Il danno cagionato al lavoratore per straining è risarcibile

La Redazione
02 Marzo 2018

Lo stress psico-fisico inflitto deliberatamente e con intento discriminatorio al lavoratore dal superiore gerarchico configura una «forma attenuata di mobbing» definita straining, dal quale deriva la pretesa risarcitoria ai sensi dell'art. 2087 c.c.

La Corte d'Appello di Brescia rigettava il ricorso proposto dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca avverso la sentenza del Tribunale con cui veniva parzialmente accolta la domanda di risarcimento, avanzata da una insegnante dichiarata inidonea all'insegnamento ed assegnata alla segreteria scolastica. La Corte rilevava infatti che le condotte poste in essere dal dirigente scolastico nei confronti della dipendente, iniziate con la sottrazione degli strumenti di lavoro e sfociate nella privazione di ogni mansione, costituissero un'ipotesi di straining, ossia uno stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico.


Avverso la sentenza della Corte d'Appello il Ministero ricorre per cassazione denunciando che lo straining non costituisca una categoria giuridica, essendo una fattispecie controversa anche all'interno della medicina legale.

Il Supremo Collegio nega che il Giudice di merito sia incorso in ultra o extra petizione, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., attraverso l'utilizzo della nozione di straining anziché quella di mobbing, «perché lo straining altro non è se non “una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie” azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c.».
Per la Cassazione la Corte d'Appello di Brescia, infatti, ha correttamente applicato tale principio, evidenziando altresì che «la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti».
Pertanto la Corte rigetta il ricorso.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.