, quindi, l'attenzione si sposta sulla res, che si reputa pericolosa. A questo punto, è sin troppo ovvio considerare il fatto che in natura - al di là delle cose dotate di intrinseca nocività, tali da costituire, di per sè, un pericolo, ove non adeguatamente trattate (basti pensare al materiale radioattivo) - i beni sono per lo più "neutri", potendo acquisire connotazione di pericolosità solo in virtù di forza esterna dovuta all'azione dell'uomo. Così, nel caso di beni illecitamente acquistati, il carattere della pericolosità si riconnette non tanto alle modalità della loro acquisizione ovvero a particolari caratteristiche strutturali degli stessi, quanto piuttosto alla qualità soggettiva di chi ha proceduto al loro acquisto. Pertanto la pericolosità sociale del soggetto acquirente si riverbera eo ipso sul bene acquistato, ma non già in dimensione statica, ovverosia per il fatto stesso della qualità soggettiva, quanto piuttosto in proiezione dinamica, fondata sull'assioma dell'oggettiva pericolosità del mantenimento di cose, illecitamente acquistate, in mani di chi sia ritenuto appartenere - o sia appartenuto - ad una delle categorie soggettive previste dal legislatore. Tale riflesso finisce, così, con l'"oggettivarsi", traducendosi in attributo obiettivo o "qualità" peculiare del bene ed è capace di incidere sulla sua condizione giuridica. Ed è proprio perché esso stesso è divenuto "oggettivamente pericoloso", va rimosso, eo ipso, dal sistema di legale circolazione. |