La messa alla prova si scrolla di dosso altre censure di incostituzionalità. Come a suo tempo il patteggiamento

Valeria Bove
28 Maggio 2018

Con sentenza n. 91 del 21 febbraio 2018, depositata il 28 aprile 2018, la Corte costituzionale si è ancora una volta espressa per la legittimità dell'istituto della messa alla prova “per i maggiorenni”, che esce quindi indenne da tutte le principali censure di incostituzionalità. Dichiarando inammissibile la prima questione di legittimità costituzionale e non fondante tutte le altre, la Corte costituzionale entra nel vivo di ...
Abstract

Con sentenza n. 91 del 21 febbraio 2018, depositata il 28 aprile 2018, la Corte costituzionale si è ancora una volta espressa per la legittimità dell'istituto della messa alla prova “per i maggiorenni”, che esce quindi indenne da tutte le principali censure di incostituzionalità. Dichiarando inammissibile la prima questione di legittimità costituzionale e non fondante tutte le altre, la Corte costituzionale entra nel vivo di alcune tra le problematiche più dibattute fra la dottrina e la giurisprudenza e afferma che:

  • il giudice del dibattimento, ai fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova, può prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, applicando in via analogica l'art. 135 disp. att. c.p.p.;
  • nel procedimento di messa alla prova manca una condanna e correlativamente manca un'attribuzione di colpevolezza: come il patteggiamento, la messa alla prova si basa sulla volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, si sottopone al trattamento ma, diversamente dal rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p., l'esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, rispetto alla quale il trattamento programmato non è una sanzione penale, ma un'attività rimessa alla spontanea e volontaria osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, alla cui volontà è pertanto riservata la decisione sulla messa alla prova ed anche, quindi, la sua esecuzione;
  • la specificazione dei tipi di condotta oggetto del programma di trattamento spetta all'ufficio esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell'imputato, e il trattamento deve essere ampiamente modulabile e deve tener conto della personalità dell'imputato e dei reati oggetto dell'imputazione;
  • basandosi l'istituto della messa alla prova sulla richiesta dell'imputato, ogni integrazione o modificazione del programma di trattamento, ritenuta necessaria dal giudice, richiede il consenso dell'imputato.
Le problematiche sottese alla decisione della Corte

La Corte costituzionale è stata nuovamente investita, dal tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, delle questioni di legittimità costituzionale attualmente più rilevanti e cruciali, relative all'istituto della messa alla prova, introdotto con la legge 67 del 2014.

Le questioni erano già state sollevate dal medesimo tribunale ed esse erano state dichiarate manifestamente inammissibili con l'ordinanza n. 237 del 2016, nella quale la Corte non aveva potuto offrire, per l'insufficiente descrizione della fattispecie, il suo autorevole contributo alla loro risoluzione. Il tribunale ordinario di Grosseto ci ha riprovato, offrendo, questa volta, un'ampia descrizione della fattispecie e motivando lungamente sulla rilevanza delle questioni nei giudizi sottoposti al suo vaglio. Ciò ha permesso alla Corte costituzionale, con la sentenza n. 91 del 2018 relatore il Presidente Lattanzi, di ricostruire i tratti principali dell'istituto, di analizzarne la disciplina e, soprattutto, di offrire la sua autorevole interpretazione sulle questioni sollevate, che attualmente rappresentano il punto di snodo sulla legittimità costituzionale della messa alla prova.

Se la Corte costituzionale le avesse ritenute fondate, a cadere sotto la scure dell'illegittimità costituzionale non sarebbe stato il singolo articolo attenzionato, ma l'istituto stesso nel suo complesso.

Ed è proprio per questo che la decisione in commento è di assoluta rilevanza, non solo per l'autorevolezza del contributo offerto, ma per la sopravvivenza stessa della messa alla prova per i maggiorenni, che oggi può finalmente scrollarsi di dosso le censure di incostituzionalità avanzate anche dalla migliore dottrina.

Con la decisione in commento, la Corte costituzionale supera e risolve, nel senso della legittimità costituzionale, i più spinosi e cruciali rilievi critici rivolti all'istituto della messa alla prova, in quello che attualmente è il suo punto nevralgico, ossia la fase della decisione, sia quando il giudice sospende il procedimento e ammette alla prova la parte richiedente; sia quando, in esito al trattamento, viene emessa sentenza che dichiara l'estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.

Due gli orientamenti contrapposti.

Da un lato, quello secondo cui la decisione sulla messa alla prova va condotta entrando nel merito del fatto e valutando i profili di responsabilità e colpevolezza dell'imputato; dall'altro, il contrapposto orientamento in base al quale la cognizione del giudice, sia quando sospende il procedimento ed ammette alla prova, sia quando decide nel corso del trattamento (revocando la sospensione) o in esito a esso (emettendo sentenza o disponendo con ordinanza che si proceda al giudizio di merito per esito negativo della messa alla prova), è di tipo sommario e non ha natura accertativa del fatto o della colpevolezza.

Il primo orientamento fa leva sulla necessità di riempire di contenuto il richiamo all'art. 133 c.p., indicato come parametro per la decisione sulla messa alla prova e sulla necessità di pronunciare una decisione che non si ponga in contrasto con la presunzione costituzionale di non colpevolezza. Si sostiene infatti che la messa alla prova è caratterizzata da una sanzione penale complessa – perché si compone di una serie di voci, che integrano le condotte contemplate nel programma di trattamento – e, in quanto sanzione penale, essa può essere irrogata solo se fondata su una decisione che entri nel merito del fatto e che compia una valutazione sulla responsabilità e colpevolezza di chi a quel trattamento viene sottoposto.

L'opposto orientamento, sostenuto soprattutto dalla giurisprudenza più recente, e che si predilige, fa leva sul dettato normativo e sostiene che la decisione sulla messa alla prova – sia in fase di ammissione, che in fase conclusiva – prescinde da una valutazione piena sul fatto e sulla responsabilità, essendo essa limitata solo alla verifica dell'assenza ictu oculi delle condizioni per pronunciare una eventuale sentenza di immediato proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p; non vi è dunque uno scrutinio delle prove e non si esprime alcun accertamento di colpevolezza, in quanto la decisione si limita ad una verifica, incidentale ed allo stato degli atti, sullʼidoneità del programma di trattamento proposto, effettuando una prognosi favorevole di non recidivanza, fondate sugli eventuali precedenti penali, sul tenore delle imputazioni, e più in generale sugli atti che il giudice, in base alla fase del procedimento, ha a sua disposizione.

Questo orientamento, che trova d'accordo anche la scrivente, rinviene nella richiesta volontaria e nel consenso espresso dall'imputato il fondamento costituzionale dell'istituto e fa leva, valorizzandole, sulle finalità deflattive e specialpreventive dell'istituto, che verrebbero neutralizzate seguendo l'opposta tesi.

L'accoglimento dell'una o dell'altra tesi porta infatti a conseguenze diametralmente opposte.

Se si sostiene che la natura della decisione sulla messa alla prova debba essere accertativa del fatto e della colpevolezza e dunque che essa si connoti per una cognizione piena, allora quel giudice che ammette alla prova un imputato, dovrebbe ritenersi incompatibile a giudicare nel merito il coimputato che non avanzi la stessa richiesta, o a procedere al giudizio di cognizione per quei reati rispetto ai quali il medesimo imputato non abbia avanzato richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova; ma egli diverrà incompatibile a procedere al dibattimento nei confronti del medesimo imputato anche qualora la sospensione del procedimento venga rigetta, revocata o l'esito della messa alla prova abbia contenuto negativo.

Se ciò vale in riferimento al giudice, le ripercussioni si avrebbero anche in relazione alla sentenza adottata, perché qualora essa investa il fatto, sarà in astratto suscettibile di un contrasto tra giudicati, nelle ipotesi in cui nei confronti dei coimputati venga adottata una sentenza contrastante.

Accogliendo l'opposta tesi della cognizione sommaria della decisione sulla messa alla prova, non estesa dunque al merito del fatto e ad un vaglio approfondito sulla responsabilità e colpevolezza, tutti questi riflessi non si avrebbero: il giudice che avesse ammesso il richiedente alla messa alla prova parziale, potrebbe tranquillamente procedere per gli altri reati, così come potrebbe procedere a dibattimento nei confronti di quei coimputati che, nello stesso procedimento, non abbiano avanzato richiesta di messa alla prova; parimenti, qualora la messa alla prova venisse revocata o avesse esito negativo, non vi sarebbero problemi per il giudice che avesse adottato l'ordinanza di sospensione del procedimento a procedere a dibattimento nei confronti dell'imputato.

Tutto questo inciderebbe, e non poco, sulle finalità deflattive dell'istituto, perché si eviterebbero profili di incompatibilità che ne neutralizzerebbero gli effetti.

Allo stesso modo, accogliendo la tesi che qui si predilige, non si creerebbero contrasti di giudicato, perché la decisione sulla messa alla prova, non essendo connotata da una cognizione piena, non potrebbe ritenersi nella sostanza equiparata ad una sentenza di condanna.

In questo panorama, la scelta tra l'uno o l'altro orientamento, al di là delle conseguenze che ne derivano, dipende anche dagli strumenti che la disciplina normativa offre al giudice nella fase della decisione: se a questi è permesso – nella fase del giudizio, quando, non essendo stato dichiarato aperto il dibattimento, alcun elemento di prova è portato all'attenzione del giudice – prendere visione degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del P.M., allora il giudice potrebbe avere a sua disposizione lo strumento per entrare nel merito della vicenda, salvo poi verificare se il sindacato nel merito del fatto e della colpevolezza gli sia consentito; se invece non può proprio prendere visione degli atti del fascicolo del P.M. gli mancherebbe a monte (sempre nella fase del giudizio, perché durante le indagini il gip ma anche il Gup, avrebbero a propria disposizione il fascicolo del P.M.) lo strumento per valutare il fatto.

Di conseguenza, verificare se il giudice del dibattimento abbia o meno la possibilità di visionare gli atti di indagine rappresentava il punto di partenza per discutere poi sulla natura della cognizione del giudice, perché se in dibattimento non fosse stato consentito al giudice visionare gli atti, sarebbe mancato, almeno per lui, lo strumento per ampliare la sua cognizione.

Ed è questa la prima questione che la Corte costituzionale affronta e che di seguito si analizzerà.

Superata questa prima eccezione, la Corte è poi entrata nella questione successiva, che riguarda la natura della decisione sulla messa alla prova e, più in generale, la fondatezza costituzionale dell'istituto stesso.

Leggere nella loro sequenza le questioni affrontate e risolte dalla Corte costituzionale, fa comprendere quale sia stata la lettura che la Corte ha dato, con la sentenza in commento, dell'istituto, e sulla base di quali elementi lo abbia ritenuto, nel suo complesso, costituzionalmente legittimo.

Le questioni di legittimità costituzionale

Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica hanno riguardato:

  1. l'art. 464-quater, comma 1, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della decisione di merito da assumere nel procedimento speciale di messa alla prova, proceda all'acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari, restituendoli per l'ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull'esito della messa alla prova;
  2. gli artt. 464-quater e 464-quinquies c.p.p., in riferimento all'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva;
  3. l'art. 464-quater, comma 4, c.p.p., in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede il consenso dell'imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento
La decisione

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile le questioni di legittimità costituzionale descritte sub 1) e non fondante tutte le altre.

Le prime questioni hanno riguardato l'art. 464-quater, comma 1, c.p.p. e dunque proprio lo strumento a disposizione del giudice del dibattimento chiamato a decidere sulla richiesta di messa alla prova.

Nel giudizio, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere avanzata entro il termine preclusivo della dichiarazione di apertura del dibattimento e dunque in una fase in cui il giudice ha normalmente a propria disposizione, nel fascicolo del dibattimento, solo il decreto che ha introdotto il giudizio, gli atti irripetibili e il certificato del casellario giudiziale; certamente, non essendo stato ancora dichiarato aperto il dibattimento, non ha contezza degli elementi di prova che sorreggono l'accusa e la difesa. Di qui la problematica che sottende l'eccezione di legittimità sollevata: sulla scorta di quali atti il giudice decide, tenuto conto che non può prendere in visione gli atti di indagine contenuti nel fascicolo del P.M., dato che nessuna norma lo consente?

Rilevava il tribunale di Grosseto che i pochi atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento risultavano largamente insufficienti a fornire la plausibile rappresentazione del fatto occorrente ai fini della formulazione di un giudizio positivo di responsabilità e la conseguenza più immediata finiva con l'essere un provvedimento giudiziale pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità formulato senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se il fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica.

Né, secondo il tribunale rimettente, sarebbe stato possibile adottare un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 464-quater c.p.p. se non quella di procedere all'istruzione dibattimentale, che sarebbe in contrasto con la ratio del rito.

È proprio su questo punto che la Corte è pervenuta a una pronuncia di inammissibilità.

Il giudice delle leggi ha infatti rilevato che un'interpretazione costituzionalmente orientata coerente con la cornice normativa è praticabile ed è un'altra: pur in assenza di una specifica disposizione in tal senso, è infatti consentito al giudice ma ai soli fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova, prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, e ciò è appunto possibile applicando in via analogica l'art. 135 disp att c.p.p.

L'art. 135 disp att. c.p.p. stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero».

Sottolinea la Corte costituzionale che non sarebbe la prima volta che la giurisprudenza di legittimità fa ricorso all'applicazione in via analogica dell'art. 135 disp att. c.p.p.: lo ha già fatto per l'ipotesi in cui l'imputato rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, una richiesta condizionata di giudizio abbreviato, già respinta dal giudice per le indagini preliminari, ed è infatti questo il precedente cui la Corte si richiama, indicando proprio – e non a caso, come si vedrà – gli estremi della pronuncia della Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711, così massimata «In tema di giudizio abbreviato, quando l'imputato "rinnova" prima della dichiarazione di apertura del dibattimento una richiesta condizionata di accesso al rito già respinta dal giudice per le indagini preliminari (secondo il meccanismo di sindacato introdotto dalla sentenza costituzionale 23 maggio 2003 n. 169), il giudice è chiamato ad effettuare, acquisendo gli atti del fascicolo del pubblico ministero in applicazione analogica dell'art. 135 disp. att. c.p.p., una valutazione solo incidentale delle risultanze raccolte, finalizzata alla verifica della prospettata necessità della prova integrativa richiesta, senza che ciò si traduca in giudizio sul merito dell'azione penale e dunque in causa di incompatibilità per il giudice stesso».

Gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, evidenzia la Corte, possono essere conosciuti dal giudice quando ciò è necessario ai soli fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova (e dunque ai fini di una decisione in via incidentale ed allo stato degli atti) e il fatto che ciò non sia espressamente previsto non significa che sia vietato, sicché anche sotto questo aspetto si è ritenuto che non occorra una specifica disposizione o, come è stato sostenuto dal giudice rimettente, un'apposita pronuncia di illegittimità costituzionale, essendo praticabile quell'interpretazione costituzionalmente orientata, che fa ricorso in via analogica all'art. 135 disp att. c.p.p. e che è coerente con la cornice normativa in cui la norma si colloca.

La possibilità di una soluzione interpretativa tale da determinare il superamento dei dubbi di legittimità costituzionale, quale quella indicata, ha impedito la decisione nel merito della questione sollevata, che è stata pertanto dichiarata inammissibile

Tutte le altre questioni, come detto, sono state ritenute non fondate.

Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies c.p.p. sono state ritenute pregiudiziali rispetto alle altre e sono state quindi analizzate subito dopo le prime.

Il tribunale di Grosseto, partendo dal presupposto che con il provvedimento che dispone la messa alla prova l'imputato venga assoggettato ad una sanzione che è nella sostanza una pena, ha censurato che ciò avvenga senza che sia intervenuta una pronuncia di condanna, ancorchè non definitiva. In altri termini, secondo il giudice rimettente, la parte verrebbe assoggettata ad una pena in totale negazione delle garanzie costituzionali per le quali nessuno può essere considerato e tantomeno trattato come colpevole sino alla condanna penale definitiva.

E qui la Corte è entrata nel vivo della questione attualmente più spinosa: la natura della decisione sulla messa alla prova ed il fondamento costituzionale dell'istituto, offrendo un contributo interpretativo di grandissimo rilievo.

«[] se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che correlativamente manca un'attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell'imputato e su sua richiesta (non perché è considerato colpevole), in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un'eventuale condanna»: con questa affermazione la Corte mette un punto fermo di massima autorevolezza, sulla natura della decisione.

Nella decisione sulla messa alla prova manca dunque un formale accertamento di responsabilità e manca una specifica pronuncia di condanna, non diversamente da quanto accade in un altro istituto, anch'esso in passato tacciato di illegittimità costituzionale e che con la sentenza n. 313 del 1990 e l'ordinanza n. 399 del 1997 è uscito indenne dal vaglio di costituzionalità: il patteggiamento.

È proprio il parallelismo e il raffronto con il patteggiamento che porta la Corte ad affermare la legittimità costituzionale dell'istituto della messa alla prova.

I due riti speciali si caratterizzano per la mancanza di una specifica pronuncia di condanna e un'attribuzione di colpevolezza, con un formale accertamento di responsabilità, ma ciò non si pone in contrasto con la presunzione di non colpevolezza contenuta all'art. 27, secondo comma, Cost. perché entrambi si basano sulla volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, in un caso, quello della messa alla prova, si sottopone al trattamento, mentre nell'altro, quello del patteggiamento, ne accetta la pena concordata.

Viene quindi riservata alla volontà dell'imputato la decisione sul rito, nell'uno, come nell'altro caso: entrambi i riti sono infatti assimilabili tra loro per la base consensuale del procedimento e del conseguente trattamento.

Ritenere allora i due istituti costituzionalmente illegittimi appare alla Corte illogico, perché entrambi si basano sulla volontà della parte che richiede il rito speciale e che esercita, in questo modo, una delle facoltà difensive che le viene riconosciuta e che le assicura un trattamento più vantaggioso di quello che le viene garantito dal rito ordinario.

Ciò tuttavia non significa che manchi del tutto una valutazione del giudice sulla responsabilità dell'imputato e che vi sia un capovolgimento dell'onere probatorio contrastante con la presunzione d'innocenza, ed in questo un altro parallelismo con il patteggiamento.

Nel patteggiamento, infatti, il giudice è in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia già acquisita agli atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso. Dopodiché, risultando negativa questa prima verifica, se l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della propria innocenza, egli avrà a disposizione le garanzie del rito ordinario e non è obbligato a richiedere l'applicazione di una pena. Se e quando lo fa, vuol dire che rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa, senza che ciò significhi violazione del principio di presunzione d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza (Corte cost., sentenza n. 313 del 1990, il cui passo viene riportato testualmente nella sentenza in commento).

Parimenti, nella messa alla prova «il giudice, in base all'art. 464-quater, comma 1, c.p.p., deve verificare che non ricorrono le condizioni per «pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129» c.p.p., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell'imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, c.p.p.), e, se lo ritiene necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell'art. 464-bis, comma 5, c.p.p.».

Questa verifica sulla responsabilità dell'imputato va tuttavia assunta in via incidentale e allo stato degli atti e non è un accertamento definitivo, che è invece rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova.

Fin qui le affinità con il patteggiamento e la sostanziale identità di argomentazioni che hanno portato la Corte a concludere, allora come oggi, per l'infondatezza delle questioni di legittimità sollevate in relazione ai due riti speciali.

Ma la Corte è andata oltre e, pur ritenendo già sufficienti questi argomenti per giungere alla conclusione dell'infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquiesc.p.p., in riferimento all'art. 27 Cost., ne ha portati anche altri ed ulteriori.

Al di là infatti della base consensuale del procedimento e del conseguente trattamento, che assimilano i due istituti, la messa alla prova presenta aspetti peculiari che la differenziano dal patteggiamento.

Ed è a questo punto che la Corte, richiamando e facendo propri i principi espressi dalla Corte di cassazione nel suo massimo consesso, evidenzia come il nuovo istituto «non consenta un riferimento nei termini tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali, perché il carattere innovativo della messa alla prova “segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)».

Riportando le parole delle sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice delle leggi concorda sul fatto che «[q]uesta nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall'altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Cass. pen., Sez. unite, n. 36272 del 2016).

Queste caratteristiche rendono l'istituto diverso dal patteggiamento e hanno fatto egualmente concludere per l'infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquiesc.p.p. in riferimento all'art. 27, secondo comma, Cost.

La sentenza di patteggiamento, infatti, pur non potendo essere pienamente identificata con una vera e propria sentenza di condanna (cfr. sentenza Corte cost. n. 251 del 1991, richiamata nella decisione in esame), è tuttavia a questa "equiparata" ex art. 445 del codice di procedura penale» (ordinanza n. 73 del 1993) e conduce all'irrogazione della pena prevista per il reato contestato, anche se diminuita fino a un terzo; nel caso della messa alla prova, invece, l'esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato.

Dunque, sentenza equiparata ad una sentenza di condanna nel caso del patteggiamento; sentenza di proscioglimento nel caso della messa alla prova e questa tipologia di sentenza, a differenza della prima, non costituisce titolo esecutivo per l'applicazione di una sanzione tipicamente penale, quale appunto è la pena concordata tra le parti.

Nel caso della messa alla prova, infatti, viene pronunciata un'ordinanza che dispone la sospensione del processo e ammette l'imputato alla prova ed essa non costituisce un titolo per dare esecuzione alle relative prescrizioni. «Il trattamento programmato non è infatti una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un'attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, il quale liberamente può farla cessare con l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso» e che la parte non potrà più richiederla in futuro (ndr).

Secondo la Corte, quindi, se nel patteggiamento e nella messa alla prova viene riservata alla volontà dell'imputato la decisione sul rito, nella seconda e non già nel primo, alla volontà della parte è anche riservata l'esecuzione stessa della messa alla prova.

Nell'esaminare poi la terza questione di legittimità costituzionale che investe il secondo e il terzo comma dell'art. 168-bisc.p., che violerebbero l'art. 25, secondo comma, Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di tassatività e determinatezza legale delle pene», la Corte ha richiamato i principi già espressi con l'ordinanza n. 54 del 2017.

Con riferimento alla misura temporale degli elementi del trattamento, pur se le norme non lo specificano, deve ritenersi che la durata massima del lavoro di pubblica utilità, in mancanza di una sua specifica diversa determinazione nel programma di trattamento, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento (massimo due anni se si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; massimo un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria) e per determinare in concreto tale durata il giudice deve tenere conto dei criteri previsti dall'art. 133 c.p. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa.

Per quanto riguarda gli aspetti qualitativi degli elementi che compongono il trattamento, rileva la Corte che il Legislatore indica le tipologie di condotte che possono formare oggetto del programma di trattamento, che per sua natura è caratterizzato dalla finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e che deve essere ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell'imputato e dei reati oggetto dell'imputazione; la specificazione poi di tali elementi viene rimessa all'Uepe ed al giudice, con il consenso dell'imputato, sicché, considerata anche la sua base consensuale, non se ne può prospettare l'insufficiente determinatezza in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost.

Anche sotto questo aspetto, la Corte fa suoi i principi espressi dalle Sezioni unite, principi che aveva già richiamato nell'ordinanza n. 54 del 2017: «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l'affidamento al giudice di "un giudizio sull'idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte 'afflittiva' sia di quella 'rieducativa', in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva" (Sezioni unite, 31 marzo 2016, n. 33216

La base consensuale, quale fondamento costituzionale della messa alla prova, ha infine portato la Corte a concludere per l'infondatezza anche delle ultime questioni di legittimità costituzionale sollevate sull'art. 464-quater, comma 4, c.p.p., in riferimento agli artt. 97, 101 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede il consenso dell'imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento.

Basandosi l'istituto della messa alla prova sulla richiesta dell'imputato, se il giudice consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del trattamento, ogni integrazione o modificazione di esso che ritenga necessario apportare prima della sospensione del procedimento e dell'ammissione alla prova dell'imputato, richiede il consenso di questi.

«Qualora infatti il giudice consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del trattamento, l'imputato deve poter scegliere se accettare le integrazioni o le modificazioni indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie»: si tratta di una facoltà conforme al modello legale del procedimento, che non viola l'art. 101 Cost. perché non viene toccata la potestà di giudicare, in quanto il Legislatore, subordinando le integrazioni e le modificazioni del programma di trattamento al consenso dell'imputato, ha legittimamente ricollegato l'accesso al procedimento speciale a un accadimento processuale (il consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo.

Di qui la infondatezza anche delle ultime questioni di legittimità sollevate.

Osservazioni

La sentenza n. 91 del 2018, che qui si commenta, segna un altro, importante, passo verso la piena legittimità costituzionale dell'istituto della messa alla prova.

Già con l'ordinanza n. 54 del 2017, più volte richiamata dalla Corte nella sentenza del 2018, la messa alla prova era uscita indenne da un altro, importante, vaglio di legittimità costituzionale.

In quel caso le questioni di legittimità costituzionale avevano riguardato l'art. 168-bis c.p., censurato dal tribunale di Prato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost. – in quanto, consentendo la sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato per numerosi reati diversi tra loro per tipo e trattamento sanzionatorio, era ritenuto inidoneo ad impedire che casi diversi ricevano identico trattamento e perché, nel disciplinare la sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, la norma non indicava la durata massima del lavoro di pubblica utilità, né i parametri per determinarla e il soggetto competente alla determinazione.

La questione venne ritenuta manifestamente infondata dalla Corte che, con quella decisione, fornì importanti contributi interpretativi.

Con riferimento all'art. 3 Cost., la Corte disse che il trattamento dell'imputato nei diversi casi oggetto del procedimento speciale in questione risulta necessariamente diverso, poiché la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l'affidamento al giudice di un giudizio sull'idoneità del programma, da svolgersi in base ai parametri di cui all'art. 133 c. p. (richiamati dall'art. 464-quater, comma 3, c. p. p.), in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva.

In relazione agli artt. 24 e 27 Cost, affermò che non sussiste la prospettata violazione della finalità rieducativa della pena, essendo ben determinati, sia la durata massima della sospensione del procedimento, e correlativamente del trattamento di messa alla prova, sia i criteri da seguire per stabilirla. E infatti, la durata massima del lavoro di pubblica utilità risulta fissata indirettamente dall'art. 464-quater, comma 5, c. p. p., poiché il lavoro di pubblica utilità non può eccedere la durata (non superiore a due anni o a un anno, rispettivamente a seconda che si proceda per reati per i quali sia prevista una pena detentiva o solo una pena pecuniaria) della sospensione del procedimento, alla cessazione della quale deve terminare. Quanto alla asserita mancanza di parametri per determinare in concreto la durata del lavoro di pubblica utilità, il giudice deve tenere conto dei criteri previsti dall'art. 133 c. p. e delle caratteristiche dell'attività lavorativa.

Prim'ancora di questa decisione, la Corte aveva tratteggiato le caratteristiche dell'istituto in un'altra importante decisione, dal contenuto egualmente “interpretativo”, la sentenza n. 240 del 2015 e subito dopo nell'ordinanza n. 207 del 2016.

Nella sentenza 240/2015, nel pronunciarsi sull'art. 464-bis, comma 2, del c.p.p. impugnato, nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova – introdotto dalla legge 67/2014 – ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della nuova norma, la Corte ebbe ad affermare che «l'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, è connotato comunque da un'intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi».

Con l'ordinanza n. 207/2016 aggiunse che il termine per la proposizione dell'istanza nel giudizio (fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento) «è collegato alle caratteristiche e alla funzione dell'istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo».

L'opera di interpretazione del nuovo istituto introdotto con la legge 67 del 2014 è continuata con la sentenza in commento, nella quale la messa alla prova si scrolla di dosso ulteriori rilievi di incostituzionalità, se possibile ancor più spinosi e cruciali.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 91 del 2018, condivide la lettura che dell'istituto ha dato la Corte di cassazione, Sezioni unite, nella più volte richiamata sentenza n. 36272 del 2016, la quale, a sua volta, aveva fatto propri i principi interpretativi offerti dall''organo di massima autorevolezza nella sentenza n. 240/2015.

La legge 67 del 2014, che ha introdotto l'istituto della messa alla prova per “i maggiorenni” conteneva infatti un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio, nato sotto la spinta della sentenza Torreggiani che imputava all'Italia l'esecuzione di un “carcere inumano” non più tollerabile, ed è proprio con la messa alla prova che viene infranto il binomio classico processo di cognizione-esecuzione della pena, rinunciandosi ad istruire un processo nei confronti dell'indagato/imputato che volontariamente scelga di chiedere al giudice di sottoporsi alla messa alla prova, il cui esito positivo porta all'estinzione del reato.

Questa nuova figura si caratterizza dunque per una duplice natura, sostanziale e processuale: la messa alla prova infatti si connota per una accentuata dimensione processuale, essendo collocata nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio ma anche, e soprattutto, per la sua natura sostanziale, trattandosi di un nuovo rito speciale, in cui l'imputato, che rinuncia al processo ordinario, trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo, il tutto nell'ambito di un istituto in cui vengono perseguiti scopi specialpreventivi in una fase anticipata ed in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto (Cass. pen., Sez. unite, n. 36272/2016).

Partendo da queste premesse, la Corte affronta e supera tutte le questioni di illegittimità costituzionale sollevate.

La rinuncia al processo ordinario che si realizza con la richiesta volontaria del rito speciale della messa alla prova costituisce espressione di una facoltà difensiva che non viola alcuna garanzia riconosciuta all'imputato, il quale, con la sua richiesta volontaria, si assicura un trattamento più vantaggioso di quello che gli offrirebbe il rito ordinario.

Il fondamento costituzionale della messa alla prova è proprio nella volontà che l'imputato esprime quando chiede il rito speciale e quando presta il suo consenso alle condotte contemplate nel programma di trattamento, che viene elaborato dall'Uepe e dal giudice ma sempre con il .

Di qui anche l'ulteriore passaggio che la Corte compie nella sentenza in commento, quando espressamente afferma che ogni integrazione o modificazione del programma di trattamento, ritenuta necessaria dal giudice prima dell'adozione dell'ordinanza di sospensione del procedimento, richieda il consenso dell'imputato. Ciò trova il proprio fondamento nella base volontaria del rito speciale.

La messa alla prova, come il patteggiamento, si basa dunque sulla volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, chiede quel trattamento e si sottopone, con il suo consenso, ad esso, rinunciando al giudizio ordinario.

L'iniziativa della parte non contrasta con la presunzione di innocenza, perché resta sempre in capo al giudice il potere-dovere di verificare, in via incidentale ed allo stato degli atti, che non vi siano i presupposti per una pronuncia ex art. 129 c.p.p. Laddove infatti emergano elementi per i quali vada pronunciata sentenza ex art. 129 c.p.p. il giudice dovrà farlo, anche se la parte abbia chiesto la definizione del procedimento con il rito speciale della messa alla prova.

Anche in questo la messa alla prova si atteggia come il patteggiamento, in cui il giudice è tenuto ex officio ad esaminare se sia già acquisita agli atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo abbia commesso.

Ma quando nell'uno, come nell'altro caso, questa verifica è negativa, il vaglio del giudice sul fatto deve necessariamente fermarsi, perché a quel punto assume preponderanza la volontà dell'imputato e dunque il potere dispositivo che è riconosciuto alla parte, la quale, nel chiedere il rito alternativo, rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa.

È una verifica sulla responsabilità dell'imputato, questa, che viene tuttavia assunta in via incidentale ed allo stato degli atti e non è un accertamento definitivo, che viene invece rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova.

A questo punto la questione è approfondire ancor di più l'aspetto relativo alla natura della decisione e verificare se, nell'analisi interpretativa che dell'istituto offre la Corte costituzionale, vi siano gli elementi per ritenere che essa si connoti per una cognizione sommaria o abbia carattere accertativo del fatto e della responsabilità dell'imputato.

Dalla lettura complessiva della sentenza, ritiene la scrivente che la Corte propenda per la tesi della cognizione sommaria.

In primo luogo perché, come affermato dalla Corte, «se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che correlativamente manca un'attribuzione di colpevolezza».

Che manchi una condanna è un dato certo ed è questo l'elemento che differenzia il patteggiamento dalla messa alla prova.

Se infatti i due istituti sono assimilabili tra loro per la base consensuale del procedimento e del conseguente trattamento, essi sono profondamente diversi per il forte carattere innovativo che ha la messa alla prova, che segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio e ciò ha ripercussioni evidenti sulla sentenza che li definisce.

La sentenza di patteggiamento, pur non potendo essere pienamente identificata con una vera e propria sentenza di condanna, viene tuttavia a questa "equiparata" ex art. 445 del codice di procedura penale» e conduce all'irrogazione di una pena, anche se diminuita fino a un terzo; al contrario l'esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato.

L'una è una sentenza equiparata ad una condanna; l'altra è una sentenza di proscioglimento.

Lo stesso programma di trattamento, dice la Corte, non è una sanzione penale, eseguibile coattivamente: esso è un'attività disposta con ordinanza (l'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova) e non già con sentenza e, soprattutto, a differenza della sanzione penale, è rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, il quale liberamente può farla cessare (nel quale caso il processo riprenderà il suo corso e la parte non potrà più richiedere in futuro la messa alla prova).

È questa un'affermazione di notevole rilevanza, che merita una riflessione attenta, perché la Corte, per la prima volta, si esprime sulla natura del programma di trattamento precisando che non è una “pena” e ancòra questa conclusione, probabilmente per evitare rilievi sotto il profilo dell'art. 7 Cedu, a una considerazione che non risulta essere mai stata fatta ma che appare assolutamente corretta: il programma di trattamento non è una pena perché non si basa su un titolo esecutivo, in quanto né la sentenza che definisce il procedimento, ma neanche l'ordinanza di sospensione del procedimento, che è per altro il provvedimento che contempla il programma di trattamento, possono ritenersi titolo esecutivo.

La prima non è titolo esecutivo perché è una sentenza di proscioglimento che dichiara l'estinzione del reato; la seconda neanche lo è perché prevede una serie di condotte che sono rimesse alla volontà dell'imputato, il quale decide se osservarle o meno, essendo lasciato al suo potere dispositivo (a differenza di quanto accade nel patteggiamento) anche la fase dell'esecuzione, oltre a quella della decisione sul rito.

Mentre dunque nel patteggiamento la sentenza costituisce un titolo esecutivo per l'applicazione di una sanzione tipicamente penale, nella messa alla prova manca un titolo per dare esecuzione alle relative prescrizioni e dunque quelle prescrizioni contemplate nel trattamento non possono considerarsi una sanzione penale.

Manca una condanna, manca un titolo esecutivo per l'applicazione di una sanzione penale, ed il trattamento non è una pena.

In questo quadro, non vi è allora dubbio che, a monte, difetta anche un formale accertamento di responsabilità, essendo quest'ultimo rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio: la Corte è chiarissima nell'affermarlo e nell'individuarne il fondamento anche nella mancanza di un titolo esecutivo e nella natura della sanzione, che non può considerarsi una pena.

Se queste sono le caratteristiche (e le differenze con il patteggiamento) non può che ritenersi che quella verifica, in via incidentale ed allo stato degli atti, sul fatto che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129 c.p.p. non potrà mai estendersi ad una valutazione di merito sul fatto e sulla responsabilità dell'imputato, ma dovrà, come d'altronde la stessa Corte dice espressamente, essere condotta in via incidentale, allo stato degli atti e senza un formale accertamento di responsabilità.

Quali siano poi gli strumenti per procedervi, la Corte li indica espressamente: il giudice deve valutare la richiesta dell'imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, c.p.p.); se lo ritiene necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell'art. 464-bis, comma5, c.p.p. e può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero.

Su quest'ultimo fronte, l'altro importante apporto interpretativo della Corte costituzionale.

Nel sistema manca infatti una norma che consenta al giudice del dibattimento, cui venga presentata una richiesta di sospensione del procedimento, di visionare gli atti di indagine (anche se c'è una disposizione – l'art. 141-ter, comma 2, disp. att c.p.p.– che espressamente prevede che gli atti di indagine vadano presentati all'ufficio esecuzione penale esterna, che dunque, ai fini dell'elaborazione del programma di trattamento, ne dovrà e potrà prendere visione, ciò anche per elaborare un programma che sia il più adeguato possibile al caso specifico – ndr), ma la Corte offre una opzione interpretativa, resa possibile dal contesto normativo in cui si colloca la norma di cui all'art. 464- bis c.p.p., e fa ricorso all'applicazione in via analogica dell'art. 135 disp att. c.p.p.

In altri termini, secondo la Corte costituzionale, gli atti di indagine contenuti nel fascicolo del P.M. sono visionabili da parte del giudice del dibattimento, cui venga avanzata una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, applicando in via analogica l'art. 135 disp. att c.p.p., previsto per il patteggiamento, e a norma del quale il «giudice, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero».

La Corte precisa che non è la prima volta che si fa ricorso all'applicazione analogica dell'art. 135 disp. att. c.p.p. e riporta espressamente l'altro caso in cui la giurisprudenza di legittimità ha considerato applicabile il menzionato articolo, ossia quello della richiesta condizionata di giudizio abbreviato, già respinta dal giudice per le indagini preliminari, citando a tal proposito ed espressamente la Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711.

È questa una citazione molto significativa.

In quella sentenza infatti la Corte di cassazione a sezioni unite ha affermato che, in tale ipotesi, «il giudice è chiamato ad effettuare, acquisendo gli atti del fascicolo del pubblico ministero in applicazione analogica dell'art. 135 disp. att. cod. proc. pen., una valutazione solo incidentale delle risultanze raccolte, finalizzata alla verifica della prospettata necessità della prova integrativa richiesta, senza che ciò si traduca in giudizio sul merito dell'azione penale e dunque in causa di incompatibilità per il giudice stesso».

Ebbene, questo stesso principio di diritto va applicato anche al caso in esame, ed è in questo modo che va letta, a parere di chi scrive, la sentenza della Corte costituzionale.

Il giudice del dibattimento che visioni gli atti di indagine in virtù dell'applicazione analogica dell'art. 135 disp, att. c.p.p. – non diversamente dal giudice per le indagini preliminari o dell'udienza preliminare che decide direttamente prendendo visione di tutti gli atti di indagine, perché in quella fase egli dispone direttamente del fascicolo del P.M. – deve compiere su quegli atti una valutazione solo incidentale delle risultanze raccolte, finalizzata non già «alla verifica della prospettata necessità della prova integrativa richiesta», che rileva nel caso della rinnovazione della richiesta di abbreviato condizionato, bensì «alla verifica che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p.» senza che ciò si traduca in giudizio sul merito dell'azione penale, della responsabilità e/o della colpevolezza dell'imputato.

È questa una lettura della sentenza delle Corte costituzionale, nella parte in cui consente la visione degli atti del P.M., che si armonizza perfettamente con i criteri interpretativi che la stessa Corte offre nella decisione in commento, quando afferma che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna ed un formale accertamento di responsabilità.

Pertanto la verifica che il giudice dovrà fare (non soltanto il giudice del dibattimento, potendo il discorso estendersi a tutti i giudici cui venga richiesta la messa alla prova, qualunque sia la funzione esercitata ed in qualunque fase del procedimento penale intervengano) e che è volta ad escludere che vi siano elementi per pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., dovrà necessariamente essere condotta in via incidentale ed allo stato degli atti, senza tradursi in un giudizio sul merito dell'azione penale e della colpevolezza.

Dovrà, in altri termini, connotarsi per la sua cognizione sommaria.

Questa sembra essere la lettura più armonica e sistematica della sentenza della Corte costituzionale ed essa si riflette inevitabilmente sul discorso, fatto in premessa, dell'incompatibilità del giudice.

Venendo in rilievo una cognizione sommaria e applicando i principi espressi dalla Corte di cassazione nel suo massimo consesso, nella richiamata sentenza n. 44711 del 2004, deve ritenersi che il giudice che decida sulla messa alla prova, sia in sede di ammissione che in sede conclusiva, pur prendendo visione degli atti delle indagini preliminari, non diverrà incompatibile a procedere nella fase di cognizione ed a decidere dunque nel merito, qualora la messa alla prova venga rigettata, revocata, o abbia esito negativo; parimenti qualora quello stesso giudice abbia ammesso il richiedente alla messa alla prova parziale, potrebbe tranquillamente procedere per gli altri reati, così come potrebbe procedere a dibattimento nei confronti di quei coimputati che, nello stesso procedimento, non abbiano avanzato richiesta di messa alla prova.

Tutto questo, come già commentato in premessa, inciderebbe positivamente sulle finalità deflattive dell'istituto, perché evitandosi profili di incompatibilità del giudice, si limitano le duplicazioni di processi, con minor aggravio per gli uffici di giudiziari: in questo modo, quelle finalità deflattive che anche al Corte costituzionale (ordinanza n. 207 del 2016) ha evidenziato, come scopo della messa alla prova, verrebbero assicurate.

Parimenti anche la sentenza adottata, se si ritiene che la cognizione sia sommaria, non investendo essa il fatto, non sarà suscettibile di un contrasto tra giudicati, nelle ipotesi in cui nei confronti dei coimputati venga adottata una sentenza contrastante.

In conclusione, la tesi della cognizione sommaria della decisione sulla messa alla prova e della volontà dell'imputato e dunque del suo consenso quale fondamento costituzionale della messa alla prova, sostenuta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità più recente e da una esigua ed isolata parte della dottrina ha oggi ricevuto l'autorevole avallo della Corte costituzionale che, ancora una volta, sostiene la legittimità costituzionale dell'istituto e che nella pronuncia in esame si sofferma diffusamente su alcuni aspetti di rilevante impatto, quali le finalità dell'istituto ed il suo fondamento costituzionale, offrendo inoltre ulteriori spunti di riflessione, in tema di titolo esecutivo, natura della decisione e caratteristiche del trattamento programmato.

Guida all'approfondimento

In ordine al contenuto della decisione sulla messa alla prova e alla cognizione sommaria o accertativa che la sottende:

V. Bove, Messa alla prova a poco più di un anno: quali ancora le criticità?, in www.penalecontemporaneo.it, 22 dicembre 2015;

C. Cesari, voce Sospensione del processo con messa alla prova, in Enc. dir., IX, Milano, 2016, 1005 e ss.;

C. Conti, Sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato maggiorenne, in Dig. pen. Agg., IX, Torino, 2016, 691;

V. Maffeo, I profili processuali della sospensione con messa alla prova, Napoli, 2017;

R. Muzzica, Sospensione del processo con messa alla prova e ‘materia penale': tra Corte EDU e Corte costituzionale nuovi scenari pro reo sul versante intertemporale, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2017, 1432 e ss.

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