La mafia imprenditrice: i rapporti tra associazione mafiosa, usura e riciclaggio. La confisca dei beni

Ferdinando Brizzi
09 Maggio 2018

La sentenza in commento prospetta uno scenario inedito: la moderna criminalità organizzata ormai si fa “banca”, tanto da erogare il credito ricorrendo al riciclaggio dei proventi illeciti delle organizzazioni operanti al Sud. Questi vengono “ripuliti” e poi concessi in prestito usurario. I “rientri” dei capitali vengono gestiti, laddove si renda necessario, con i tradizionali metodi mafiosi ...
Abstract

Pino Arlacchi, nell'introduzione a La Mafia Imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell'Inferno, Milano (2007), scriveva «Questa edizione appare a 24 anni di distanza dalla prima pubblicazione del volume e a oltre 30 dai fatti analizzati. Protagonista dello studio era la mafia calabrese, la 'ndrangheta degli anni Settanta del secolo passato. Che cosa è cambiato da allora, e che senso ha riproporre oggi l'argomento? La prima risposta che mi viene da dare è che nulla di sostanziale è mutato, se non l'espansione del potere criminale nell'economia e nella politica della Calabria, come previsto ma non auspicato dallo studio originario. Malauguratamente, perciò, questo volume non è invecchiato. Esso è interamente attuale, e potrebbe essere ripubblicato anche senza questa introduzione e senza la lunga «seconda puntata» che ho aggiunto in coda al testo originale per raccontare le peripezie del concetto e del suo autore dopo il 1983».

A distanza di undici anni si può dire che non solo nulla è cambiato in Calabria, ma che attualmente l'espansione del potere criminale nell'economia si è trasferito anche al Nord.

Infatti una recente sentenza della Corte di cassazione, Sez. V, sentenza n. 3019 del 23 gennaio 2018, dimostra come le parole di Arlacchi suonino “profetiche”.

La sentenza della Cassazione penale, n. 3019/2018

La citata sentenza tocca tutta una serie di questioni attualissime e concernenti la mafia imprenditrice.

In primo luogo delinea gli elementi caratterizzanti un'organizzazione mafiosa operante al Nord, specializzata in reati di natura “imprenditoriale”.

Tratta poi la questione dei rapporti tra riciclaggio e usura, dando risposta positiva al quesito può la persona offesa del reato di usura porre in essere condotte di riciclaggio?.

Ancora, è stato esaminato il tema del concorso tra i reati di cui agli artt. 416-bis e 648-bisc.p.: argomento ad esso strettamente connesso è quello concernente l'aggravante di cui all'art. 416-bis, comma 6, c.p.

Logica ricaduta giuridica dei reati in constatazione è stata la questione della c.d. confisca allargata, di recente interessata dalla modifica apportata con d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, in vigore dal 6 aprile 2018 che abrogato quasi integralmente l'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (di cui attualmente restano in vigore i soli commi 4-ter e 4-quater): la principale fonte normativa della confisca “allargata” è ora l'art. 240-bis c.p., inserito nella parte generale del codice tra le norme dedicate alle misure di sicurezza patrimoniali.

I giudici di legittimità, con la sentenza in commento, hanno confermato la sentenza 19 luglio 2016, con cui la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato quella del giudice dell'udienza preliminare della stessa sede in data 26 giugno 2015: numerosi imputati sono stati dichiarati responsabili di vari reati, tra i quali quello di cui all'art. 416-bis c.p.

L'associazione mafiosa operante al Nord: la natura imprenditoriale

È stato confermato, tra l'altro, l'accertamento dell'esistenza di un'associazione a carattere imprenditoriale, avente sede decisionale a Seveso, operante con le caratteristiche tipiche dell'organizzazione di tipo mafioso, il cui programma criminoso consisteva nel porre in essere una serie indeterminata di delitti di usura, esercizio abusivo del credito, riciclaggio, estorsione e intestazione fittizia dei beni, allo scopo di accumulare ingenti capitali di origine illecita, poi investiti in vari settori dell'economia delle aree della Lombardia, in particolare della Brianza, e di altre zone. Ciò sulla base della già accertata presenza della ‘ndrangheta in Lombardia, con la sentenza, passata in giudicato, che ha definito l'operazione c.d. Infinito, secondo la quale nella regione operano una serie di “locali”, tra le quali la “locale” di Desio, con la quale era collegato il sodalizio capeggiato da uno degli imputati, tutte coordinate da un organo denominato la “Lombardia”, con una struttura di tipo federativo.

Secondo l'ipotesi accusatoria, condivisa dai giudici di merito, l'associazione mafiosa in trattazione aveva operato dapprima ponendo in essere prestiti di natura usuraria, che le avevano poi consentito di acquisire realtà economiche e aziendali, facendo ricorso in alcuni casi a condotte violente e minacciose nei confronti dei debitori usurati, anche se nella maggior parte dei casi l'associazione si era avvalsa della spendita del proprio nome e del proprio “prestigio”.

Un'altra modalità operativa era stata quella, posta in essere come una vera banca clandestina, di trattare con alcuni imprenditori, la cui sottoposizione a monitoraggio ne aveva evidenziato la vicinanza a esponenti di spicco della ‘ndrangheta desiana, una serie di prestazioni finanziarie di natura abusiva e illecita, quali il “cambio assegni” (vendita agli imprenditori, che volevano procurarsi “fondi neri” sottratti ai bilanci delle loro società, di somme di denaro contante con un certo costo: operazioni in molti casi giustificate attraverso l'emissione di fatture false da parte di società di copertura, facenti capo all'associazione).

Il sodalizio è stato definito dal giudice di primo grado come «un'organizzazione mafiosa a vocazione imprenditoriale che si è infiltrata nella realtà economica della Brianza, sia subentrando nella gestione di fatto di società i cui titolari erano divenuti vittime di usure ed estorsioni ed ottenendo in pagamento dei debiti contratti il trasferimento di beni immobili schermati nella titolarità da società intestate a terzi, sia riciclando somme di denaro provenienti da più canali, in larga parte provenienti da finanziatori calabresi, così ripulendoli ed immettendo sul mercato una liquidità di denaro che veniva poi concesso con modalità di credito che solo soggetti istituzionali possono erogare, sia monetizzando somme di denaro da consegnare in contanti per i più svariati fini, anche a soggetti che “pagavano” questo denaro a tassi usurai».

Secondo la sentenza in commento, ciò soddisfa pienamente il requisito, richiesto da Cass. pen., 5 gennaio 2012, n. 12251, della particolare dimensione dell'attività economica, da identificare non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. E che non si trattasse del reimpiego in singole operazioni, è stato ritenuto confermato dai reati-fine, che dimostrano come l'inserimento nella realtà imprenditoriale in cui gli associati si trovavano a operare fosse una modalità operativa sistematica del gruppo in esame, che usava i cospicui proventi della propria attività illecita non certo per compiere isolate operazioni commerciali, bensì per impossessarsi, traendo il maggior profitto possibile, delle attività economiche gestite dalle vittime, con il ricorso a società di copertura nella disponibilità effettiva dell'associazione avente sede decisionale a Seveso; il che è in modo esplicito rappresentato dalla frase intercettata dall'organo di vertice del sodalizio secondo cui lui e i complici dovevano “essere come i polipi, si devono agganciare dappertutto, i tentacoli devono arrivare dappertutto, ci sono le condizioni per poterlo fare”.

Differenze tra associazione “tradizionale” e associazione “moderna

È interessante notare che sono gli stessi imputati, nelle conversazioni intercettate, a qualificare la loro attività come diversa da quella mafiosa “classica”, ovvero “fare estorsioni, ... mettere bombe, sparare .. fare ... dire, minacciare”, e quella da loro posta in essere dedita alla commissione di altri reati, quali ad esempio “bancarotta ...una triangolazione di fatture”. Uno degli imputati domanda all'altro “ma che c'entra la ‘ndrangheta con te scusa? ... tu fai fatture ... che fai, IVA ... che fai ... che c'entra la 'ndrangheta lì?”. Secondo gli imputati “quello che facciamo noi ... non è ... quelli là non lo sanno fare, ... non è che qua ci vuole chissà quale intelligenza o quale cosa ...però non hanno neanche la cultura per ...”. I giudici di legittimità osservano che in tal modo l'imputato, con un guizzo di malcelato orgoglio, qualificava in sostanza la sua non già come di diversa natura, ma piuttosto come più evoluta, anche se non aliena dall'utilizzo di metodi anche violenti, come dimostrato da alcuni reati fine.

E infatti la Cassazione ha affermato che tale sodalizio era espressione della ‘ndrangheta calabrese, circostanza confermata dalla sua funzione di “lavanderia” (o “lavatrice”) dei finanziamenti provenienti dal Meridione (luogo da dove giungevano persone che dovevano poi ripartire con il denaro versato dalle vittime di usura), ai quali il “capo” aveva potuto largamente attingere anche dopo il sequestro preventivo dei suoi beni, nel 2010, per crearsi nuovamente ingenti risorse raggiungendo una posizione addirittura migliore di quella precedente l'applicazione della misura reale.

Nella strategia del leader della consorteria, rappresentante di una mafiosità che operava in campo economico-finanziario, quindi più moderna di quella tradizionale, era preferibile evitare il plateale ricorso alla violenza per prevenire una possibile accusa di 416-bis c.p. (possibilità dunque a lui stesso ben presente) in luogo di una per associazione per delinquere semplice.

Nonostante ciò, tale consorteria presentava i tratti tipici dell'associazione mafiosa: la forza intimidatrice dell'organizzazione è stata ritenuta esteriorizzata, nella sentenza oggetto di ricorso, sia attraverso il carattere violento di alcune azioni verso debitori inadempienti, sia attraverso la spendita della fama del gruppo e del prestigio personale del suo capo, riconosciutogli nell'ambito locale avendo anche fattoda paciere in controversie e “salvato la vita” ad alcuni debitori, sì da aver determinato una situazione di assoggettamento del territorio della Brianza e di omertà degli imprenditori locali, tale da distoglierli dall'effettuare denunce, il che non è escluso dal fatto che l'omessa denuncia da parte di – solo – alcune persone offese fosse stata determinata anche dal loro coinvolgimento in affari poco puliti, né dalla circostanza che le PP.OO. si fossero poi costituite parte civile e avessero accusato gli imputati, essendo ciò avvenuto quando, scoperta e smantellata la consorteria, una condotta omertosa non aveva più ragion d'essere.

La contestazione di riciclaggio e i rapporti con l'usura

Uno dei motivi di ricorso ha investito la contestazione di riciclaggio, aggravato ex art. 7 legge 203/1991 a carico di uno degli imputati. Secondo la prospettazione accusatoria, l'imputato avrebbe riciclato il denaro oggetto di un prestito usurario nei suoi confronti, di cui conosceva la provenienza dall'associazione mafiosa, restituendolo tramite la cessione ai membri del sodalizio di una sua società S.R.L. Il ricorrente ha contestato in primo luogo la possibilità per la P.O. del reato di usura di essere soggetto attivo di quello di riciclaggio richiamando giurisprudenza di legittimità secondo la quale lo stato di bisogno dell'usurato escluderebbe l'ingiustizia del profitto e quindi il dolo del riciclaggio, ravvisabile solo se l'offeso dall'usura reinvesta a fini speculativi il denaro ricevuto, circostanza non verificatasi nel caso in esame in cui l'imputato aveva tentato il salvataggio della propria situazione patrimoniale (Integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, avendo ricevuto denaro a interesse usurario, lo reimpieghi mediante versamento su conti correnti bancari intestati a proprio nome, con l'intento di mascherare l'effettiva provenienza dello stesso e con la consapevolezza che in tal modo sarebbe stato possibile reimmetterlo sul mercato per compiere attività finanziaria o nel settore immobiliare, in modo da rendere più difficile l'accertamento della sua provenienza: Cass. pen., Sez. II, 8 maggio 2013, n. 28856, Papale, che richiama Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 2007, n. 25828, Sorrentino: la persona offesa del delitto di usura non può rispondere, in concorso con l'erogatore del prestito usurario, di ricettazione del denaro ricevuto, per l'impossibilità di individuare nella sua condotta il perseguimento di un ingiusto profitto, elemento finalistico del dolo di ricettazione). Ancora, il ricorrente sosteneva che sarebbe stato configurabile il suo concorso nel reato presupposto (l'usura) quale P.O. dello stesso, con conseguente operatività della clausola di riserva prevista nella parte iniziale della norma incriminatrice. Non sarebbe inoltre rilevante ad integrare l'intento dissimulatorio la circostanza, valorizzata a tal fine nella sentenza impugnata, della restituzione del prestito tramite la cessione della società, sia perché questa era avvenuta a garanzia, venendo poi restituita al cedente come da visura camerale in atti, sia perché l'imputato aveva continuato fino al dicembre 2012 a corrispondere capitali ed interessi usurari alle società dei prevenuti.

Il ricorso è stato rigettato.

La Cassazione ha ritenuto che la corte territoriale abbia correttamente ritenuto compatibile la veste di persona offesa del reato di usura con quella di soggetto attivo del reato di riciclaggio, argomentando dal chiaro principio riportato nella massima della sentenza Papale (secondo la quale il delitto di riciclaggio è integrato dalla condotta di chi, avendo ricevuto denaro ad interesse usurario, lo reimpieghi mediante versamento su conti correnti bancari intestati a proprio nome, con l'intento di mascherare l'effettiva provenienza dello stesso e con la consapevolezza che in tal modo sarebbe stato possibile reimmetterlo sul mercato per compiere attività finanziaria o nel settore immobiliare, in modo da rendere più difficile l'accertamento della sua provenienza). Il principio non è inficiato dalle ulteriori considerazioni contenute nella sentenza Papale in ordine alla impossibilità di configurare il reato laddove la P.O. dell'usura, avendo agito in stato di bisogno, non abbia perseguito il fine di ingiusto profitto. Invero il riciclaggio non richiede il dolo specifico ma quello generico anche in forma di dolo eventuale, come insegna la giurisprudenza di legittimità (L'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato dal dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di ostacolare l'accertamento della provenienza delittuosa dei beni e nella consapevolezza di tale provenienza: Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2017, n. 25924, Bassanello), mentre lo richiede il reato di ricettazione cui si riferisce Sez. II, 13 marzo 2007, n. 25828, Sorrentino (La persona offesa del delitto di usura non può rispondere, in concorso con l'erogatore del prestito usurario, di ricettazione del denaro ricevuto, per l'impossibilità di individuare nella sua condotta il perseguimento di un ingiusto profitto, elemento finalistico del dolo di ricettazione), richiamata nella sentenza Papale, richiamo che potrebbe aver determinato l'equivoco in cui, secondo la sentenza in commento, il ricorrente sembra essere caduto

Il concorso tra il reato associativo e il riciclaggio

Quanto al riconoscimento del concorso tra i reati di cui agli artt. 416-bis e 648-bis c.p., i giudici della Cassazione hanno ribadito che non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis (o 648-ter c.p.) e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni (Sez. unite, 27 febbraio 2014, n. 25191, Iavarazzo) ma in motivazione si trova precisato che può configurarsi, invece, il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale. Di tale principio ha fatto applicazione la corte territoriale in quanto: l'imputato non è stato ritenuto responsabile di alcun reato fine dell'associazione.

Oltre all'associazione mafiosa e al riciclaggio è stata ritenuta sussistente anche l'aggravante di cui all'art. 416-bis, comma 6, c.p.: decisione ritenuta corretta nella sentenza in commento in quanto non è stato ritenuto pertinente il rilievo del ricorrente circa la necessarietà, a tal fine, della prova della consapevolezza in capo a lui della provenienza del finanziamento concessogli da attività illecite, profilo attinente all'elemento psicologico del reato di riciclaggio, peraltro già sopra ritenuto sussistente. La Corte milanese ha invece fatto corretta applicazione del principio secondo cui l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, comma 6, c.p. ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, sicché essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa (Sez. unite, n. 25191/2014, Iavarazzo).

La confisca

La lunga ed articolata sentenza non poteva non prendere in esame anche le tematiche connesse alla confisca “allargata”.

La Corte di cassazione ha ribadito che in tema di confisca dei beni patrimoniali prevista dall'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 8 luglio 1992, n. 356 é irrilevante il requisito della pertinenzialità tra bene da confiscare e reato, sicché detta confisca non é esclusa, oltre che per il fatto che i beni siano stati acquisiti in epoca anteriore al reato per cui é intervenuta condanna, anche laddove per quegli stessi fatti sia intervenuta sentenza di assoluzione (Sez. V, 21 febbraio 2013, n. 19358, Rao; Sez. VI, 22 novembre 2011, n. 22020, Notarangelo).

In questa sede occorre rilevare come la sentenza che si commenta pare discostarsi, però, dalla più recente elaborazione giurisprudenziale, sia di legittimità che costituzionale.

Si fa riferimento a Corte cost., sent. 21 febbraio 2018, n. 33 secondo cui la presunzione di origine illecita dei beni del condannato insorge non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso: sproporzione che – secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell'acquisizione dei singoli beni.

La presunzione, d'altra parte, è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la giustificazione della provenienza dei cespiti. Per giurisprudenza costante – almeno a partire dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 920 del 2004 – non si tratta neppure di una vera e propria inversione dell'onere della prova, ma di un semplice onere di allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni (per la valorizzazione di analogo elemento, al fine di escludere l'illegittimità costituzionale della presunzione di destinazione illecita di determinati oggetti da parte del condannato per delitti contro il patrimonio – tra cui anche la ricettazione – si veda già la sentenza n. 225 del 2008).

Rilevano i giudici delle leggi, inoltre, che secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità, emerso già prima dell'intervento delle sezioni unite (Cass. pen., Sez. I, , 5 febbraio 2001, n. 11049; Cass. pen., Sez. V, 23 aprile 1998, n. 2469) e ribadito anche in recenti pronunce (Cass. pen., Sez. I, 16 aprile 2014, n. 41100; Cass. pen., Sez. IV, 7 maggio 2013, n. 35707; Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 2012, n. 2634), la presunzione di illegittima acquisizione dei beni oggetto della misura resta circoscritta, comunque sia, in un ambito di cosiddetta «ragionevolezza temporale». Il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare, cioè, talmente lontano dall'epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna. Si tratta di una delimitazione temporale corrispondente, mutatis mutandis, a quella che le stesse sezioni unite hanno ritenuto operante con riferimento alla misura affine della confisca di prevenzione antimafia, già prevista dall'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) e attualmente disciplinata dall'art. 24 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), anch'essa imperniata sull'elemento della sproporzione tra redditi e disponibilità del soggetto: misura che si è ritenuta trovare un limite temporale nella stessa pericolosità sociale del soggetto, presupposto indefettibile per la sua applicazione (Cass. pen., Sezioni unite, 26 giugno 2014, n. 4880).

Prosegue la Consulta ricordando che la tesi della “ragionevolezza temporale” risponde, in effetti, all'esigenza di evitare un'abnorme dilatazione della sfera di operatività dell'istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all'intiera vita del condannato. Risultato che rischierebbe di rendere particolarmente problematico l'assolvimento dell'onere dell'interessato di giustificare la provenienza dei beni (ancorché inteso come di semplice allegazione), il quale tanto più si complica quanto più è retrodatato l'acquisto del bene da confiscare.

Concludono i giudici costituzionali affermando che, in una simile prospettiva, la fascia di “ragionevolezza temporale”, entro la quale la presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria.

Gli argomenti spesi dalla Corte costituzionale dimostrano come la sentenza in commento, 3019/2018, abbia omesso di considerare questi recenti approdi giurisprudenziali per tornare ad una applicazione della confisca “allargata” sganciata dalla condivisibile nozione di “ragionevolezza” temporale.

In conclusione

La sentenza in commento prospetta uno scenario inedito: la moderna criminalità organizzata ormai si fa “banca”, tanto da erogare il credito ricorrendo al riciclaggio dei proventi illeciti delle organizzazioni operanti al Sud.

Questi vengono “ripuliti” e poi concessi in prestito usurario.

I “rientri” dei capitali vengono gestiti, laddove si renda necessario, con i tradizionali metodi mafiosi.

Lo stesso Arlacchi difficilmente avrebbe potuto pensare che una sentenza potesse così “plasticamente” dimostrare la fondatezza della sua principale tesi, quella della “mafia imprenditrice”, tanto che ormai, in giurisprudenza, viene sempre più spesso evocato il concetto di “impresa mafia”, ovvero quella che si consolida e cresce imprenditorialmente attraverso il contributo dell'associazione mafiosa cui aderisce l'imprenditore stesso che, in un rapporto di cointeressenza, si avvale della forza del gruppo stesso, che diviene motore dell'attività commerciale (così da ultimo Cass. 12 aprile 2018, n. 16340, in tema di sequestro finalizzato alla confisca ex 416-bis, comma 7, c.p.).

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