L'imprenditore e l'associazione di tipo mafioso: il “colluso” e la “vittima”
16 Febbraio 2018
Abstract
Il tema della contiguità dell'imprenditoria con le associazioni di tipo mafioso è molto delicato. Al fine di delimitare l'area dei comportamenti penalmente rilevanti, la giurisprudenza ha elaborato la figura dell'imprenditore colluso, che viene contrapposta a quella dell'imprenditore vittima. Queste nozioni, lungi dal rappresentare un catalogo di automatica applicazione, possono solo offrire un contributo all'accertamento dei fatti, restando imprescindibile la profonda analisi degli elementi probatori raccolti. Le finalità dell'associazione di tipo mafioso descritte dall'art. 416-bis, comma 3, c.p., com'è noto, hanno carattere alternativo e non cumulativo e, ai fini della configurabilità del delitto, non devono essere effettivamente e concretamente raggiunte (Cass. n. 7627/1996; Cass.n. 6203/1991). Tra esse rientra l'acquisizione, diretta o indiretta della gestione o del controllo delle attività economiche. Questo scopo, che amplia l'ambito operativo della fattispecie incriminatrice, estendendolo anche al perseguimento di attività in sé formalmente lecite (Cass. n. 1793/1994), permette di distinguere nettamente l'organizzazione di stampo mafioso da quella punita dall'art. 416 c.p. L'elemento che caratterizza l'associazione mafiosa, invero, non è tanto il fine di commettere altri reati, né la tipologia di illeciti penali che s'intende perseguire, potendo l'azione essere rivolta anche al perseguimento di attività lecite, quanto il profilo programmatico dell'impiego del metodo mafioso. Questo metodo deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, risolvendosi nella condotta positiva (avvalersi) di una o più persone ovvero in una concreta carica intimidatoria avvertita nella realtà sociale (Cass. n. 50064/2015; Cass. n. 31512/2012). All'allargamento della sfera applicativa della norma di cui all'art. 416-bis c.p. derivante dall'inclusione, tra le finalità associative, di attività (formalmente) lecite, infatti, si deve accompagnare, in una prospettiva di recupero dell'offensività della fattispecie incriminatrice, una definizione normativa del tipo criminoso che rende necessario un minimo di operatività dell'associazione o, comunque, postula l'esistenza di una sua concreta carica intimidatoria (Cass. n.35627/2012; Cass. n. 40835/2013). È necessario, in altri termini, che il sodalizio mafioso sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile (Cass. n. 25242/2011), ossia che si sia esteriorizzata un'effettiva forza intimidatrice (Cass. n. 30059/2014). Lo scopo di controllo delle attività economiche, in ogni caso, oltre a rientrare tra quelli tipici del delitto di associazione di stampo mafioso, ben può configurare il “core business” del sodalizio, assumendo un rilievo preminente rispetto ad altre attività tradizionali, come ad esempio quella estorsiva (cfr. in motivazione, Cass. n. 47574/2016). L'art. 416-bis, comma 6, c.p., inoltre, prevede anche un'aggravante specifica, «se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà». Per la sussistenza dell'aggravante è necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Cass. n. 12251/2012). È sufficiente, però, che il prezzo, il profitto o il prodotto derivanti dai delitti posti in essere in esecuzione del programma criminoso dell'associazione per delinquere di stampo mafioso siano destinati a finanziare le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo, non essendo necessario che tale controllo sia effettivamente assunto o mantenuto, ma solo che il finanziamento alimentato dalle fonti di provenienza illecita sia idoneo a conseguire tale risultato (Cass. n. 24661/2013). La predetta aggravante, inoltre, deve essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe; essa ha natura oggettiva e, pertanto, si applica nei confronti di tutti i membri del gruppo (Cass. n. 42385/2009). La giurisprudenza, riconoscendo il rilievo sempre più marcato della finalità di controllo delle attività economiche per le cosche mafiose, negli anni, ha posto particolare attenzione alla qualificazione delle condotte degli imprenditori. Il tema dei rapporti tra imprenditoria e associazioni di tipo mafioso, invero, si presenta molto delicato per le evidenti implicazioni sul terreno socio-economico e per la necessità di compiere distinzioni che possono rilevarsi, come meglio si vedrà, particolarmente sottili e difficili. Proprio sul terreno dell'attività d'impresa, del resto, si avverte chiaramente quanto forte sia la capacità attrattiva che l'associazione mafiosa esercita sul corpo sociale. Verso di essa s'indirizza l'agire di una pluralità di soggetti che, sebbene siano provenienti sovente da esperienze diverse, sono uniti dal fatto di essere disposti ad avvalersi della forza di intimidazione che promana dal sodalizio. Nella prospettiva di una corretta analisi del fenomeno, in particolare, è stata elaborata la figura dell'imprenditore colluso che viene contrapposta a quella di imprenditore vittima. Si considera imprenditore colluso quello che è entrato in rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l'imprenditore nell'imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell'ottenere risorse, servizi o utilità», mentre viene definito imprenditore vittima quello che, soggiogato dall'intimidazione, non tenta di venire a patti col sodalizio, ma cede all'imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi talvolta a perseguire un'intesa volta a limitare tale danno. Il criterio distintivo tra le due figure, pertanto, risiede nel fatto che l'imprenditore colluso, a differenza di quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l'essere venuto in relazione col sodalizio mafioso (Cass. n. 19652/2017; Cass. n. 47574/2016; Cass. n. 39042/2008; Cass. n. 46552/2005). L'imprenditore partecipe o concorrente esterno ha trasformato l'originario danno ingiusto subito (il costo derivante dal dover sottostare all'imposizione del pizzo o di altre costrizioni mafiose onde evitare danni maggiori) in un vantaggio rappresentato dal beneficio insito nella possibilità di assicurarsi illegalmente una posizione dominante a scapito della concorrenza oppure risorse o linee di credito a prezzi di favore, sino a godere di un sostanziale monopolio su un dato territorio. La vittima non ha mai realizzato una simile trasformazione del danno subito: egli versa tangenti o si piega a prestazioni di altro tipo senza ottenere alcun beneficio. La considerazione degli effetti favorevoli ottenuti dall'impresa per effetto delle frequentazioni con i componenti del clan, quindi, può orientare il giudizio (Cass. n. 27086/2017). Molto delicata è la valutazione delle eventuali “trattative” condotte dall'imprenditore con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa e dei successivi “accordi”: va verificato se con esse miri ad assicurarsi un vantaggio dalla contiguità con il clan ovvero siano piuttosto espressione del suo tentativo di minimizzare il danno, inducendo i membri dell'associazione criminale a ridurre le loro pretese. In ogni caso, vanno tenute in debito conto le caratteristiche della realtà sociale in cui l'imprenditore opera e il settore produttivo di riferimento. Le nozioni dapprima delineate, come è evidente, hanno una matrice socio – criminologica. Da queste scienze, invero, si è attinto per pervenire ad una chiara comprensione e classificazione dei fenomeni e da esse sono state desunte “massime di esperienza”, frequentemente applicate nelle decisioni. Nel contempo, la giurisprudenza ha tracciato il limite invalicabile entro il quale i dati di forniti dalle discipline indicate possono essere valorizzati nel giudizio penale. In particolare, è determinante la «piena esplicazione del principio del "prudente apprezzamento" e [la] rigida osservanza del dovere di motivazione, integranti il nucleo essenziale del precetto enunciato dall'art. 192 c.p.p.» (Cass. n. 47574/2016). La valutazione del giudice «non deve uniformarsi a teoremi e ad astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio dell'effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-criminologiche e deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l'imprescindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo» (Cass. n. 84/1999). Una adeguata comprensione dei fenomeni associativi di stampo mafioso, in altri termini, non può prescindere dai risultati di serie ed accreditate indagini di ordine socio-criminale; tuttavia, deve senz'altro escludersi che la massima di esperienza, che può ricavarsi da queste indagini, possa esimere il giudice dall'osservanza del dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta che forma oggetto della singola vicenda processuale che egli è chiamato a definire (Cass. n. 84/1999). Le nozioni di imprenditore colluso e di imprenditore vittima, pertanto, offrono all'accertamento giudiziario soltanto un punto di riferimento per tracciare il confine dell'area dei fatti penalmente rilevanti. Resta imprescindibile la ricostruzione della fattispecie concreta alla luce del fatto tipico, secondo le direttive interpretative offerte dalla giurisprudenza di legittimità e in forza del rigoroso vaglio dei dati conoscitivi acquisiti accompagnato dalla rigida osservanza del dovere di motivazione: «la ricostruzione della fattispecie concreta e la sua qualificazione sulla base delle risultanze probatorie possono così essere collocate, secondo un'appropriata espressione dottrinale, sullo sfondo empirico sociale disegnato dalle discipline socio-criminologiche, ma non possono essere svincolate dalle regole e dagli strumenti propri, tipicamente, dell'accertamento giurisdizionale» (Cass. n. 47574/2016). La stessa nozione di imprenditore colluso, che viene evocata per determinare l'area della rilevanza penale, in verità, non si rivela univoca. Essa, infatti, è stata richiamata tanto per configurare la partecipazione all'associazione mafiosa dell'imprenditore, quanto con riguardo ad ipotesi in cui è stato ritenuto integrato il concorso esterno nell'associazione stessa. Alcune pronunce, infatti, hanno associato il riferimento all' “imprenditore colluso” a condotte ritenute di partecipazione all'organizzazione di stampo mafioso dell'imprenditore collegato con un legame sostanzialmente societario» alla famiglia mafiosa (Cass. n. 50130/2015; Cass. n. 49093/2015). In altre decisioni, invece, la “collusione” dell'imprenditore entrato in un rapporto sinallagmatico di cointeressenza con la cosca mafiosa è stata associata alla condotta di concorso esterno del soggetto privo di affectio societatis e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio (Cass. n. 30346/2013; Cass. n. 24771/2015, Russo). Proprio questa ambivalenza del concetto desunto dalla sociologia o dalla criminologia conferma che, sul piano penale, la nozione può solo contribuire all'accertamento ed alla qualificazione dei fatti, restando comunque indispensabile la valutazione, da ancorarsi alla rigorosa disamina del compendio probatorio, della fattispecie concreta in relazione al fatto tipico (cfr. di recente, Cass. n. 48632/2017; Cass. n. 43639/2017). Una volta provato il rapporto sinallagmatico di cointeressenza con il sodalizio mafioso, in altri termini, «la condotta dell'imprenditore “colluso” sarà configurabile come partecipazione ovvero come concorso eventuale nel reato associativo a seconda dei casi e conformemente ai parametri stabiliti dalla giurisprudenza» (Cass. n. 46552/2005; cfr. anche, Cass. n. 84/1999). L'analisi del repertorio, infatti, dimostra come, con riferimento alle condotte degli imprenditori, il criterio distintivo tra la partecipazione all'organizzazione criminale e il concorso esterno sia difficile da cogliere nei casi concreti, sebbene abbia un notevole incidenza. Essa, infatti, rileva sia per le disposizioni applicabili nel corso del procedimento (ad esempio, perché, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 48/2015, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere prevista dall'art. 275, comma 3, c.p.p. opera per il reato di partecipazione all'organizzazione mafiosa di cui all'art. 416-bis c.p., ma non per il concorso esterno in detta associazione, illecito per il quale, in caso di sussistenza di esigenze di cautela, il giudice può valutare l'applicazione di una misura meno afflittiva rispetto alla detenzione carceraria), sia, all'esito del giudizio, per la determinazione della pena (che, ai sensi dell'art. 133 c.p., deve essere rapportata alla gravità del reato, desunta, tra l'altro, dalle modalità dell'azione). In particolare, la condotta dell'imprenditore che svolgeva il ruolo di “garante ambientale” tra la cosca e gli altri imprenditori in un determinato territorio e contesto economico, con la funzione di soggetto al quale questi ultimi si rivolgevano per poter operare, nella consapevolezza del suo collegamento con il sodalizio, è stata ritenuta integrare la partecipazione all'associazione (Cass. n. 50130/2015). E' stata configurata la partecipazione nel caso in cui il soggetto, per la condizione di imprenditore, permetteva al sodalizio di ottenere le informazioni utili per future attività estorsive (Cass. n. 50756/2017, peraltro in tema di impugnazione di un provvedimento sequestro preventivo) ovvero rappresentava l'imprenditore di riferimento del clan nel settore degli appalti pubblici (Cass. 27394/2017) o ancora era l'amministratore di società commerciali fondamentali per la copertura delle attività illecite del gruppo, delle quali gestiva la movimentazione dei conti bancari, svolgendo la funzione di contabile delle operazioni usurarie dell'associazione, a lui ben note in tutti i loro aspetti (Cass. n. 3019/2018). È stata ravvisata la partecipazione al reato associativo di un imprenditore che, per conseguire una posizione di supremazia nel settore delle commesse assegnate da un ospedale pubblico, si è avvalso stabilmente tanto della forza intimidatrice promanante dalla famiglia camorristica, quanto dei funzionari pubblici preposti a ruoli strategici nella struttura pubblica deputata a conferire gli appalti, sui quali peraltro intervenivano soggetti legati allo stesso clan (Cass. n. 49093/2015). Analogamente, è stato reputato membro del gruppo criminale l'imprenditore che, oltre a conseguire vantaggi nello svolgimento della sua attività per il legame con il clan malavitoso, metteva a disposizione del sodalizio di autovetture e di armi (Cass. n. 24771/2015). Secondo la giurisprudenza di legittimità, inoltre, configura il delitto di partecipazione ad associazione criminosa di stampo mafioso, la condotta dell'imprenditore che progetti e predisponga meccanismi fraudolenti tesi ad ottenere, in violazione del divieto di frazionamento degli acquisti, l'aggiudicazione di appalti di prestazioni e servizi sempre al medesimo gruppo, così consentendo al sodalizio criminoso di esercitare il controllo sulle procedure di gara e di accrescere la propria capacità economica, consolidando la propria presenza criminale sul territorio (Cass. n. 49093/2015). È stato reputato concorrente esterno, invece, l'imprenditore operava nell'ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso un'attività di illecita interferenza, che comportava, a suo vantaggio, il conseguimento di commesse e, in favore del sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di influenza nel settore economico, con appalti ad imprese contigue (Cass. n. 30346/2013). Quando svolge un'attività lecita, l'imprenditore è concorrente esterno se ha assunto nel mercato una posizione dominante imposta con metodi illeciti, grazie all'intermediazione mafiosa e ai reciproci vantaggi assicurati dai legami bidirezionali con la criminalità organizzata (Cass. n. 19652/2017). La distinzione tra concorrente esterno e partecipe
Per poter cogliere il discrimine tra le due figure, in verità, più che condurre un'analisi casistica dei precedenti, occorre riferirsi ai parametri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di legittimità. Secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Cass. Sez. unite, n. 33748/2005). Il contributo essere costituito anche dal semplice inserimento all'interno della compagine criminale, ma deve essere comunque tale da potersi ricavare che il soggetto assicuri la sua completa messa a disposizione dell'organizzazione mafiosa (Cass. n. 37726/2014). Sul piano soggettivo, inoltre, occorre ravvisare l'affectio societatis, cioè la consapevolezza, desumibile anche da fatti concludenti, di aver assunto siffatto vincolo. Quest'ultimo, peraltro, non necessariamente deve essere indeterminato nel tempo, purché permanga al di là degli accordi particolari relativi alla realizzazione dei singoli episodi criminosi, in modo da costituire, nella sua fruizione propulsiva della criminalità organizzata, un attentato all'ordine pubblico. Al contrario, assume il ruolo di “concorrente esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell' affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (Cass. Sez. unite, n. 33748/2005). La distinzione tra la partecipazione ad associazione mafiosa ed il concorso esterno, pertanto, è collegata alla organicità del rapporto tra il singolo e la consorteria, sicché deve essere qualificato conne contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, mentre, al contrario, va qualificato come contributo concorsuale "esterno" quello dell'extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate sulla base di autonome determinazioni (Cass. n. 34147/2015). L'imprenditore “concorrente esterno” dell'organizzazione, in particolare, è mosso da un interesse diverso da quello dell'associazione mafiosa, ma scende a patti con essa perché, in questo modo, riesce a imporsi nel territorio in posizione dominante. Il clan, a sua volta, persegue il diverso obiettivo di conseguire risorse, servizi o utilità (Cass. n. 37726/2014). Si realizza allora un rapporto fondato sul do ut des, che si riflette sul mercato, di cui necessariamente vengono alterati gli equilibri. In conclusione
La nozione di imprenditore colluso, seppur utile per la ricostruzione dei fatti, può solo contribuire al loro accertamento ed alla loro qualificazione. È indispensabile la valutazione delle singole condotte da compiere necessariamente sulla base del materiale probatorio raccolto. Se si ravvisa un rapporto sinallagmatico tra imprenditore e sodalizio mafioso, è individuato un comportamento penalmente rilevante. A questo punto, la condotta dell'imprenditore “colluso” è configurabile come partecipazione ovvero come concorso eventuale nel reato associativo a seconda dei casi e conformemente ai parametri stabiliti dall'orientamento giurisprudenziale consolidato dapprima descritto. G. BORELLI, Massime di esperienza e stereotipi socio-culturali nei processi di mafia: la rilevanza penale della "contiguità mafiosa", in Cass. pen., 2007, 1074; L. PAOLONI, Il ruolo della borghesia mafiosa nel delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Un esempio della perdurante attualità delle Sezioni Unite “Mannino”, in Cass. pen. 2015, 1397; L. SIRACUSA, L'imprenditore estorto “acquiescente” tra coazione morale e libertà del volere, in Riv. it. dir. proc. pen. 2016, 1803; C. VISCONTI, La punibilità della contiguità alla mafia tra tradizione (molta) e innovazione (poca), in Cass. pen. 2002, 1857. |