Opere sulle parti comuni dell'edificio

15 Giugno 2018

È sotto gli occhi di tutti che il condominio si presenta come una complessa situazione giuridica, in cui interagiscono diritti reali, diritti di credito e diritti personali, ma il trend è sicuramente nel senso di una tutela sempre più intensa della primaria funzione abitativa rispetto alla quale dovrebbero fare i conti e, se del caso, cedere il passo, tutte quelle posizioni strettamente connesse a logiche proprietarie. In quest'ottica, si prendono in rassegna, all'interno delle modalità di godimento della cosa comune, le variegate opere modificatrici che il singolo...
Inquadramento

L'art. 1102 c.c. si occupa dell'uso delle cose comuni, statuendo, al comma 1, prima parte, che «ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».

Quindi, la libertà del condomino di usare la cosa comune soggiace a due ordini di limitazioni - oltre le quali si sconfina nell'abuso - che dipendono, in buona sostanza, dalla situazione di coesistenza in cui si trovano le varie frazioni di proprietà; si tratta di limitazioni che, per semplicità, possiamo definire di ordine oggettivo (o qualitativo), ossia attinenti alla res, volendo evitare che la funzione della cosa comune sia distolta da quella sua propria (ciò a tutela sia della collettività dei condomini, sia del singolo che dal mutamento di destinazione potrebbe subire un disagio o una minorazione dell'uso stesso), nonché di ordine soggettivo (o quantitativo), nel senso che viene posto l'accento sul potere degli altri comproprietari di usare ugualmente la cosa in conformità del diritto di comproprietà del quale anche essi risultano titolari (ciò nella prospettiva di un giusto equilibrio tra il diritto di ciascun partecipante di servirsi liberamente della cosa in ragione delle nuove esigenze di vita ed il correlativo diritto degli altri condomini).

Quindi, la legittimità dell'uso della cosa comune da parte del singolo partecipante è subordinata a due condizioni negative (« … purché non ne alteri …. e non impedisca ….»), e a renderne illecito l'uso basta il mancato rispetto dell'una o dell'altra (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 25 settembre 1991, n. 10013; Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 1976, n. 247).

Siamo, dunque, in presenza di presupposti che operano in posizione paritaria; di converso, osservati questi due limiti, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune le utilità che la stessa è in grado di fornire ed apportarvi (a sue spese) tutte quelle modificazioni suscettibili del miglior godimento di essa; in quanto esplicazione del diritto di comproprietà di cui al richiamato art. 1102 c.c., per queste iniziative non è richiesta la preventiva autorizzazione assembleare.

Le modificazioni necessarie per il miglior godimento

Il singolo partecipante può servirsi della stessa, sempre con i due limiti oggettivi e soggettivi di cui sopra - ma soprattutto quello della non alterazione della destinazione - anche modificando la cosa comune, per il miglior godimento della stessa, fino a sostituirla con altra che offra maggiore funzionalità, e ciò ai sensi dell'art. 1102, comma 1, ultima parte, c.c. (da ricordare che, in forza dell'art. 1134 c.c., il condomino non può fare spese, anche migliorative, per «la gestione delle parti comuni» - come innovato dalla l. n. 220/2012- con diritto alla ripetizione delle stesse, qualora non abbia avuto l'autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, a meno che non si tratti di spese urgenti)

Ciò avviene soprattutto mediante opere (di solito, di carattere permanente) sulla cosa comune - in passato rigorosamente vietate (art. 675 abrogato) - che, però, si differenziano dalle innovazioni deliberate dalla maggioranza dei condomini (contemplate dal vigente art. 1120 c.c.), che può anche alterare la destinazione della stessa cosa, il che è precluso al singolo.

In questa prospettiva, nella prima ipotesi, all'eventuale autorizzazione ad apportare tali modifiche concessa dall'assemblea - spesso richiesta dal condomino alla luce dei rilevanti lavori da eseguire ed al conseguente rischio di vanificare l'impegno economico intrapreso - può attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell'inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri partecipanti a questo tipo di utilizzazione della cosa comune (Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 1997, n. 1554; Cass. civ., sez. II, 4 dicembre 1982, n. 6608; Cass. civ., sez. II, 30 ottobre 1980, n. 5843).

Pertanto, nell'uso della cosa comune, va considerata vietata ogni modificazione che si risolva nell'esclusione del concorrente diritto degli altri condomini sulla cosa stessa e, a fortiori, nella definitiva destinazione della cosa al godimento del singolo (in quest'ottica, risulta irrilevante l'accertamento in concreto della buona o mala fede del condomino che ha assunto l'iniziativa); al contempo, se la modificazione che il singolo intende apportare alla cosa comune è diretta al miglior godimento della stessa, lasciando inalterata la situazione di fatto degli altri partecipanti, in quanto non ne turba l'equilibrio dei concorrenti interessi, nessun limite pone la legge al diritto di tale condomino, purché tali opere siano eseguite a sue spese.

L'occupazione permanente degli spazi comuni

In ordine all'occupazione di parti comuni da parte del singolo con opere permanenti, non è condivisibile quella giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 7 marzo 1992, n. 2774), che, riguardo all'inserimento, ad opera di un condomino, di una canna fumaria nel lastrico solare incorporandone stabilmente una porzione al servizio esclusivo del proprio appartamento, ha ritenuto sussistere un atto di utilizzazione particolare della cosa comune, che non comprometteva necessariamente la destinazione di calpestio del lastrico e, trattandosi di un'occupazione di una zona periferica trascurabile rispetto alla complessiva superficie dello stesso lastrico, non menomava la possibilità di uso degli altri condomini. È vero che questi ultimi non avrebbero motivo di dolersi, considerando la posizione dei relativi appartamenti, dell'impossibilità di pari uso del lastrico solare nel suo complesso, ma è altrettanto vero che una parte di tale lastrico, indipendentemente dalla sua estensione (ridotta o rilevante), perdeva definitivamente la sua funzione precedente di copertura, diventando parte integrante dell'appartamento sottostante.

La questione inerente la liceità di tali occupazioni si pone, quindi, qualora sia configurabile sul bene comune occupato un conflitto (reale o potenziale) circa il pari uso da parte degli altri condomini, e si connette a quell'altro limite, richiamato dalla giurisprudenza mutuando le considerazioni fatte a proposito dell'art. 1120, comma 4, c.c., relativo all'inservibilità «all'uso o al godimento anche di un solo condomino», anche se qui non si tratta di innovazioni deliberate dalla maggioranza ma di atti di utilizzazione della cosa comune ad opera del singolo partecipante ai sensi dell'art. 1102 c.c.

Comunque, non può ritenersi che, rispetto a tali modificazioni, una limitazione sia costituita dall'esigenza che esse rivestano carattere di assoluta necessità, giacché l'art. 1102 c.c. mira a sottolineare non già l'indefettibilità delle trasformazioni, ma il loro carattere strumentale in rapporto al fine della più proficua, più comoda o più razionale utilizzazione della cosa comune (v. la remota Cass. civ., sez. II, 26 luglio 1962, n. 2134); in quest'ordine di concetti, la «necessità» di cui fa parola la predetta norma non è un elemento che qualifichi in sé la modifica, nel senso che se la cosa comune non ha necessità di modifiche, al singolo debba essere fatto divieto di apportarle, ma nel senso che le medesime modifiche devono servire al «miglior godimento» della cosa comune e, quindi, da ritenersi vietate sia qualora, dopo averle introdotte, il condomino non ne trae nessun miglior godimento, che nel caso in cui tale miglior godimento sia possibile senza modificare la cosa.

Dubbi, invece, sussistono in ordine alla titolarità delle modificazioni poste in essere sulla cosa comune dal singolo, se cioè debbano ritenersi migliorie che, per il principio di accessione, divengono di proprietà di tutti i comproprietari del bene cui ineriscono, o se gli altri partecipanti possono solo avvantaggiarsi dell'opera (contribuendo alle future spese di manutenzione), ma non rivendicarne la proprietà, oppure se l'opera è di utilità collettiva e insuscettibile di utilizzazione separata, per cui è di comproprietà di tutti ed il suo autore non possa vantare il diritto di rimborso nemmeno pro-quota.

Resta inteso che, indipendentemente dalla predetta titolarità, le modificazioni introdotte dal condomino nel proprio interesse sono a suo carico, come è certo che dovrà anche accollarsi le maggiori spese di manutenzione o di gestione di tutta la cosa comune cagionate dalla sua iniziativa (ad esempio, tinteggiatura delle ringhiere del cancello realizzato sul muro comune per accedere all'appartamento di sua proprietà).

L'osservanza delle distanze legali

Occorre, però, fare attenzione a che le modificazioni operate sul bene comune dal singolo possono anche pregiudicare il diritto di pieno e incondizionato godimento dell'altrui proprietà esclusiva: è il caso della costruzione di una veranda che, occupando la colonna d'aria sovrapposta al cortile, sebbene lecita sotto il profilo della statica e del decoro architettonico, potrebbe privare l'appartamento sovrastante della veduta in appiombo esercitata sul medesimo cortile nonché togliere aria e luce all'appartamento sottostante (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2010, n. 13874; Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2007, n. 12491).

Ci si chiede, a questo proposito, se vanno rispettate le distanze legali, in quanto eventuali opere eseguite dal singolo sulla cosa comune potrebbero violare le disposizioni vigenti in tale materia.

Si afferma, sul punto, che la normativa sulle distanze legali deve essere sempre subordinata alla sua “compatibilità” con i principi che regolano specificatamente la materia condominiale; d'altronde, i contrasti che quotidianamente nascono dalla sovrapposizione verticale o dalla contiguità orizzontale di tali unità non possono risolversi facendo esclusivo riferimento alla normativa codicistica in tema di rapporti di vicinato (si pensi all'apertura di una finestra sul cortile comune o all'appoggio di un'insegna sul muro).

Nella giurisprudenza di legittimità (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2741; Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2010, n. 6546; Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2005, n. 22838; Cass. civ., sez. II, 5 giugno 2003, n. 8978; Cass. civ., sez. II, 1 dicembre 2000, n. 15394; Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 1995, n. 724), costituisce oramai ius receptum che le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare i rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio e il singolo qualora esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè nel caso in cui l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile un'applicazione complementare. Nel caso di contrasto, invece, prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni, conseguendone l'inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime.

In evidenza

In buona sostanza, occorre avere presente la concreta struttura dell'edificio, le caratteristiche dello stato dei luoghi nonché il particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, per cui, qualora le norme sulle distanze legali vengano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette norme sia o no, nel singolo caso, irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento di vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza.

Infatti, non può dubitarsi che vi siano distanze legali che devono certamente essere osservate, ma tale obbligo di rispetto per le opere compiute, a condominio già costruito, non va applicato in senso assoluto e inderogabile, in quanto potrebbe condurre a conseguenze inaccettabili, come quella di impedire, in concreto, di dotare gli appartamenti di proprietà esclusiva, che ne siano privi, di attrezzature e di impianti indispensabili, essenziali per la loro concreta confortevole abitabilità e rispondenti ad imprescindibili esigenze di carattere igienico (Cass. civ., sez. II, 25 luglio 2006, n. 16958; Cass. civ., sez. II, 15 luglio 1995, n. 7752; Cass. civ., sez. II, 18 giugno 1991, n. 6885; Cass. civ., sez. II, 5 dicembre 1990, n. 11695; Cass. civ., sez. II, 11 maggio 1981, n. 3105).

Si pensi agli impianti di riscaldamento e ai bagni che, tenuto conto dello stato dei luoghi e della struttura topografica dell'edificio, non sia in alcun modo possibile collocare altrove, sì da essere costretti a violare le norme sul rapporto di vicinato, salvo ovviamente l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui.

Un'applicazione di tale principi è stata, da ultimo, disposta da Cass. civ. 2 febbraio 2016, n. 1989, la quale, ribadendo il principio secondo cui le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini, ha concluso nel senso che, anche con riferimento ai tubi dell'impianto di riscaldamento, l'art. 889 c.c. è derogabile solo ove la distanza prevista sia incompatibile con la struttura degli edifici condominiali.

Resta fermo - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2015, n. 6293 - che la disciplina sulle distanze di cui all'art. 889 c.c., non si applica in caso di opere eseguite in epoca anteriore alla costituzione del condominio, atteso che, in tal caso, l'intero edificio, formando oggetto di un unico diritto dominicale, può essere nel suo assetto liberamente precostituito o modificato dal proprietario anche in vista delle future vendite dei singoli piani o porzioni di piano, operazioni che determinano, da un lato, il trasferimento della proprietà sulle parti comuni (art. 1117 c.c.) e l'insorgere del condominio, e, dall'altro lato, la costituzione, in deroga (o in contrasto) al regime legale delle distanze, di vere e proprie servitù a vantaggio e a carico delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, in base a uno schema assimilabile a quello dell'acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia.

L'equo contemperamento dei contrapposti interessi

Si tratta di operare un equo contemperamento dei contrapposti interessi valutando la natura indispensabile o meno dell'intervento del singolo: una cosa sono le tubazioni di un bagno, altro quelle di un impianto di condizionamento d'aria che servono ad incrementare la comodità o l'amenità dell'alloggio, anche se attualmente, a seguito del caldo torrido delle ultime stagioni, l'aria condizionata nelle case adibite ad abitazione sta diventando (come nelle autovetture) un elemento di serie e non più un optional.

Il tutto va, però, visto in un'ottica che tende a dare un valore preminente alla tutela della persona e delle sue possibilità di espletare una vita libera e dignitosa rispetto al contenuto reale della proprietà sul bene, sicché vanno sempre rapportati alle esigenze attuali (mutevoli nel tempo) i rilievi secondo cui, ai fini dell'applicabilità delle norme sulle distanze legali alle costruzioni eseguite sulle parti comuni di un edificio in condominio, occorre distinguere tra le funzioni “primarie” e fondamentali attribuite a tali parti in relazione al fine per cui il condominio è stato costituito e le eventuali utilizzazioni “secondarie” di cui le stesse parti sono suscettibili al di fuori di un rapporto di connessione inscindibile con la struttura e la funzionalità del condominio; infatti, nel mentre deve affermarsi la prevalenza del perseguimento delle funzioni primarie delle parti comuni rispetto all'osservanza delle norme sulle distanze legali, queste norme devono, invece, essere applicate riguardo alle utilizzazioni secondarie delle menzionate parti, quali le costruzioni eseguite da un condomino sul muro comune per scopi estranei alla sua funzione tipica (Cass. civ., sez. II, 6 aprile 1981, n. 1941).

L'incorporazione durevole animo domini

Per completezza, va ricordato che il successivo comma 2 dell'art. 1102 c.c. prevede che: «il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso»: la norma contempla, quindi, l'ipotesi che il singolo possa usucapire - ossia acquistare il diritto di proprietà per il possesso reiterato nel tempo - l'intero diritto, o una quota superiore a quella spettantegli, sul bene comune.

Resta fermo che il semplice godimento esclusivo, da parte di uno dei comproprietari, fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri partecipanti, in via di principio, non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di questi ultimi e, ancor meno, per coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, conseguendone che colui il quale utilizza in via esclusiva il bene comune non è tenuto a corrispondere alcunché al comproprietario pro indiviso che rimanga inerte o, a maggior ragione, se abbia consentito, in modo certo ed inequivoco, tale uso esclusivo (v., di recente, Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 2015, n. 2423; peraltro, in linea con Cass. civ., sez. II, 3 dicembre 2010, n. 24647).

Tuttavia, il condomino, anche se usa la cosa comune in modo più intenso rispetto agli altri partecipanti, non estende il suo dominio su di essa, neppure sotto il profilo dell'acquisto di maggiori poteri, essendo all'uopo necessario il compimento di atti idonei a mutare il titolo del suo possesso (ad esempio, il proprietario dell'ultimo piano che ha, per titolo, l'uso esclusivo del lastrico solare, non può, per il solo fatto di utilizzare lo stesso, far venir meno l'indefettibile funzione di protezione dell'edificio).

Ma anche nel caso particolare in cui, in forza di una convenzione privata o di una delibera presa all'unanimità (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 1987, n. 5709; Cass. civ., sez. un., 22 novembre 1984, n. 5990), si conferisca l'uso di un bene comune ad uno soltanto dei condomini, non viene meno la contitolarità sul bene stesso, sicché la facoltà di utilizzazione della cosa trova un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri, nel senso che sono consentite le opere necessarie al miglior godimento, mentre potrebbe ravvisarsi una lesione del diritto di comproprietà dei condomini quando la cosa sia alterata (in tutto o in parte) sottraendola alla possibilità dell'attuale sfruttamento collettivo nelle modalità funzionali originariamente praticate (in quest'ottica, Cass. civ., sez. II, 27 luglio 1984, n. 4451, nel caso di un giardino comune conferito in uso al proprietario del piano terreno, ha ritenuto che non spetta a quest'ultimo il diritto di compiere opere di trasformazione del bene, mediante la copertura con una veranda, che si traducano in un pregiudizio delle utilità che lo stesso è destinato ad apportare alle altre porzioni del fabbricato in termini di areazione e di amenità di vedute).

Si rivela interessante, al riguardo, la precisazione offerta dai giudici di legittimità in ordine alla peculiare qualificazione del possesso in àmbito condominiale (Cass. civ., sez. II, 5 agosto 2005, n. 16496;Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 2000, n. 855): le parti comuni di un edificio formano oggetto di un compossesso pro indiviso che si esercita diversamente a seconda che le cose/servizi/impianti siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari, a cui sono collegati materialmente o per destinazione funzionale (come ad esempio per suolo, fondazioni, muri maestri, facciata, tetti, lastrici solari oggettivamente utili per la statica), oppure siano utili soggettivamente, sicché la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipenda dall'attività dei rispettivi proprietari (come ad esempio per scale, portoni, anditi, portici, stenditoi, ascensore, impianti centralizzati per l'acqua calda o per aria condizionata); pertanto, nel primo caso, l'esercizio del possesso consiste nel beneficio che l'appartamento singolo - e solo per traslato il proprietario - trae da tali utilità, nel secondo caso, nell'espletamento della predetta attività da parte del proprietario.

A questo punto, è importante verificare quali sono i requisiti affinché il singolo condomino possa usucapire la cosa comune.

Invero, compiere «atti idonei a mutare il titolo del suo possesso» significa comportarsi da padrone sulla cosa comune (o su una porzione di essa), ma per il condomino risulta più difficile usucapire, poiché non è sufficiente allo scopo quel comportamento che gioverebbe ad un estraneo; a differenza di questi, il condomino già possiede, in quanto tale, nomine proprio, sicché è necessaria - non tanto un'interversione del possesso, ma - un quid pluris che sia incompatibile con il permanere del compossesso degli altri (compossesso che potrebbe essere esercitato mediante lo stesso condomino che voglia usucapire, come qualora il singolo conceda in comodato un locale comune ad uno dei condomini); non è, invece, ipotizzabile l'usucapione riguardo ad alcune parti comuni dell'edificio (ad esempio, il tetto), atteso che non possono sopprimersi le utilità tratte dagli altri partecipanti al condominio per effetto della connaturata destinazione di tali cose (si pensi alla copertura dello stabile). Pertanto, affinché il condomino-compossessore possa estendere il suo possesso in via esclusiva sul bene comune, e quindi comportare - se protratto per il relativo tempo utile stabilito dalla legge - l'acquisto della proprietà dell'altrui quota indivisa per usucapione, non è sufficiente:

a) che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso della cosa, stante l'imprescrittibilità del diritto di comproprietà (Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2002, n. 12260; Cass. civ., sez. II, 26 aprile 1984, n. 2622);

b) un'utilizzazione di detto bene più intensa e diversa da quella praticata dagli altri condomini, potendo ben rientrare nei canoni contemplati dall'art. 1102 c.c. (v., in una fattispecie di prolungato uso, quale parcheggio, di un'area di proprietà condominiale, Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 1998, n. 1384;

c) singoli atti di utilizzazione della cosa comune aldilà della misura del potere del singolo partecipante (si pensi al mero deposito saltuario di alcuni mobili), i quali sono da presumersi compiuti per mera tolleranza degli altri partecipanti.

Occorrono, invece, atti integranti un comportamento durevole (ad esempio, per oltre venti anni), tale da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini su tutta la cosa (Cass. civ., sez. II, 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. civ., sez. II, 7 luglio 2000, n. 9106; Cass. civ., sez. II, 23 giugno 1999, n. 6382; Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1999, n. 5127; Cass. civ., sez. II, 2 marzo 1998, n. 2261; Cass. civ., sez. II, 24 gennaio 1985, n. 319), con condotte continuative incompatibili con il permanere del compossesso altrui, oppure un godimento tale da mettere in luce un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (Cass. civ., sez. II, 10 novembre 2011, n. 23539; Cass. civ., sez. II, 23 luglio 2010, n. 17322; Cass. civ., sez. II, 20 maggio 2008, n. 12775; Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 1999, n. 11696; Cass. civ., sez. II, 20 giugno 1996, n. 5687; Cass. civ., sez. II, 16 dicembre 1981, n. 6669), unitamente al cambiamento della destinazione funzionale del bene (da comune ad esclusiva) con mutamento della situazione oggettiva (ad esempio, incorporazione di un pianerottolo, od occupazione di parte del cortile).

Casistica

CASISTICA

Apertura nel solaio

Il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell'edificio e che sia proprietario dell'appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l'uno e l'altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un'apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l'esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sé violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un'alterazione della cosa comune che ne impedisca l'uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio (Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2017, n. 6253).

Realizzazione di una veranda nel balcone

Qualora il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere sui propri beni facendo uso anche di beni comuni, indipendentemente dall'applicabilità della disciplina sulle distanze, è necessario che, in qualità di condomino, utilizzi le parti comuni dell'immobile nei limiti consentiti dall'art. 1102 c.c. (nella specie, si era confermata la sentenza impugnata che aveva accolto la domanda di riduzione in pristino del balcone di una veranda ricostruito senza rispettare l'allineamento verticale con gli altri balconi in quanto le opere dovevano ritenersi eseguite in violazione dell'art. 1102 c.c., causando una sensibile riduzione all'ingresso di luce ed aria nella proprietà inferiore e nella chiostrina) (Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2017, n. 5196).

Esecuzione delle opere e assetto proprietario

Negli edifici in condominio, le scale con i relativi pianerottoli, che insistano, nella specie, su un ballatoio e servano da accesso al lastrico solare comune, costituiscono strutture funzionalmente essenziali del fabbricato e rientrano, pertanto, tra le parti che devono presumersi comuni, in forza dell'art. 1117, n. 1), c.c., a nulla rilevando che le suddette opere siano state materialmente realizzate da uno solo degli originari comproprietari, valendo tale circostanza solo a giustificare la pretesa dello stesso a vedersi riconoscere dagli altri condomini un contributo per le spese di installazione e manutenzione dei manufatti, e non quale titolo idoneo ad attribuirne la proprietà esclusiva al loro autore (Cass. civ., sez. II, 4 marzo 2015, n. 4372).

Trasformazione del tetto in terrazza esclusiva

Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti - da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione - che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso (Cass. civ., sez. VI, 4 febbraio 2013, n. 2500).

Guida all'approfondimento

Natali, L'usucapione delle parti comuni del condominio, in Immob. & proprietà, 2010, 83.

Pellicani, Interventi edilizi sulla cosa comune da parte del condomino, in Immob. & proprietà, 2009, 87;

Triola, Condominio, innovazioni ed esecuzione di opere su parti comuni, in Corr. giur., 2007, 237;

Vitiello, L'installazione dell'ascensore in immobile condominiale tra innovazioni e modificazioni della cosa comune, in Arch. loc. e cond., 2000, 440;

Balzani, La modifica per “rinnovamento” della cosa comune, non costituisce innovazione, in Arch. loc. e cond., 1985, 7;

Salis, Modifiche “necessarie” per il miglior godimento e rispetto del decoro architettonico, in Riv. giur. edil, 1962, I, 1183.

Sommario