Terrorismo e misure di prevenzione: la tempesta perfetta?

Ferdinando Brizzi
26 Febbraio 2018

Gli ultimi approcci legislativi e giurisprudenziali sono indicatori di tempesta nel mare sempre più agitato della materia delle misure di prevenzione. Il barometro dava già segnali di “bassa pressione” dall'irrompere impetuoso della sentenza De Tommaso, una vera e propria tempesta perfetta, ma si pensava che almeno il Legislatore avrebbe tentato di aprire squarci di sereno prima di licenziare il testo definitivo della Riforma in materia di misure di prevenzione intervenendo proprio nel settore messo più a repentaglio e a rischio di naufragio e cioè quello della pericolosità generica. Così non è stato ed è stata invece la giurisprudenza ...
Abstract

Gli ultimi approcci legislativi e giurisprudenziali sono indicatori di tempesta nel mare sempre più agitato della materia delle misure di prevenzione.

Il barometro dava già segnali di “bassa pressione” dall'irrompere impetuoso della sentenza De Tommaso, una vera e propria tempesta perfetta, ma si pensava che almeno il Legislatore avrebbe tentato di aprire squarci di sereno prima di licenziare il testo definitivo della Riforma in materia di misure di prevenzione intervenendo proprio nel settore messo più a repentaglio e a rischio di naufragio e cioè quello della pericolosità generica.

Così non è stato ed è stata invece la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, a tipizzare e definire i contorni della materia enucleando fattispecie concrete e profili di intervento assai specifici nel definire la categoria dei traffici delittuosi e della pericolosità generica di coloro che a questi traffici si dedicano vivendone in larga parte dei proventi gettando così in mare una confortevole zattera di salvataggio a tutti gli addetti ai lavori: magistrati, avvocati e studiosi di dottrina (per gli aspetti della vicenda si veda BRIZZI – PELLICANO, Di cosa parliamo quando parliamo di De Tommaso?).

Misure di prevenzione e terrorismo. Le speranze infrante dal d.lgs. 161/2017

Sorprendentemente il Legislatore, pur consapevole che il mare non era comunque calmo, con la nuova formulazione del codice antimafia come modificato dalla legge, 17 ottobre 2017, n.161 - Gazzetta ufficiale 4 novembre 2017, n. 258 lungi dal tipizzare gli aspetti vulnerati dalla pronuncia Edu De Tommaso è invece intervenuto nel settore che non appariva in alcun modo messo a repentaglio e cioè in quello della pericolosità qualificata con particolare riferimento al terrorismo.

In particolare l'articolo 4 lettera d) nuova formulazione in materia di soggetti destinatari, recita nel senso che le misure personali di prevenzione si applicano «agli indiziati di uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonchè alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all'articolo 270-sexies del codice penale».

Pertanto mentre alle lettere a) e b) dell'art. 4 il Legislatore fa un chiaro riferimento ai soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'art. 416-bis o ai soggetti comunque indiziati dei vari reati tra i quali quelli previsti dall'art. 51 comma 3-bis c.p.p., 12-quinquies, comma 1, d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e (ulteriore novità legislativa) di coloro che sono sempre indiziati del reato cui all'art. 418 c.p., quando giunge alla formulazione della lettera d) in particolare – dopo avere esordito assumendo con la rassicurante declinazione di agli indiziati sul solco degli altri casi previsti alle altre lettere del citato art. 4 – ebbene questo stesso Legislatore, non appena inizia a dedicarsi ai reati in materia di terrorismo, vira bruscamente ed elimina il riferimento agli indizi .

Riassumendo: in tutti i casi di pericolosità qualificata ex art. 4 si fa riferimento alla categoria concettuale soggetti indiziati; quando si parla di terrorismo (e con esplicita indicazione anche del terrorismo internazionale di matrice religiosa) il riferimento a un dato meramente indiziario scompare e viene inopinatamente sostituito da un approccio che fa a meno del criterio valutativo degli indizi ma richiama un dato di natura fattuale e cioè un parametro strettamente penalistico e cioè gli atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi .

Va detto che tale riforma deve necessariamente essere valutata alla luce dell'esperienza pregressa trasfusa nella Relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo – Relazione Annuale 2016 (periodo 01/07/2015 – 30/06/2016), Prot. 12720/2017/PNA, 12 aprile 2017 – nella quale si è dato ampiamento atto della limitata applicazione delle misure di prevenzione nel campo del terrorismo.

Il sistema della prevenzione in materia di terrorismo, ancora oggi, continua ad avere una scarsissima applicazione, in particolare, in ambito nazionale, risultano solo due iscrizioni di tale tipologia di procedimenti di prevenzione (da parte della Procura Distrettuale di Bologna) ed è stata formulata una sola proposta di prevenzione personale in tale settore.

A fronte di un risultato tanto sconfortante la speranza era che il Legislatore adeguasse la normativa in maniera tale da offrire agli investigatori degli strumenti più idonei a fronteggiare il fenomeno del terrorismo anche in chiave preventiva.

Ma questa speranza è stata delusa e come vedremo la recente riforma in materia di misure di prevenzione non ha dato i frutti sperati, anzi..

***

La riscrittura del testo normativo è stata invece positivamente valutata in dottrina.

Si fa riferimento a C. VISCONTI – G. TONA, Nuove pericolosità e nuove misure di prevenzione: percorsi contorti e prospettive aperte nella riforma del Codice antimafia, in La Legislazione Penale, 14 febbraio 2018.

Ebbene nonostante quanto sopra evidenziato in merito in merito alla sostanziale “disapplicazione” della normativa di prevenzione rispetto ai fenomeni terroristici, secondo questi Autori, per quanto la lettera della legge nel testo previgente facesse riferimento ai meri atti preparatori, era chiaro che la locuzione era da mettere in relazione con l'obiettivo di sovvertire l'ordinamento dello Stato.

Quindi rimaneva rilevante, sul piano oggettivo, l'accertamento (anche solo in via indiziaria) della commissione di uno dei reati originariamente previsti alla lett. d) dell'art. 4 del d.lgs. 159/2011, che a questo punto si doveva qualificare come ulteriormente indicativo della volontà di preparare azioni di sovvertimento dello Stato.

Evidenziano ancora gli Autori che tale ipotesi, «che sembrava destinata a rare applicazioni», è divenuta ora di particolare interesse di fronte a fenomeni eversivi sempre più allarmanti e per le quali si avvertono certamente elevate esigenze di attivare interventi preventivi.

Le considerazioni di C. VISCONTI – G. TONA entrano in conflitto con i dati impietosi della Relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.

Finora la normativa “di prevenzione” è rimasta sostanzialmente inapplicata rispetto al terrorismo.

Né si può ritenere, come sostengono C. VISCONTI – G. TONA, che la situazione sia destinata ad un miglioramento a seguito dell'inserimento tra i destinatari (con un richiamo all'art. 51, comma 3-quater, c.p.p.) gli indiziati di delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo.

Un'eccezione alla regola del ne bis in idem sostanziale?

In un settore delicatissimo quale quello del terrorismo – e in ispecie quello di natura islamica che ha agito nel cuore dell'occidente con attacchi non solo devastanti ma spesso imprevedibili e negli autori e nelle modalità spesso rudimentali ma purtroppo assai efficaci – nel quale un istituto quale quello delle misure di prevenzione calzerebbe a pennello proprio per prevenire azioni di tal genere, si è scelto in modo del tutto eccentrico ai fini della loro applicabilità un riferimento a concetti di natura penale sostanziale (atti preparatori , obbiettivamente rilevanti ovvero esecutivi) in luogo del mero riferimento alla “indiziabilità” creando, a nostro avviso, una certamente non auspicabile difficoltà di applicazione e una insidiosa sovrapposizione di diversi “piani” d'intervento giudiziale.

E infatti la formulazione adottata dal Legislatore proprio per tipizzare i casi in cui sarebbe possibile applicare le misure di prevenzione nel settore dell'antiterrorismo presta il fianco, con lo specifico riferimento a quei canoni di natura fattuale e sostanziale già indicati, a una potenziale violazione del ne bis in idem sostanziale.

Se, ad esempio, gli atti preparatori obbiettivamente rilevanti ovvero quelli esecutivi sono stati già puniti in sede penale non è dato comprendere quale margini residui per l'applicazione della normativa di prevenzione per quegli stessi fatti.

Lo stesso dicasi per quanto concerne il riferimento normativo agli stessi procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo.

Le ignorate somiglianze tra gruppo terroristico e associazione mafiosa

Resta davvero difficile comprendere la bizzarra rinuncia al semplice riferimento indiziario in cambio di un certamente ben più complesso accertamento probatorio che si va ad inserire nel contesto fattuale di una norma penale.

A nostro avviso sarebbe stato più razionale ed in linea con la ratio dell'art. 4 una semplice modifica che assimilasse tout court i fatti di terrorismo alle organizzazioni mafiose per le quali ai sensi dell'art. 4 lett a) opera sic et simpliciter la possibilità di applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali in quanto indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'articolo 416-bis c.p.

Perché non prevedere dunque –invece di richiamarsi a concetti estranei alla materia de qua e a rischio di eccezioni di ne bis in idem sostanziale- l'applicazione delle misure di prevenzione antiterrorismo ai soggetti semplicemente indiziati di appartenere alle associazioni che perseguono le finalità terroristiche di cui all'articolo 270-sexies del codice penale indipendentemente da qualsiasi richiamo “a atti preparatori obbiettivamente rilevanti ovvero esecutivi” ?

Questa è la domanda che poniamo.

Il collegamento tra fenomeni terroristici e mafiosi, a nostro avviso, non è assolutamente peregrino e giustificherebbe approcci simili trattandosi di fenomenologie criminali aventi notevoli punti di contatto in primo luogo socio-culturali.

Queste analogie tra fenomenologie terroristiche e mafiose sono ben note anche alla giurisprudenza della Suprema Corte che ha sottolineato come entrambe prima che fatti criminali strictu sensu sono fenomeni socio-culturali.

E infatti la Cassazione con riferimento al terrorismo (Sez. V, 3 novembre 2017, n. 50189 Bekaj + altri) ha affermato che la costituzione di un sodalizio criminoso avente le caratteristiche di cui all'art. 270-bis c.p. non può dirsi esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più attorno a nuclei culturali che si rifanno all'integralismo religioso islamico perché, al contrario, i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancor più pericoloso, potendo esso costituire un collante più forte di molti altri vincoli tra sodali.

Viene prima l'humus ideologico e religioso e da questo, in un'ottica di espansione illimitata e nella svalutazione di qualsiasi altro pensiero o credo religioso, il ricorso al crimine e quindi alla violenza e al terrore che incarnano la realizzazione concreta di tale ideologia.

La giurisprudenza che si occupa di fenomeni terroristici ha dunque ben chiaro che il fenomeno è prima di tutto socio-culturale.

Allo stesso modo e quindi attingendo a questo substrato pre-criminale si atteggia la fenomenologia mafiosa.

Ed infatti assai recentemente la Cassazione (Sez. II, 14 febbraio 2018, n. 7175) ha affermato che il concetto di appartenenza ad una associazione mafiosa, richiesto ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione, va distinto da quello di partecipazione, necessario ai fini dell'integrazione del corrispondente reato.

Quest'ultima richiede una presenza attiva nell'ambito del sodalizio criminoso, mentre la prima è comprensiva di ogni comportamento che, pur non integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa.

Come si vede anche qui un humus dal quale nascono le condotte criminali favorite da una “cultura" di appartenenza e condivisione che travalica le condotte individuali o concorsuali degli autori dei reati.

Se il Legislatore avesse preso atto di queste importanti analogie probabilmente sarebbe stato alla larga dalle ridondanti – e a nostro avviso non solo inutili ma anche potenzialmente dannose – evocazioni di veri e propri ectoplasmi penal-sostanziali quali gli atti preparatori obbiettivamente rilevanti e gli atti esecutivi che renderanno a nostro avviso ancor più ardua l'applicazione delle misure di prevenzione nella delicatissima materia del terrorismo e in particolare di quello internazionale, applicazione che, come si è già detto, appare davvero minimale se non quasi inesistente.

Nello specifico l'impropria e infelice definizione legislativa dell'art. 4 lett d) rende la norma del tutto avulsa rispetto al moderno fenomeno terroristico soprattutto di matrice islamica e lontana da una reale comprensione dello stesso.

Al riguardo pare opportuno richiamare una recente ordinanza del tribunale del riesame di Torino, che ha disposto l'applicazione di misura cautelare annullando la pregressa reiezione da parte del Gip dello stesso tribunale.

Si tratta in particolare di un'ordinanza emessa il 9 novembre 2017 nella quale il giudice del riesame, facendo corretta applicazione dei principi fatti propri dalla Cassazione (Sez. V, 3 novembre 2017, n. 50189 Bekaj + altri) che abbiamo appena citato, dalla quale si evince come i giudici torinesi abbiano colto appieno le caratteristiche essenziali delle moderne organizzazioni terroristiche.

In particolare si sottolinea come il concetto di partecipazione non sia legato ad una affiliazione rituale, ma possa essere ricondotto a “facta concludentia”, ovvero a condotte che non identificano alcun “ruolo” specifico del partecipe, ma che sono comunque indice di intraneità e di condivisione degli scopi associativi.

Nel caso del terrorismo di matrice islamico-fondamentalista ciò è di solare evidenza.

A nessuno può sfuggire come le condotte di partecipazione all'Isis o ad altri gruppi terroristici analoghi da parte di gruppi di persone talvolta anche molto limitati nella composizione numerica (le c.d. cellule o gruppi minimali di combattenti) o financo di singoli (quelli che potremmo definire i “lupi solitari”), non siano di regola riconducibili a un accordo preventivo fondato su una vera e propria manifestazione di volontà o anche a un concreto atto dichiarativo di appartenenza rispetto ad una specifica entità terroristica bensì a una semplice e concreta ma certamente consapevole disponibilità ad aderire alle finalità e al programma della associazione, anche mediante l'accesso telematico ai contenuti virtuali diffusi sulla rete da parte del gruppo o anche ad approcci, espressioni di consenso o quanto altro sia assimilabile alle forme di comunicazione tipiche dei c.d. “social network”.

Nulla di più lontano da richiami concettuali che hanno per certi aspetti un vago aroma “retrò” quali gli atti preparatori ovvero esecutivi difficilmente compatibili con gli ambigui ma al tempo stesso espliciti richiami social di condivisione e apprezzamento che invece hanno certamente una valenza indiziaria di adesione alle associazioni terroristiche.

I social network

Gli aspetti più specificamente connessi al fenomeno “social network” sono stati affrontati dalla S.C. con la sentenza della Sez. V n. 55418/2017.

La Cassazione a questo riguardo ha evidenziato:

  • come le consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale abbiano natura di organizzazione terroristica ex art. 270-bis c.p.;
  • come la diffusione “social” attraverso Facebook di video di natura propagandistica o comunque di apologia dello stato islamico (trattavasi di filmati con il quale un combattente pregava perché Allah lo scegliesse come martire e di video in cui si inneggiava ai combattenti che uccidevano o morivano in nome di Allah) abbiano carattere apologetico e propagandistico;
  • come il richiamo alla Jihad islamica ispiri le azioni dell'Isis e sia il collante del terrorismo islamico;
  • come non si possa in alcun modo ridimensionare la portata apologetica dei video “postati” e si debba valorizzare sia la condotta “social” di condivisione dei video stessi sia l'apposizione di un “like” ( o “mi piace” che dir si voglia), sintomatici di adesione e di offensività concreta della condotta alla luce dell'ampia portata propalatrice svolta nel contesto dal “social network”.

Viene data quindi rilevanza penale sia alla condivisione “social” (sia pur per un tempo limitato) sia all'apposizione di un “like” come segno di gradimento e approvazione.

Come si vede in questa fattispecie concreta non esiste alcuna iniziazione, nessun rito viene celebrato per suffragare e certificare l'adesione.

Il contenuto di questa sentenza va necessariamente approfondito anche con riferimento all'iter processuale.

Con ordinanza del 6 giugno 2017 il tribunale del riesame di Brescia annullava l'ordinanza del Gip presso lo stesso tribunale del 28 ottobre 2016 con la quale era stata applicata la misura cautelare in carcere nei confronti di un soggetto accusato, a norma dell'art. 414 c.p. , comma 4, di aver pubblicamente, mediante la diffusione sulla rete internet, fatto apologia dello Stato Islamico, associazione con finalità di terrorismo internazionale.

Il tribunale del riesame di Brescia era stato chiamato ad esaminare nuovamente la posizione dell'indagato dopo che la Cassazione, con sentenza n. 24103/2017, aveva annullato la prima ordinanza del tribunale di Brescia del 15 novembre 2016 con cui era stata per la prima volta annullata la predetta ordinanza del Gip di Brescia del 28 ottobre 2016.

Il procuratore della Repubblica, nel proporre ricorso avverso tale decisione evidenziava che il richiamo costante ed esplicito al conflitto bellico sul territorio sirio-iracheno, contenuto nelle registrazioni pubblicate e condivise sul profilo Facebook dell'indagato, rappresentava un idoneo e qualificato riferimento all'Isis, protagonista non certo secondario di tale conflitto, con la conseguenza che il tribunale del riesame di Brescia non aveva tenuto conto delle conseguenze apologetiche che i riferimenti espliciti ed impliciti al conflitto sirio-iracheno erano in grado di provocare rispetto ai frequentatori dei social network.

Il riferimento ad una delle parti in guerra, in particolare all'Isis, presupponeva, il richiamo alla Jihad islamica, la quale costituisce la fonte di ispirazione delle azioni militari dello Stato islamico sul territorio siriano e iracheno e, su scala internazionale, il collante del terrorismo islamico.

Ed in particolare, la Cassazione, con la richiamata sentenza n. 24103/2017, aveva precisato, a titolo esemplificativo, che l'inneggiare al martirio con una videoregistrazione non costituiva una condotta caratterizzata da una matrice esclusivamente ideologica e religiosa dei messaggi ad essi sottesi, come era stato erroneamente ritenuto dalla prima ordinanza annullata del Tribunale di Brescia.

Tribunale che aveva ritenuto, erroneamente secondo l'ufficio di Procura e in contrasto con quanto sostenuto dai giudici di legittimità, pur riconoscendo che il termine Jihad è certamente evocativo della guerra santa, che nelle videoregistrazioni oggetto del procedimento non vi fossero sufficienti elementi per ricondurre univocamente i richiami a questa guerra “religiosa” in esse contenute all'Isis, sul rilievo che lo Stato islamico era solo una delle parti belligeranti del conflitto sirio-iracheno e che non era stata dimostrata la volontà dell'indagato di riferirsi proprio all'Isis e non ad altri combattenti.

Tale argomentazione, secondo il ricorrente pubblico ministero, si appalesava quantomeno contraddittoria e incongrua rispetto al materiale probatorio acquisito ed in contrasto con le conclusioni cui era giunto lo stesso giudice di merito allorquando, da un lato, aveva circoscritto alla sola (breve) durata del video la portata offensiva della condotta apologetica, e, dall'altro, ne aveva minimizzato la rilevanza penale ridimensionando l'importanza della opzione “like” espressa dall'indagato ai video postati in rete.

La Corte di cassazione con la già richiamata sentenza n. 55418/2017 ha condiviso le doglianze della Pubblica Accusa ricorrente osservando che, per escludere la configurabilità del delitto di cui all'art. 414 c.p. (l'ordinanza impugnata aveva infatti ridimensionato la portata apologetica dei due video sul rilievo dell'asserita breve durata - undici giorni - della condivisione degli stessi sul profilo Facebook dell'indagato e in relazione alla circostanza che uno dei due sarebbe stato diffuso con la sola opzione "mi piace") i dati valorizzati dal Giudice non erano certo tali da ridurre la portata offensiva della condotta posta in essere dall'indagato attesa la chiara funzione propalatrice svolta in tale contesto dal social network Facebook.

È appena il caso di rilevare che Facebook per sua natura è ontologicamente rivolto a un numero potenzialmente indeterminato di fruitori.

Nessun dubbio può sussistere quindi in ordine al fatto che il comportamento ricondotto dai giudici di legittimità al paradigma dell'istigazione a delinquere possa, a sua volta, essere sussunto nel parametro normativo di cui al rinnovato art. 4. lett. d) d.lgs. 159/2011.

Ebbene tale condotta può essere indifferentemente considerata quale comportamento indiziante di uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-quater, c.p.p., ovvero essere considerata quale atto preparatorio ovvero esecutivo, diretto a sovvertire l'ordinamento dello Stato.

È certamente una condotta avente rilevanza penale sostanziale ma quale spazio resta per l'applicazione di una misura di prevenzione?

Una simile condotta, del tutto isolata, non può certo essere inquadrata in un contesto che si caratterizzi come una “biografia criminale” e come tale legittimante, nell'ottica specifica delle misure di prevenzione, l'applicazione di una misura di tal fatta e questo per quanto sin qui costantemente affermato dal Supremo collegio proprio avuto riguardo alla natura delle misure di prevenzione che più che a fatti attengono a “storie” di persone intrise di aspetti serialmente delinquenziali.

Questo è un aspetto di fondamentale importanza che, come si vede, prescinde da ogni altra valutazione sostanziale di un singolo fatto .

L'adesione “in progress” al sodalizio terroristico

Tornando alle caratteristiche delle strutture terroristiche e in particolare quelle internazionali non si può che affermare come si tratti di consorterie che potremmo definire “in progress” o anche semplicemente per “accumulazione”, aggregazioni che possono fare a meno di una struttura con caratteristiche di stabilità e direzione verticistica avuto riguardo al programma criminale cui ciascuno dei consociati esprime un preventivo formale consenso di realizzazione, come avviene di regola nelle consorterie di cui all'art. 416-bis c.p.

Caratteristica tipica di questi moderni gruppi terroristici è invece quella di poter attrarre i sodali (o comunque i futuri sodali) e quindi di consentire un arruolamento nei ranghi della “milizia” di volta in volta e senza particolari profili di ritualizzazione o pre-militanza.

Vi è una sorta di adesione progressiva al comune progetto politico-militare che funge da catalizzatore della affectio societatis dei sodali e da obiettivo di natura ideologico-religiosa fortemente caratterizzante i militanti .

Può mancare quindi quella lunga iniziazione che è invece tipica dei fenomeni mafiosi essendo ontologica un'adesione spontanea e immediata che si può manifestare, come abbiamo già detto, anche semplicemente attraverso i “social network” e i loro particolari canali di comunicazione che spesso prescindono da valutazioni particolarmente elaborate ma si limitano a generiche approvazioni anche meramente simboliche (“like”, condivisioni in senso tecnicamente “social”) ma non per questo asintomatiche di elevata pericolosità .

Anzi, come si è già anticipato, da ritenersi ancor più pericolose (e penalmente rilevanti) data la potenziale, illimitata portata diffusiva di social network quale Facebook.

Non si può quindi non tener conto di queste nuove fenomenologie di propaganda e incitamento sia ai fini penal-sostanziali sia ai fini delle misure di prevenzione ma sarebbe stato opportuno evitare pericolose sovrapposizioni tecniche tra due campi così distinti che invece a nostro avviso sono, purtroppo, evidenti .

Va detto che, con riferimento ai più recenti fenomeni di terrorismo fondamentalista-islamico, la giurisprudenza ha affermato che integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete”, in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una sola delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all'assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all'arruolamento, all'addestramento.

È quindi indubbio che le moderne organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale, come l'Isis, propongono modalità di adesione aperte e spontaneistiche, che non implicano un'accettazione formale del negozio sociale da parte dell'operato del sodalizio, bensì propongono l'inclusione in progress di individui o “cellule”, che condividono l'obiettivo terroristico e la sua dimensione di matrice religiosa estremista, attraverso il richiamo e l'ispirazione a disvalori di propaganda, proclamati su scala internazionale ed attivizzati mediante diffusione di video, immagini e comunicati diretti allo scopo.

Ne consegue che, in siffatti casi, non si può pretendere la sussistenza, quale indizio di partecipazione, di un formale rito di affiliazione o giuramento (si pensi alla ndrangheta).

Rituali di tal fatta appartengono storicamente ad altre strutture associative che da un punto di vista del fenomeno criminale e sociologicamente sono del tutto diverse da una compagine come l'Isis che raccoglie nel proprio alveo anche strutture cellulari o i cd. lupi solitari, il cui intervento –a titolo partecipativo – si può caratterizzare anche per l'estemporaneità dell'azione violenta, un'azione che peraltro trova la propria origine nella propaganda e nel costante auto-indottrinamento proveniente dall'associazione terroristica che, spesso, solo in un momento successivo rivendica l'atto.

Non va dimenticato, infatti, che tra i caratteri peculiari dell'associazione terroristica di matrice islamica, vi è proprio un indefettibile comando cui ogni fedele presta totale sottomissione e cioè il riconoscersi esclusivamente nello Stato Islamico e il dovere di combattere coloro che propugnano un credo religioso o uno stile di vita diverso da quello professato dagli adepti del “califfato” o comunque dello stato Islamico più estremo e radicale.

Questa sottomissione e questo impegno di lotta fino al martirio e al sacrificio personale opera ovunque essi si trovino e in qualunque momento, il che esclude necessariamente la necessità di “riti di iniziazione” da parte di chi - proprio per la sua investitura di “vero” musulmano - non fa altro che ossequiare il jihad propagandato (anche a livello mediatico) dall'Isis, quale parte integrante del proprio credo religioso, a prescindere da ogni formale affiliazione.

Jihad significa letteralmente “sforzo” e viene comunemente tradotto con “guerra santa”, intendendo in particolare il dovere dei musulmani di prendere le armi “sulla via di Dio”. Per la maggior parte della comunità islamica, il jihad rappresenta lo “slancio”, cioè l'impegno ad essere un buon musulmano e quindi coincide con un percorso personale di purificazione interiore, mentre per i cd. jihadisti, tale termine va inteso nella sua accezione più violenta di lotta contro i “miscredenti” a cui ogni “vero” musulmano dovrebbe dedicarsi.

In una siffatta prospettiva, quindi, anche la costante frequentazione dei luoghi virtuali di diffusione dei contenuti dell'associazione, già prima di procedere alla realizzazione concreta degli obiettivi talvolta estremi ivi incentivati (il passaggio alle armi, il martirio, il sacrificio), rappresenta una manifestazione di volontà partecipativa al programma terroristico che, da parte dell'associato, può essere ricondotta a modalità comportamentali differenti (e di cui, nel caso concreto, ricorrono effettivamente diverse forme espressive), ma che per l'associazione (che ha già divulgato sulla rete le finalità e i metodi violenti della jihad) non necessita di un formale atto dichiarativo.

Un'associazione di tal fatta si propone ontologicamente come “sempre disponibile” ad accogliere le vocazioni di coloro che, singolarmente o in gruppo, hanno risposto alla “chiamata” diffusa con i moderni strumenti di comunicazione, social network inclusi.

In conclusione

In conclusione non si può che affermare (richiamandosi al contenuto della già citata sentenza (Cass.pen., Sez. V, 3 novembre 2017, n. 50189, Bekaj + altri) che vanno considerati come concreti elementi indiziari di partecipazione all'associazione criminale terroristica di riferimento, denominata Isis la condivisione reiterata di file-video che inneggiano alla jihad e mostrano scene di uccisioni e di guerra, diffusi da organizzazioni terroristiche internazionali, come tali riconosciute, ovvero illustrano le istruzioni per la preparazione di ordigni home made, nonché l'accertamento di attività di proselitismo e propaganda da parte dei sodali mediante i propri profili social, di addestramento e autoaddestramento alla guerra e di programmazione, per quanto embrionale, della realizzazione di attentati veri e propri sul territorio dello Stato e, in particolare, nel luogo di loro residenza effettiva.

Sul punto non si può non rilevare come le ultime, micidiali azioni compiute da gruppi di consistente o minimale composizione numerica in alcuni paesi europei mostrano il segno di una sostanziale imprevedibilità delle aggressioni criminali purtroppo concretizzate sia quanto agli obiettivi presi di mira quanto all'impiego di armi ed esplosivi, impiego che a volte è stato determinante per la finalità stragista mentre in altri casi è stato del tutto ignorato.

Non si può non pensare infatti a stragi compiute, a dispetto di ogni prevedibile potenzialità offensiva dei mezzi utilizzati, mediante l'uso di armi “improprie” ma lo stesso terribili quali veicoli di grandi dimensioni lanciati a folle velocità contro la folla inerme e colta di sorpresa.

In molti dei casi, inoltre, l'esplosivo utilizzato, per quanto connotato da caratteristiche di elevata pericolosità, è risultato – sulla base delle analisi tecniche effettuate – essere stato fabbricato artigianalmente.

La capacità di analisi mostrata dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità fa emergere ancor di più quella che noi riteniamo una debolezza (se non miopia) della scelta operata dal Legislatore “di prevenzione” che ha ritenuto di ancorare l'applicazione delle misure di prevenzione ai “fatti” esecutivi o preparatori, nonché ai delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo.

Il punto centrale, secondo noi, è la confusione che il Legislatore ha dimostrato in questa delicatissima materia e che sta proprio nel non aver considerato come il giudice della prevenzione, a differenza del giudice penale sostanziale, non conosce dei “fatti” intesi in senso penalistico con il loro corredo sostanziale e concettuale a tutti noto, ma accerta e valuta una “biografia criminale”, un iter delinquenziale che connoti una biografia individuale di penetranti profili di pericolosità che si dipana nel corso di anni di vita di dedizione al crimine.

La valutazione del giudice della prevenzione attiene quindi a una previa constatazione di tratti esistenziali connotanti questa propensione criminale (fase c.d. constatativa) per giungere successivamente a un giudizio prognostico di probabile reiterazione di siffatte condotte criminose.

In modo esemplare la S.C. (si cfr Cass. pen., 15 settembre 2017, n. 42238) ha affermato che il giudizio di pericolosità soggettiva è da qualificarsi come "giudizio storico" di tipo constatativo (alimentato dall'apprezzamento di condotte specifiche) cui si unisce la parte "prognostica" relativa alle probabili condotte future ed è pertanto ben possibile che - dovendosi analizzare una condizione durevole e non una singola condotta – vengano ricomprese nell'inquadramento di tipizzazione (ossia nella operazione di riconduzione delle emergenze fattuali alle ipotesi normativamente tipizzate di pericolosità) sia condotte riconducibili alle ipotesi di cui al d.lgs.6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia), art. 4, comma 1, lett. a) e b), che condotte riconducibili alle ipotesi tipiche di cui al d.lgs. 159/2011, art. 1 (e dunque d.lgs. 159/2011, art. 4, comma 1, lett. c)) del testo di legge.

Ed è stato proprio questo tratto distintivo del procedimento di prevenzione rispetto al processo penale che ha sin qui garantito la tenuta del sistema di prevenzione rispetto alle giurisdizioni sovranazionali.

Ma laddove il “giudice della prevenzione” venga costretto a trasformarsi in un “ibrido” giudice del fatto in tal modo sovrapponendosi a colui che i fatti deve valutare all'interno di parametri tecnici ben precisi e cioè al giudice penale vero e proprio allora può davvero profilarsi la temuta violazione del principio del ne bis in idem.

Al riguardo va tenuto presente come la Cassazione (Sez. I, 16 maggio 2017, n. 50163) abbia precisato che è inapplicabile il principio del divieto del ne bis in idem tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, poiché il presupposto per l'applicazione di una misura di prevenzione è una "condizione" personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l'applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale (fattispecie relativa alla applicazione della misura della sorveglianza speciale nei confronti di soggetto indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso, ancorché già condannato per partecipazione alla stessa associazione e, come tale, destinatario anche della misura di sicurezza della libertà vigilata).

Noi riteniamo con forza che le misure di prevenzione si differenziano dalle norme di carattere penale proprio perché il loro scopo non è quello di sanzionare una determinata condotta antigiuridica quanto piuttosto quello di accertare una reiterazione di condotte antigiuridiche non necessariamente valutate e accertate con pronunce di penale responsabilità, ma comunque tali da connotare la “biografia del proposto da tratti serialmente criminali, intesi come stile di vita e sostentamento coi proventi delle predette condotte illecite .

Il Legislatore del 2017 che ha riformato la normativa di prevenzione vigente in tema di terrorismo ha invece virato pericolosamente verso una concettualmente non condivisibile assimilazione tra giudizio di prevenzione e giudizio penale, rendendo sempre più incerta la distinzione tra “fattispecie penale” e valutazione di prevenzione.

La prima attiene a fatti, la seconda attiene a una biografia che denoti pericolosità.

Escludere il riferimento al mero dato indiziario come parametro di valutazione ai fini dell'applicazione di una misura di prevenzione in materia di terrorismo per calarlo su valutazioni di natura fattuale e penale sostanziale quali gli atti preparatori ovvero esecutivi rischia di comportare l'oggettivo pericolo di un “ne bis in idem” potendo quella stessa condotta essere riferibile sia a una fattispecie penale sostanziale sia a profili rilevanti per l'applicazione di una misura di prevenzione ex art. 4 lett. d), d.l. 159/2001.

Si tratta, come si è potuto notare dai riferimenti giurisprudenziali cui si è fatto ampio cenno, di una congerie di condotte che hanno una duplice e sovrapponibile valutabilità, atti che rientrano pacificamente nell'area del “pericoloso” ( e quindi rilevante quanto all'applicabilità di una misura di prevenzione) ma anche nell'area del penalmente rilevante in senso stretto.

Si è visto come, attesa la moderna struttura delle organizzazioni terroristiche e il costante utilizzo di canali telematici e “social”, anche una semplice condivisione protratta nel tempo o un “like” può configurare allo stesso tempo una fattispecie di reato consumato ma anche un atto preparatorio obbiettivamente rilevante o esecutivo ex art. 4, lettera d) del d.l. 159/2011 come recentemente novellato.

Ma resta fuori, dal punto di vista specifico di ciò che attiene le misure di prevenzione, quel riferimento alla vita e all'esistenza del proposto, quella biografia unica e personale dalla quale attingere per una prognosi di pericolosità sacrificata in nome del fatto.

In buona sostanza noi riteniamo che le modifiche normative recentemente introdotte rischiano di restringere alquanto l'applicabilità delle misure di prevenzione, di spalancare rilevanti profili di ne bis in idem e, forsanche, di dubbi di costituzionalità delle stesse, ovvero di contrarietà alla normativa europea e a recenti pronunce Edu.

Appare dunque evidente la necessità di intervenire, ritoccando l'ultima riforma intervenuta predisponendo un vero e proprio codice della normativa di prevenzione che consenta di superare i profili “illegali” indicati dalla Cedu nella nota sentenza De Tommaso, restituendo alle misure di prevenzione il loro ruolo di primo piano al contrasto delle forme più gravi di criminalità, tra cui terrorismo e manifestazioni mafiose, con ricollocazione delle stesse nell'alveo della biografia criminale e sottraendole a profili di valutazione fattuale che le sono ontologicamente estranee.

Altrimenti si annuncia la tempesta perfetta.

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