Responsabilità medica ed onere della prova: reinterpretazione della sentenza delle Sezioni Unite del 2008 o (in)consapevole contrasto?

Ombretta Salvetti
03 Aprile 2018

La sentenza Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2017 n. 18392 ha offerto una reinterpretazione dell'orientamento espresso dalle Sezioni Unite del 2008 in tema di onere della prova in materia di responsabilità sanitaria. L'autrice analizza la pronuncia al fine di verificare se si tratti davvero di una reinterpretazione o, piuttosto, della riconduzione del regime probatorio ai criteri generali in materia di onere della prova nelle obbligazioni contrattuali, evidenziando le conseguenze pratiche di questa nuova prospettazione sul piano processuale.
L'inquadramento "contrattuale" della responsabilità medica e il c.d. "contatto sociale"

La qualificazione giuridica del rapporto fra il paziente e la struttura sanitaria pubblica, nonché fra paziente e sanitario c.d. "strutturato", agli effetti della disciplina della responsabilità civile, un tempo pacificamente inquadrata come extracontrattuale, ha seguito, soprattutto a decorrere dal 1999 in poi, un iter travagliato e del tutto peculiare, allorchè la giurisprudenza ha ristretto progressivamente sempre più il campo della responsabilità extracontrattuale, scivolando, a partire dalla fine degli anni '70, nella direzione della contrattualità, anche nel caso di ricovero del paziente in un Ospedale Pubblico, Pronto Soccorso, o di prestazione ambulatoriale in regime di SSN. La prima sentenza in proposito risale al 1979 (Cass. civ., 8 marzo 1979 n. 1716), ma solo negli anni '90, la nota sentenza della Sezione Terza della Cassazione (Cass. civ., sez. III, n. 589/1999), ispirandosi ad un orientamento, dottrinario, di matrice tedesca, secondo il quale, nei confronti del medico dipendente ospedaliero, è configurabile una responsabilità contrattuale nascente da «un'obbligazione senza prestazione ai confini fra contratto e torto», ha dato avvio in Italia all'affermata teorica del c.d “contatto sociale”, che si ricollega alle fonti delle obbligazioni quali enunciate dall'art. 1173 c.c., secondo cui le obbligazioni sorgono da contratto, da illecito «e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico» e dunque anche dal principio costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.).

Secondo tale orientamento, il rapporto fra paziente e medico ospedaliero o fra paziente e struttura costituisce una sorta di rapporto contrattuale di fatto, avente ad oggetto una prestazione del tutto identica a quella che viene pattuita privatamente fra medico di fiducia e paziente cosicché anche al medico "strutturato" competano tutti gli obblighi tipici della fattispecie contrattuale, con estensione della disciplina tipica del rapporto di prestazione d'opera professionale.

Tale qualificazione, successivamente estesa dalla Suprema Corte ad altri ambiti di pubbliche prestazioni, ad esempio il settore scolastico (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 9346/2002), ha incontrato il pieno favore delle Sezioni Unite nel 2008, con la notissima sentenza delle Sezioni Unite n. 577 del 23 gennaio 2008 e poi con le sentenze "gemelle" del novembre del 2008 che hanno ravvisato nella fattispecie un contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo (il paziente, ma, talora, anche i suoi congiunti). Segue, successivamente, l'estensione del diritto e della legittimazione attiva al risarcimento del danno da malpractice medica a titolo contrattuale, anche a favore di terzi soggetti, quali il marito della puerpera ed ai fratelli dei neonati nati malformati, a causa di errori nella diagnostica pre-natale, in relazione alla controversa voce del diritto al risarcimento del danno da nascita di bambino non sano (cfr. Cass. civ., n. 16754/2012 e Cass. civ., n. 7269/2013).

Il regime dell'onere della prova delineato dalle Sezioni Unite e il principio della c.d. "vicinanza della prova"

Il favore giurisprudenziale concesso alla teoria del contatto sociale nel nostro ordinamento, non ha avuto un mero rilievo scientifico astratto. La trasformazione della responsabilità medica, anche in assenza di un reale vincolo di tipo contrattuale fra le parti fino a farla diventare “contrattuale”, con un vero e proprio "artifizio giuridico", ha, di fatto condotto ad invertire, o quantomeno alleggerire, l'onere della prova gravante sul paziente danneggiato.

L'onere della prova è, infatti, un criterio di decisione, regolato dall'ordinamento in base a regole che ripartiscono fra le parti il rischio o le conseguenze della mancata prova di fatti rilevanti per la decisione. In materia di obbligazioni contrattuali, com'è noto, il riparto dell'onere probatorio è stato delineato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2001 (Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001 n. 13533), secondo la quale, a norma dell'art. 1218 c.c., per il creditore è sufficiente provare il “contratto”, allegare l'inadempimento quindi provare che dalla inesatta prestazione è derivato un danno, prova a cui consegue la presunzione che il debitore sia stato inadempiente. Per liberarsi di tale presunzione, è quest'ultimo che deve, invece, dimostrare di avere adempiuto, oppure che l'inadempimento è derivato da impossibilità della prestazione dovuto a causa a lui non imputabile.

Nel caso della responsabilità sanitaria, a seguito delle Sezioni Unite del 2008 in tema di inadempimento alle prestazioni sanitarie e di “vicinanza della prova”, diversamente che in tutte le altre ipotesi di obbligazioni contrattuali, è stato ribaltato sul sanitario/debitore anche l'onere della prova, in negativo, dell'insussistenza del nesso causale fra inadempimento e danno.

Si è parlato, a tal proposito, di una "premessa fallace" delle Sezioni Unite consistente nell'avere (solo) teoricamente affermato il superamento della distinzione fra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, ma essendo stata, in realtà trasformata l'attività medica tutta in un'obbligazione di risultato, per mezzo della indebita creazione giurisprudenziale di una prova largamente presuntiva della sussistenza del nesso causale, conseguente alla mera allegazione, da parte del paziente, di un inadempimento qualificato, allegazione che, in realtà, sarebbe pure in contrasto con l'altro principio enunciato dalla medesima giurisprudenza, cioè il principio della c.d. "vicinanza" (per un maggior approfondimento, vedi D. SPERA, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella "legge Gelli-Bianco": da premesse fallaci a soluzioni inappaganti, in Ridare.it). In questa prospettiva giurisprudenziale, dunque, la posizione processuale del sanitario debitore è più gravosa e conduce alla sua condanna anche in tutti i casi in cui, quand'anche sia raggiunta in giudizio la prova della prestazione diligente, residuino margini di incertezza sulla causa effettiva delle complicanze lamentate.

Sul piano sociale, l'applicazione compatta di tale orientamento da parte della giurisprudenza di merito si è tradotta nell'aumento della spesa pubblica per risarcimenti ed ha avuto riflessi sia sul fronte della c.d. "medicina difensiva", sia sotto il profilo dell'aumento dei costi assicurativi per i sanitari, evidenze che hanno indirizzato il legislatore ad intervenire direttamente a disciplinare la responsabilità sanitaria, con la l. n. 189/2012, poi con la l. n. 24/2017, proprio nell'ottica del contenimento del fenomeno.

La rimodulazione del riparto dell'onere della prova effettuata da Cass. civ., n. 29315/17: il duplice ciclo causale

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III n. 18392/2017, chiamata a giudicare sul ricorso proposto dalla vedova di un paziente deceduto per arresto cardiaco, in seguito ad un intervento chirurgico di asportazione della prostata, cui era seguita una forte emorragia, avverso la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria, è intervenuta nuovamente in materia di onere della prova del nesso di causalità fra l'aggravamento o l'insorgenza di una nuova patologia e la condotta dei sanitari, rimodulando il riparto con formulazione della seguente massima:

«In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza».

Dunque la Suprema Corte, nell'affermare che grava sul creditore/danneggiato l'onere di provare il nesso di causalità fra l'azione o l'omissione del sanitario ed il danno di cui domanda il ristoro, riconduce, pur rispettando la qualificazione contrattuale, l'obbligazione sanitaria alla disciplina generale delle obbligazioni contrattuali e così riafferma che non solo il danno, ma anche la sua eziologia costituiscono parte del fatto costitutivo del diritto affermato che incombe all'attore di provare, per cui se, al termine dell'istruttoria, resti incerta la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano sull'attore stesso e non già sul sanitario convenuto.

Nell'affermare questo, il Collegio premette, tuttavia, di non volersi porre in conflitto con la sentenza delle Sezioni Unite n. 577/2008, la cui motivazione l'estensore ripercorre, laddove poneva, invece, a carico del sanitario, la dimostrazione che l'inadempimento non si fosse verificato, ovvero che esso non fosse stato causa del danno, ed ha così adottato la strategia di una sorta di “interpretazione autentica”, sostenendo che si tratterebbe di un mero “contrasto apparente” con il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite poiché la causa che verrebbe in rilievo non sarebbe quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell'obbligazione opposta dal danneggiante, che a sua volta si inserisce nella serie causale che ha condotto alla manifestazione del danno .

Al fine di ricondurre il riparto ai canoni classici, viene ora proposta una ripartizione che contrappone la causalità relativa all'evento (causalità materiale) e la causalità relativa al danno consequenziale (causalità giuridica), accorpate e considerate come una preliminare serie causalealla diversa serie causale concernente, in ambito contrattuale, la possibilità/impossibilità della prestazione, il cui parametro è la diligenza di cui all'art. 1176, comma 1 c.c., dall'altra.

Secondo la sentenza n. 18392/2017, in particolare, in ambito contrattuale, c'è inadempimento, se non è stata rispettata la diligenza di cui al comma 2 dell'art. 1176 c.c., c'è imputabilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al comma 1: il debitore non deve dare causa, con un comportamento negligente, all'impossibilità della prestazione, caso in cui gli si rimprovera una scelta di agire in un modo, piuttosto che in un altro che avrebbe potuto avere efficacia ai fini della prevenzione della causa che ha reso impossibile la prestazione. Tale causa non è imputabile, solo se non era prevedibile né evitabile e la colpa del debitore risiede non nell'inadempimento in sé, ma nel non avere impedito che una causa, prevedibile ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione.

Siamo dunque di fronte ad un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. L'onere della prova sul primo ciclo è a carico del creditore, quello relativo al secondo ciclo, a carico del debitore. In tale ottica, compete, dunque, al paziente la prova del nesso di causalità fra l'insorgenza/aggravamento della patologia e la condotta de sanitario, quale fatto costitutivo del diritto, solo dopo l'assolvimento di tale onere, il sanitario debitore dovrà provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione sanitaria, quale fatto estintivo del diritto, con la conseguenza che la causa incognita dell'evento dannoso resterà a carico dell'attore, quella relativa alla possibilità di adempiere, a carico del convenuto.

Se, all'esito dell'istruttoria, tali cause restino incerte, il giudice deciderà in base a questa regola dell'onere della prova, da applicarsi con criterio sequenziale, nel senso che se il danneggiato non ha provato il primo nesso, non vi sarà luogo alla disamina della condotta diligente o negligente del sanitario.

Nel caso all'esame della Corte, essendo rimasta oscura la ragione dell'arresto cardiaco, la domanda risarcitoria è stata rigettata.

Questa impostazione è stata seguita anche dalla sentenza n. 29315 del 13 settembre 2017, che, in relazione alla dedotta responsabilità anestesiologica, ha, ulteriormente, specificato che l'art. 1218 c.c. solleva il creditore dalla prova della colpa del debitore, che grava sul sanitario in base al principio della “vicinanza della prova”, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno invocato , per cui «non ha dunque ragion d'essere l'inversione dell'onere previsto dal'art. 1218 c.c. e non può che valere-quindi-il principio generale sancito dall'art. 2697 c.c. che onera l'attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa».

È stato altresì precisato che, in riferimento sia al nesso causale materiale, sia al nesso causale giuridico, può ritenersi che si tratti di elementi ugualmente “distanti” da entrambe le parti, o, al più, maggiormente “vicini” al danneggiato, per cui non vi sarebbe spazio per ipotizzare a carico dell'asserito danneggiante una ulteriore “prova liberatoria”, con la conseguenza che, se al termine dell'istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

Prime riflessioni sulla nuova interpretazione del regime dell'onere della prova: conseguenze applicative

In sede di prima applicazione della sentenza in commento, la Corte d'Appello di Venezia, chiamata a valutare la condotta chirurgica tenuta dai sanitari di una Azienda Ospedaliera, in relazione ad un intervento ortopedico di osteosintesi, a cui era seguita un'ischemia acuta all'arto inferiore operato di cui si allegava essere conseguenza dell'intrappolamento dell'arteria poplitea, con sentenza n. 2275 del 16 ottobre 2017, ha applicato l'enunciato criterio, accertando che il paziente aveva assolto all'onere di provare che l'aggravamento delle sue condizioni era stato dipendente dalla lesione di natura iatrogena, ma che, invece, l'A.S. non aveva poi dimostrato che l'inesatto adempimento era stato determinato da un impedimento imprevedibile o evitabile con l'ordinaria diligenza. Anzi, il CTU aveva evidenziato, per contro, che la suddetta complicanza, dovuta ad un'ischemia insorta a causa della compressione del nervo durante l'atto chirurgico in un paziente che non era affetto da precedente deficit neuro-vascolare, sarebbe stata evitabile, alla luce della “migliore scienza ed esperienza”.

In questo caso, stante il raggiungimento della prova circa il primo ciclo causale, l'esito processuale è stato conforme a quello che si sarebbe comunque raggiunto in applicazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite del 2008.

Se, tuttavia, si ipotizza uno scenario processuale in cui, invece, il paziente danneggiato non dimostri quale sia la causa effettiva della allegata complicanza, la sequenzialità dei passaggi logici indicati dalla S.C. nella sentenza n. 18392/2017 implica la conseguenza del rigetto della domanda, anche a prescindere dalla prova della diligenza effettiva della prestazione, ovvero il risultato esattamente opposto a quello predicato dalla precedente giurisprudenza di legittimità, che, in caso di incertezza sulla causa dell'esito peggiorativo del trattamento sanitario, poneva una vera e propria presunzione di inadempimento, non prevista, in realtà, da alcuna fonte normativa.

Il contrasto poco rilevante, per lo meno statisticamente, nei casi di causalità commissiva, in cui, solitamente, la CTU risolve la questione del “primo” nesso di causa in modo netto, pro o contro, assorbendo, nel secondo caso, automaticamente, anche il profilo della colpa in tale accertamento, è invece eclatante nelle ipotesi di causalità omissiva, per cui il giudizio controfattuale richiesto per superare la mancata esecuzione di una condotta che mai si è inserita nella realtà fenomenica, non si concluda in modo netto.

In questi casi il giudice di merito è spesso renitente ad aderire ad una soluzione che faccia assorbire de plano l'accertamento dell'inesattezza della prestazione, sul piano oggettivo e soggettivo, nel mancato accertamento del nesso causale. Anche il Tribunale di Roma, per esempio, pur non richiamando espressamente la sentenza della S.C. n. 18392/2017, che è di successiva pubblicazione, ha recentemente affermato la necessità di scindere il momento della verifica della relazione eziologica fra l'omissione e l'evento lesivo da quello dell'accertamento dell'evitabilità dell'inadempimento da parte del sanitari per effetto di una condotta diligente (cfr. Trib Roma, sez. XIII , sent. 4 aprile 2017 n. 6668), e ha sostenuto, in conformità peraltro ad un abbastanza isolato precedente risalente al 2013 (Cass. civ. n. 4792 del 2013) che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'effettiva sussistenza del nesso causale fra la prestazione medica ed il danno, tale incertezza deve ricadere sul paziente e non sul sanitario convenuto.

Questo principio è stato ora riaffermato anche dalla sentenza della terza sezione n. 29315/2017, che richiama la motivazione della pronuncia n. 18392 in esame, la quale, in effetti, giunge a sua volta a rigettare il ricorso del danneggiato, proprio in considerazione della assoluta incertezza sul nesso causale fra trattamento medico e complicanza, risoltasi così a danno del paziente.

L'apparentemente complessa soluzione giuridica ora prospettata dalla Cassazione pare dunque improntata ad una sorta di “equità processuale”, nel senso che ripartisce fra le due parti in gioco il rischio del mancato assolvimento dell'onere probatorio riportando l'inversione dell'onere probatorio tipico della qualificazione contrattuale al piano dell'adempimento/inadempimento, in conformità con i criteri generali validi per gli altri tipi di obbligazioni contrattuali e, in particolare delle obbligazioni da prestazioni d'opera di mezzi, quale tradizionalmente, è sempre stata configurata la prestazione sanitaria, fatta eccezione per taluni casi specifici (ad esempio il settore della chirurgia estetica).

In conclusione

In conclusione, verificate le possibili conseguenze, sul piano processuale, dell'orientamento in tema di “duplice ciclo causale”, che pare condurre, ineluttabilmente a risultati opposti a quelli tipici degli scenari del decennio successivo al 2008, c'è da chiedersi, allora, se la c.d. “reinterpretazione” della sentenza n. 577/2008 offerta dalla sentenza della Cassazione del 2017 possa dirsi effettivamente coerente con le motivazioni di tale pronuncia storica e con la portata dei suoi enunciati o se non costituisca, piuttosto, un elegante espediente per non provocare un vero e proprio contrasto della giurisprudenza di legittimità sul punto, che, tuttavia, a distanza di quasi dieci anni, mutati gli scenari economici ed assicurativi ed intervenuto direttamente il legislatore sul piano dell'intensificazione della prevenzione della malpractice, delle assicurazioni sanitarie e della responsabilità medica, sarebbe, forse, opportuno, in vista di un nuovo intervento delle Sezioni Unite.

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