La tutela del lavoratore diversamente abile

10 Maggio 2018

In materia di diritto del lavoro, i principi di parità di trattamento e di non discriminazione dei lavoratori affetti da disabilità costituiscono canoni secondo i quali il raggiungimento del livello occupazionale non è una mera rappresentazione formale di un dato statistico, ma, coniugandosi con un elevato grado di protezione sociale, produce rilevanti benefici sostanziali sullo sviluppo della personalità e, a livello collettivo, dell'inderogabile dovere di solidarietà, come sancito dall'art. 2 Cost.
Inquadramento

In materia di diritto del lavoro e, più precisamente, in tema di diritto al lavoro (art. 4 Cost.) di coloro che sono affetti da disabilità, i principi di parità di trattamento e di non discriminazione, quali valori consustanziali di una società democratica, costituiscono i canoni seguendo i quali il raggiungimento del livello occupazionale non configura la rappresentazione formale di un mero dato statistico ma, coniugandosi con un elevato grado di protezione sociale, produce rilevanti benefici sostanziali sullo sviluppo della personalità determinando così, a livello collettivo, l'adempimento, costituzionalmente richiesto, del dovere inderogabile di solidarietà scolpito nell'art. 2 Cost.

Si tratta di una questione particolarmente delicata che incide in modo significativo su un aspetto fondamentale della vita, quello in cui il diritto alla salute (art. 32 Cost.) si intreccia con il diritto a realizzarsi professionalmente in quella particolare formazione sociale che è il contesto lavorativo dove si “svolge la personalità” umana (art. 2 Cost.).

Diverse sono le fonti legislative nazionali e sovranazionali che mirano ad offrire la garanzia di una reale riduzione delle forme di discriminazione e di disuguaglianza sociale, predisponendo una tutela concreta ed efficace compatibile con il principio di dignità umana, basti pensare, in primo luogo, alla Convenzione delle Nazioni Unite che definisce la disabilità quale concetto in evoluzione e risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.

Il difficile bilanciamento tra la tutela della salute del lavoratore e le ragioni dell'impresa

Al fine di delineare il quadro normativo e giurisprudenziale in tema di tutela dei lavoratori diversamente abili, va preliminarmente rilevato che il diritto all'integrità fisica dei lavoratori è costituzionalmente previsto dagli artt. 32 e 41, dal combinato disposto dei quali si evince che la salute, diritto fondamentale della persona, assume un ruolo rilevante quale interesse della collettività, configurandosi altresì come argine al libero esercizio dell'iniziativa economica privata.

Invero, ai sensi dall'art. 2087 c.c., l'imprenditore è tenuto ad adottare le misure necessarie atte a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Sul punto la Suprema Corte si è espressa in ordine ai limiti della responsabilità datoriale dettata dall'art. 2087 c.c., precisando che l'obbligo di prevenzione previsto dalla norma non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all'esperienza ed alla tecnica (Cass. civ. sez. VI, 27 febbraio 2017, n. 4970).

D'altra parte, sembra opportuno segnalare che se da un lato l'art. 9 della L. n. 300/1970 sancisce il diritto dei lavoratori, mediante loro rappresentanze, di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione delle misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica, dall'altro, l'art. 2 della L. n. 68/1999 si occupa di definire la nozione di "collocamento mirato" dei disabili, intendendo con tale espressione “la serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.

La tutela della disabilità

All'art. 63 del D.Lgs. n. 81/2008 è affidata la previsione concernente la tutela dei lavoratori disabili nei luoghi ove si svolge l'attività lavorativa, con la precisazione, expressis verbis, che i luoghi di lavoro devono essere strutturati tenendo conto, se del caso, della presenza di lavoratori disabili. Si tratta di una previsione la cui ermeneusi sembra assumere una portata molto ampia, giungendo a ricomprendere non solo la tematica delle barriere architettoniche, quale ostacolo materiale ed ictu oculi evidente, ma altresì la quaestio iuris, apparentemente meno percepibile, poiché interna, che si situa sul versante dell'organizzazione del lavoro.

Come supra osservato, va rilevato che il legislatore si era già occupato della materia con la Legge n. 68/1999Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, e successive modificazioni, la quale risulta funzionalmente orientata a promuovere l'inserimento e l'integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. Deve osservarsi che tale disciplina trova applicazione nei confronti:

a) delle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dei portatori di handicap intellettivo, che comportano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti approvata, ai sensi dell'art. 2, D.Lgs. n. 509/1988, dal Ministero della Sanità sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata dalla Organizzazione mondiale della sanità; nonché delle persone che si trovano nelle condizioni di cui all'art. 1, comma 1, della L. n. 222/1984;

b) delle persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, accertata dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (INAIL) in base alle disposizioni vigenti;

c) delle persone non vedenti o sordomute, di cui alle Leggi nn. 382/1970 e 381/1970, e ss. mm. ii.;

d) delle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all'ottava categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con D.P.R. n. 915/1978, e ss. mm. ii.

La legge stabilisce quindi che i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie di cui all'art. 1, prevedendo inoltre che, ove sopraggiungano un aggravamento delle condizioni di salute o significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile possa chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute.

Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere l'accertamento delle condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, sia possibile continuare ad impiegarlo presso l'azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che, sulla base dei criteri definiti dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 1, co. 4, sia incompatibile con la prosecuzione dell'attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell'organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persista. Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Va precisato che gli accertamenti sono effettuati dalla Commissione di cui all'art. 4, L. n. 104/1992, integrata a norma dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 1, comma 4, della legge in esame, che valuta, sentito anche l'organismo di cui all'art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 469/1997, come modificato dall'art. 6 della presente legge. In proposito la normativa stabilisce che la richiesta di accertamento ed il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro, prevedendo che lo stesso possa essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta Commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda.

L'obbligo di "adattamento ragionevole" dei luoghi di lavoro e la nozione di handicap nella prospettiva della Corte di Giustizia

Al fine di affrontare compiutamente il tema in esame deve osservarsi che il legislatore con il D.L. n. 76/2013, convertito dalla L. n. 99/2013, ha inserito nell'art. 3, D.Lgs. n. 216/2003, il comma 3-bis a norma del quale i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.

L'introduzione della disposizione, costituendo il recepimento della Direttiva 2000/78/CE, è volta a rispettare il principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, e quindi l'adempimento dell'obbligo comunitario di cui all'art. 5 della Direttiva stessa.

Sul punto giova osservare che l'espressione "accomodamenti ragionevoli" concerne, ai sensi dell'art. 2 della Convenzione delle Nazioni Unite, le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia la necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.

La Direttiva 2000/78/CE – che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - prevede, alla luce del combinato disposto dell'art. 5 e dei considerando di cui agli artt. 20 e 21, il contenuto dell'obbligo gravante su tutti i datori di lavoro, vale a dire l'adozione di misure appropriate, ossia misure pratiche ed efficaci destinate all'adeguamento del luogo di lavoro in funzione dell'handicap.

In proposito si fa riferimento, a titolo esemplificativo, alla sistemazione dei locali o all'adattamento delle attrezzature, o, ancora, all'adeguamento dei ritmi di lavoro, alla ripartizione dei compiti o all'ipotesi di fornire mezzi di formazione o di inquadramento, con la precisazione che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni” (CGUE 4 luglio 2013, causa C-312/11).

Dunque, il datore di lavoro ha l'obbligo di adattare attrezzature e ritmi lavorativi nonché la distribuzione delle mansioni onde consentire, nella propria organizzazione d'impresa, la prosecuzione dell'attività lavorativa al dipendente affetto da handicap, assicurandogli le condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Sul punto deve però segnalarsi che la questione risulta particolarmente delicata data la complessità di stabilire quando un accomodamento possa “ragionevolmente” configurarsi, senza determinare un eccessivo aggravio per il datore di lavoro in termini economici o di mutamenti organizzativi aziendali così rilevanti da incidere significativamente sugli altri dipendenti.

In proposito si è pronunciata la Corte di Giustizia (CGUE 4 luglio 2013, causa C-312/11) condannando l'Italia per non aver correttamente trasposto l'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE in materia di provvedimenti da adottarsi da parte di tutti i datori di lavoro in favore dei lavoratori disabili.

Invero, la Corte, dopo aver esaminato le varie misure adottate dall'Italia per l'inserimento professionale dei disabili, ha concluso affermando che tali misure, anche se valutate in un'ottica complessiva, non hanno imposto a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, concernenti i diversi aspetti delle condizioni di lavoro.

Nella medesima pronuncia la Corte di Giustizia ha chiarito inoltre che, alla luce della Convenzione dell'ONU, la nozione di 'handicap' va intesa nel senso che si riferisce ad una “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”.

Pertanto, l'espressione 'disabile' di cui all'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione di cui supra.

Al fine di conseguire l'obiettivo della Direttiva, la Corte sostiene che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per tutti i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, vale a dire provvedimenti efficaci e pratici, come ad esempio la sistemazione dei locali, l'adattamento delle attrezzature, l'adeguamento dei ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, senza però imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato, non essendo sufficiente la predisposizione, da parte degli Stati, di misure pubbliche di incentivo e sostegno.

In altre parole, deve trattarsi di provvedimenti che riguardano i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro, onde consentire a tali persone non solo di accedere al lavoro, ma anche di svolgerlo, nonché di avere una promozione o di ricevere una formazione.

La sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e l'obbligo di repechage

Dopo aver affrontato l'inquadramento normativo della questione sul versante nazionale e sovranazionale ed esaminato l'orientamento comunitario formatosi sul punto, sembra opportuno procedere a vagliare la problematicità delle ricadute pratiche sottese all'ipotesi di inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni alle quali è adibito, in seguito al sopravvenuto stato di infermità fisica e/o psichica.

Preme osservare che in passato la giurisprudenza riteneva che alla sopravvenuta impossibilità fisica o psichica non potesse ricollegarsi il diritto ad ottenere l'assegnazione a nuove e diverse mansioni compatibili con il nuovo status di minorata capacità, fermo restando l'ipotesi in cui una tale disposizione fosse stata prevista espressamente dalla legge o dal contratto, essendo così considerato legittimo il recesso del datore di lavoro, senza che sullo stesso gravasse l'onere della prova che nell'azienda vi fossero altri posti con mansioni adeguate alle condizioni del lavoratore (Cass. sez. lav., 18 marzo 1995, n. 3174).

Sul punto parte della dottrina (P. Scognamiglio) ha evidenziato che il tradizionale orientamento giurisprudenziale risultava giustificato alla luce del fatto che il contratto individuale di lavoro rileva quale contratto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna delle parti rinviene la sua causa nell'altra, potendo trovare applicazione i principi di cui agli artt. 1256 e 1463 c.c.

Successivamente le Sezioni Unite, accogliendo un orientamento allora minoritario, hanno invece statuito in ordine all'applicazione dell'obbligo datoriale di repêchage (Cass. Sez. Un., 7 agosto 1998, n. 7755), ricomprendendo la sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore nell'alveo della disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, L. 1966, n. 604/1966, sebbene nella disposizione non ve ne fosse espressa menzione.

Consolidatosi tale indirizzo, la Suprema Corte ha precisato che “l'esercizio dell'iniziativa economica privata, garantita dall'art. 41 Cost., non è sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, ma deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro (artt. 4, 35, 36 Cost.) ed alla salute (art. 32 Cost., art. 2087 c.c.), con la conseguenza che non viola l'art. 41 cit. il giudice che dichiara illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, senza che il datore di lavoro abbia accertato se il lavoratore potesse essere addetto a mansioni diverse e di pari livello, evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organigramma aziendale” (Cass. sez. lav., 13 ottobre 2009, n. 21710).

Deve inoltre evidenziarsi che in ordine alla prova della non collocabilità del lavoratore, e quindi circa la sussistenza dell'obbligo di valutare il reimpiego da parte del datore di lavoro, si esprime parte della dottrina (M. Meucci, G. Loy), e che, nello stesso senso, la giurisprudenza di merito osserva che se l'ubi consistam del licenziamento è rinvenibile “nella inidoneità permanente del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per sopravvenuta infermità occorre anche fornire la prova dell'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, utilizzabili dall'impresa secondo l'assetto organizzativo di essa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore” (Trib. Milano 24 gennaio 2012).

Da ultimo sembra opportuno osservare che la Suprema Corte ha ribadito che in caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, ricade sul datore di lavoro l'onere della prova che non gli è possibile impiegarlo in mansioni equivalenti in un ambiente compatibile con il suo stato di salute, precisando che sul medesimo datore incombe altresì l'onere di contrastare eventuali allegazioni del dipendente, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell'accertamento di un possibile repêchage in ordine all'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli possa utilmente essere ricollocato (Cass. sez.lav., 10 marzo 2015, n. 4757).

Ne consegue che solo nell'ipotesi in cui la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, la Suprema Corte ha ravvisato una causa di risoluzione del rapporto che non ne consente la prosecuzione, neppure provvisoria ai sensi dell'art. 2119 c.c., ed esclusa l'applicabilità dell'istituto del preavviso.

Particolare in proposito risulta l'ipotesi del rapporto di lavoro dei piloti, rispetto al quale in caso di inidoneità permanente al volo resta preclusa al datore di lavoro la possibilità di disporre l'esecuzione di una prestazione lavorativa diversa – prevedendo il contratto collettivo di settore (art. 11), a favore del pilota dichiarato inidoneo, solamente un diritto di preferenza per le “nuove” assunzioni del personale di terra – con conseguente immediata risoluzione del rapporto di lavoro senza attribuzione, in mancanza di un diverso riconoscimento nel contratto collettivo, dell'indennità di preavviso (Cass. sez. lav., 29 marzo 2010, n. 7531).

Osservazioni

In conclusione sembra opportuno precisare che la questione in esame risulta ancora in divenire, stante la complessità nell'individuare con maggior precisione i contorni, piuttosto vaghi, delle modifiche e degli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo e, correlativamente, i margini dell'obbligo di repêchage, poiché, se da un lato è vero che il datore di lavoro deve adeguare l'organizzazione di impresa alle esigenze lavorative dei dipendenti disabili, d'altra parte, è anche vero che ciò deve avvenire nei limiti di uno sforzo non sproporzionato.

La difficoltà consiste allora nel definire quale sia l'estensione concreta della 'proporzione' e quali i relativi limiti, con la conseguenza che potrebbe quindi dirsi giustificato il motivo oggettivo di licenziamento del lavoratore portatore di handicap solo a seguito di verifiche in ordine all'impossibilità di apportare le modifiche delle attrezzature, dei turni o della distribuzione della mansioni, senza determinare un aggravio sproporzionato in termini di costi.

Ne deriva che, gravando sul datore di lavoro l'onere della prova circa l'impossibilità di adottare i ragionevoli accomodamenti, in carenza della stessa, il motivo oggettivo non potrebbe ritenersi sussistente con la conseguenza di determinare l'annullamento del provvedimento espulsivo e l'applicazione della tutela reintegratoria, nonché il risarcimento a favore del dipendente affetto da handicap ed illegittimamente licenziato.

Riferimenti

Normativa

  • Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
  • D.Lgs. n. 216/2013 "Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro";
  • Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006;
  • Legge n. 18/2009 "Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità";
  • Sentenza della Corte di Giustizia Europea, 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11;
  • Sentenza della Corte di Giustizia Europea, 4 luglio 2013 - Causa C-312/11, Commissione Europea contro Repubblica Italiana;
  • Decreto Legge n. 76/2013 "Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti" convertito con modificazioni dalla Legge n. 99/2013.
Guida all'approfondimento

  • S. Bruzzone, L'inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni, Bollettino ADAPT, 17 maggio 2016.
  • P. Scognamiglio, “Sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e mutamento delle mansioni”, in Mass. giur. Lav. 1998, 438.
  • M. Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 36/2015.
  • S. Fernández Martínez, Jobs Act e malattia: verso un diritto per il mercato del lavoro?, Bollettino ADAPT, 26 ottobre 2015.
  • S. Fernández Martínez, Una proposta per modificare la disciplina del periodo di comporto e garantire la conservazione del posto di lavoro dei malati cronici, Bollettino ADAPT, 14 dicembre 2015.
  • G. Loy, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, 1993, p. 309.
  • M. Meucci, Il diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall'art. 2103 all'impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità psicofisica, RCDL, 1996, pp. 35 ss.

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