La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trova il suo primo autorevole fondamento giuridico nella Costituzione, nella quale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non può divenire arbitraria, essendo sottoposta a precisi limiti, tra cui quello di non arrecare danno alla sicurezza e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.)...
La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trova il suo primo autorevole fondamento giuridico nella Costituzione, nella quale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non può divenire arbitraria, essendo sottoposta a precisi limiti, tra cui quello di non arrecare danno alla sicurezza e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.),
Pur non possedendo un'immediata efficacia precettiva e sanzionatoria, i principi costituzionali implicano che la libertà di impresa non possa sacrificare la tutela del lavoratore; ciò ha comportato che la giurisprudenza abbia interpretato in maniera rigorosa l'obbligo di sicurezza, sia generale sia specifico, che grava principalmente sul datore di lavoro.
In particolare, l'obbligo generale di sicurezza, dettato dalla norma contenuta nell'art. 2087 c.c., che impone all'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro mediante l'adozione anche di misure atipiche, così definite perché non sono indicate espressamente dal Legislatore, è affiancato da quello specifico, dettato dalla disciplina preventiva speciale, oggi contenuta nel “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81).
Come si ricava dalla definizione di “prevenzione”, intesa come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno” (art. 2, comma 1, lett. n), D. Lgs. n. 81/2008), l'apparato normativo vigente mira, innanzi tutto, ad eliminare e/o ridurre il rischio presente nei luoghi di lavoro, al fine di diminuire le cause degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali, che ancora colpiscono numerosi lavoratori.
La Costituzione rappresenta il primo consistente baluardo posto a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Infatti, nella Carta costituzionale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.).
La Corte costituzionale ha chiarito che “l'art. 41 deve essere interpretato nel senso che esso limita espressamente la tutela dell'iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore” (Corte cost. 29 ottobre 1999, n. 405), come anche che le norme di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongano ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, che devono operare in un ambiente esente da rischi (Corte cost. 20 dicembre 1996, n. 399).
In caso di conflitto tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare tra la salute (art. 32 Cost.) e il lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali, si deve procedere ad un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, senza consentire “l'illimitata espansione di uno dei due diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette”, poiché, prosegue la Corte, “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri” (Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85); ciò significa che il Legislatore non può consentire la prosecuzione dell'attività di impresa in presenza di impianti pericolosi per la vita o l'incolumità umana, vanificando gli effetti di una misura cautelare reale disposta dall'Autorità giudiziaria penale. Infatti, “rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumità e la vita dei lavoratori costituisce condizione minima e indispensabile perché l'attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona” (Corte cost. 23 marzo 2018, n. 58).
Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea si afferma il diritto all'integrità fisica e psichica della persona (art. 3, Carta di Nizza), come anche quello di ogni lavoratore “a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” (art. 31, Carta di Nizza). Per armonizzare e, nel contempo, spingere i Paesi membri a migliorare i livelli di sicurezza sul lavoro, gli organi comunitari si sono avvalsi di direttive contenenti prescrizioni minime di tutela con l'obbligo di recepimento nei singoli ordinamenti (vedi tabella paragrafo 4).
Al fine di salvaguardare al meglio la salute e sicurezza dei lavoratori, il sistema normativo agisce su due piani distinti, identificando preventivamente le regole di condotta che il datore di lavoro deve osservare onde prevenire danni a beni fondamentali della persona e, poi, nel caso in cui tali danni si verifichino, delineando la responsabilità, penale o civile, in chiave sanzionatoria o riparatoria.
Poiché la salute rappresenta un diritto fondamentale e indisponibile, la mancata adozione delle misure di sicurezza è sanzionata penalmente, sempre quando determina un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, anche al fine di incentivare il datore di lavoro al rispetto dell'obbligo generale di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. o della legislazione speciale in materia di sicurezza sul lavoro (Corte cost. 26 maggio 1981, n. 74).
L'art. 2087 c.c. rappresenta il fulcro del sistema prevenzionistico, imponendo un obbligo generale di sicurezza sul datore di lavoro, chiamato ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure più efficaci per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Si è detto in dottrina che la struttura della norma sia elastica, essendo aperta ai mutamenti economico-sociali e capace di adattarsi alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico, destinata, quindi, a sanare fratture del sistema, che non può prevedere ogni fattore di rischio, traendo dalla Costituzione nuova linfa e potenzialità espansive (anche Cass. 6 settembre 1988, n. 5048).
Sul datore di lavoro grava un obbligo a contenuto generico, tanto che la norma è stata definita “in bianco” o “di chiusura” (proprio perché impone uno standard minimale di sicurezza) del sistema prevenzionale, seppur circoscritto all'adozione di quelle misure ritenute indispensabili sulla base della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.
In evidenza: Art. 2087 c.c. Tutela delle condizioni di lavoro |
L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. |
Sulla base del criterio della “tecnica” la giurisprudenza ha elaborato il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, in base al quale il datore di lavoro deve adottare tutti i rimedi suggeriti dalla tecnica e dalla scienza più evolute, a prescindere da valutazioni sulla loro concreta fattibilità o dal loro costo.
In evidenza: Il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile |
Corte cost. 27 aprile 1988, n. 475; Corte cost. 7 maggio 1991, n. 202
L'imprenditore deve rispettare i suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico, garantendo il miglior livello di tutela per i lavoratori.
Corte cost. 25 luglio 1996, n. 312
L'obbligazione in capo al datore di lavoro è stata circoscritta alle “misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive”, limitando, quindi, l'obbligo di sicurezza al rispetto di quanto generalmente acquisito e praticato sul piano delle misure tecniche (massima sicurezza generalmente praticata).
La Magistratura superiore applica il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, “in base al quale il datore deve adoperarsi per evitare o ridurre l'esposizione al rischio dei dipendenti al di là delle specifiche previsioni dettate dalla normativa prevenzionale, conformando il proprio operato ad una diligenza particolarmente qualificata, che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell'esperienza e della tecnica” (Cass. 21 settembre 2016, n. 18503; Cass. 30 giugno 2016, n. 13465), negando che il criterio della "sicurezza generalmente praticata" possa consentire un abbassamento della soglia di prevenzione, in ragione di standards eventualmente non adeguati, praticati in una determinata cerchia di imprenditori, rispetto a quelli che sarebbe stato necessario adottare in ragione dello sviluppo tecnico concretamente disponibile (Cass. pen. 17 settembre 2010, n. 43786). |
Il datore di lavoro, in buona sostanza, deve adottare, quanto meno, le misure di sicurezza ricavate dagli standard di sicurezza generalmente praticati ed acquisiti nei diversi settori produttivi, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2491; Cass. 14 gennaio 2005, n. 644), non essendo, al contrario, chiamato a sperimentare e/o ricercare in proprio più avanzati sistemi di protezione.
Sebbene l'imprenditore non debba “eliminare, sempre e completamente, qualsiasi sorta di rischio alla salute connesso al rapporto di lavoro”, ha affermato la Suprema Corte, “è anche vero che il rischio - quando non può essere eliminato alla fonte - deve essere reso comunque insignificante per la salute, alla stregua delle misure di prevenzione in concreto attuabili e disponibili sul mercato in un determinato momento storico, secondo la migliore tecnica ed esperienza; ma senza alcun abbassamento della soglia di prevenzione rispetto agli standard eventualmente non adeguati praticati in una determinata cerchia di imprenditori” (Cass. 9 settembre 2021, n. 24408).
L'obbligo di sicurezza è assolto con l'adozione di misure di sicurezza cd. “nominate”, così definite perché espressamente e specificamente indicate nella legge (o da altra fonte ugualmente vincolante, come le regole d'esperienza o quelle tecniche preesistenti e collaudate), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici o di quelle definite “innominate”, ricavabili nel rispetto del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità.
L'obbligo generale di sicurezza, data la sua importanza, rientra automaticamente nel sinallagma contrattuale; cosicché la sua violazione rappresenta un inadempimento contrattuale, che consente al prestatore di lavoro di negare la prestazione lavorativa, sino a che permanga la situazione di pericolo che può mettere a repentaglio la sua incolumità.
In evidenza: Sul rifiuto del lavoratore ad adempiere la prestazione lavorativa in assenza delle misure di sicurezza |
Cass. 18 maggio 2006, n. 11664 E' illegittimo il licenziamento intimato a causa del rifiuto del lavoratore di continuare a svolgere le sue mansioni. Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 9 maggio 2005, n. 9576 E' ingiustificato il licenziamento intimato a causa dell'astensione del lavoratore dalla prestazione di specifiche attività, la cui esecuzione può rivelarsi pericolosa per la mancata adozione delle misure necessarie, sempre che la necessità di tale misura sia evidente e che il lavoratore abbia informato di tale carenza il datore di lavoro. |
Sebbene in origine l'obbligo generale di sicurezza fosse imposto a tutela dei lavoratori subordinati (art. 2094 c.c.), la giurisprudenza di legittimità più recente ha esteso tale dovere anche a difesa di prestatori di lavoro assunti con tipologie contrattuali differenti, non potendosi negare le esigenze di protezione alle altre categorie per ragioni puramente formali, in presenza soprattutto di una medesima esposizione a rischio.
In evidenza: Figure di lavoratori equiparati a quelli subordinati |
A titolo esemplificativo si osserva che l'obbligo di sicurezza è stato applicato a tutela dell'artigiano socio di fatto, che presta la sua attività per conto di una società (Cass. pen. 17 marzo 2016, n. 11388; Cass. pen. 3 marzo 2009, n. 17218; Cass. pen. 1 luglio 2009, n.37840) o di chi è stato autorizzato ad accedere nell'ambiente di lavoro, come un cantiere, o di chi vi accede per ragioni connesse all'attività lavorativa o di chi si reca o sosta anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (Cass. pen. 19 febbraio 2015, n. 18073) o del collaboratore saltuario in un'impresa familiare (Cass. pen. 1 aprile 2010, n. 17581) o, financo, del lavoratore in nero (Cass. pen. 2 febbraio 2016, n. 12678) |
E' stata, invece, negata ai rapporti di lavoro autonomo l'applicazione dell'art. 2087 c.c., che riguarda esclusivamente i rapporti di lavoro subordinato (Cass. 8 aprile 2016, n. 6843; Cass. 23 luglio 2013, n. 17896; Cass. 21 marzo 2013, n. 7128; Cass. 5 maggio 2004, n. 8522; Cass. 16 luglio 2001, n. 9614; Cass. 26 gennaio 1995, n. 933).
La violazione dell'obbligo generale di sicurezza viene sanzionata sul piano penale solo in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale. La norma contenuta nell'art. 2087 c.c., infatti, contiene un precetto privo di sanzione in caso di mancato adempimento.
In ambito penale, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato la responsabilità del datore di lavoro per i delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), aggravati con la violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 589, comma 2, e art. 590, comma 3 e comma 6, c.p.), nel senso attribuito dalla Cassazione penale, tra cui rientra pure quella derivata dal mancato rispetto dell'art. 2087 c.c. e dell'obbligo generale di sicurezza.
In evidenza: Responsabilità penale per violazione dell'obbligo generale di sicurezza |
Cass. pen. 10 novembre 2015, n. 46979; Cass. pen. 11 febbraio 2010, n. 8641; Cass. pen. 1 dicembre 2009, n. 4917; Cass. pen. 26 gennaio 2005, n. 6360; Cass. pen. 28 settembre 1999, n. 13377 “In tema di infortuni sul lavoro non occorre, per configurare la responsabilità del datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore”. |
In evidenza: Aggravamento per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro |
Cass. pen. 6 settembre 2021, n. 32899ha chiarito che la locuzione“se il fatto è commesso … con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro vada interpretata come riferita ad eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati a tale tipo di rischio. Per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore”. |
In presenza di un gravissimo infortunio mortale sul lavoro con numerose vittime, la Magistratura superiore, nel suo massimo consesso, ha escluso l'ipotesi delittuosa dell'omicidio volontario con dolo eventuale, derubricando il reato più grave, contestato dalla Procura della Repubblica, ad omicidio colposo con colpa cosciente o con previsione, poiché gli imputati ritenevano che gli eventi disastrosi non si sarebbero verificati.
In evidenza: L'elemento soggettivo nel delitto di omicidio: tra dolo eventuale e colpa cosciente |
Cassazione pen. s.u. 24 aprile 2014, n. 38343 “In tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”. |
In ambito civile, nonostante l'ampiezza dell'obbligo generale di sicurezza, dettato dall'art. 2087 c.c., la giurisprudenza esclude la responsabilità oggettiva del datore di lavoro, collegata alla semplice verificazione dell'infortunio sul lavoro o della malattia professionale, essendo indispensabile la dimostrazione della colpa del datore di lavoro (Cass. 29 marzo 2019, n. 8911; Cass. 27 febbraio 2015, n. 3989; Cass. 13 gennaio 2015, n. 340; Cass. 17 dicembre 2014, n. 26590; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. 7 agosto 2012, n. 14192).
La formulazione dell'art. 2087 c.c., come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, non implica un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a "rischio zero" quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un'attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (Cass. 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1312).
In assenza della responsabilità civile del datore di lavoro, dunque, il lavoratore danneggiato dovrà accontentarsi delle prestazioni economiche erogate dall'Inail, sempre che l'evento si sia verificato in occasione di lavoro, senza poter reclamare pure il risarcimento (Cass. 27 marzo 2012, n. 6002).
In evidenza: Responsabilità civile e per rischio professionale |
Cass. 27 marzo 2012, n. 6002 “Le condizioni per la tutela risarcitoria non possono essere eguali a quelle previste per la tutela assicurativa”; dunque, precisa la Corte, “tali condizioni se sono sufficienti per riconoscere l'indennizzabilità del sinistro, e, quindi, la responsabilità del datore di lavoro per rischio professionale, non appaiono certo sufficienti ad affermare la tutela risarcitoria del lavoratore, che presuppone la responsabilità per colpa del datore di lavoro”. |
Pertanto, non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 10 giugno 2016, n. 11981).
Si tratta di responsabilità civile contrattuale, che impone alla vittima dell'infortunio sul lavoro di allegare e dimostrare il danno subito, la violazione della norma prevenzionale commessa ed il nesso causale tra le prime due e al datore di lavoro di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare che l'infortunio si verificasse.
In evidenza: Sul riparto dell'onere della prova |
Cass. 9 giugno 2017, n. 14468; Cass. 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 28 agosto 2013, n. 19826; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 27 giugno 2011, n. 14107; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21203; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003 “Il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c.. Il superamento della presunzione comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alla specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge”. |
In estrema sintesi, la giurisprudenza di legittimità impone alla vittima quanto meno l'onere di “allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Cass. 7 maggio 2015, n. 9209; Cass. 23 dicembre 2014, n. 27364; Cass. 10 giugno 2014, n. 13863; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 7 novembre 2000, n. 14469), a meno che “la concreta situazione di fatto descritta dal lavoratore, sulla base della quale questi assume la violazione dell'obbligo di sicurezza, si presenti priva di particolari profili di complessità e cioè tale da consentire in maniera agevole, la individuazione delle condotte che astrattamente potevano pretendersi dal soggetto datore di lavoro o anche, specularmente, di escludere in radice la sussistenza di un siffatto obbligo”, in tal caso, conclude la Cassazione, “non vi è ragione di gravare il lavoratore di un onere di allegazione che nel contesto descritto finirebbe per assumere un rilievo meramente formalistico, in contrasto con la esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti” (Cass. 25 ottobre 2021, n. 29909).
Qualora il lavoratore infortunato abbia allegato e dimostrato la violazione di una misura di sicurezza "innominata", ex art. 2087 c.c., “la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe” (Cass. 7 dicembre 2021, n. 38835; Cass. 19 giugno 2020, n. 12041; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27964; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4084; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3033; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).
L'eventuale comportamento negligente, imprudente o imperito, commesso dalla vittima dell'infortunio, non esonera da responsabilità il datore di lavoro, proprio perché le norme prevenzionali servono ad evitare che si verifichino pure gli infortuni scaturiti da un comportamento colposo del lavoratore; tutt'al più il concorso colposo della vittima determina una riduzione, proporzionata al grado del concorso, della pena irrogabile in sede penale ovvero dell'ammontare del risarcimento del danno liquidato in ambito civilistico.
In evidenza: Sul comportamento colposo della vittima di un infortunio sul lavoro |
Cass. 2 ottobre 2019, n.24629; Cass. 15 maggio 2018, n.11753; Cass. 18 maggio 2017, n. 12561; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319; Cass. 19 aprile 2017, n. 9870; Cass. 18 luglio 2016, n. 14629; Cass. 3 novembre 2015, n. 22413; Cass. 8 aprile 2014, n. 896; Cass. 16 aprile 2013, n. 9167; Cass. 13 giugno 2012, n. 9661; Cass. 10 settembre 2009, n. 19494 Poiché le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, essendo dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore. Cass. 23 aprile 2012, n. 6337; Cass. 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. 17 aprile 2004, n. 7328 Il concorso di colpa del lavoratore, se accertato in termini di concausa dell'evento dannoso, determina soltanto che la misura del risarcimento sia proporzionalmente ridotta. |
In ogni caso, la condotta colposa del lavoratore è considerata irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento, atteso che la finalità di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela (Cass. 25 novembre 2019, n. 30679; Cass. 10 settembre 2019, n.22539; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5419); cosicché “la colpa o la negligenza del lavoratore non necessariamente possono considerarsi concausa dell'evento dannoso, ove abbiano potuto esplicare efficacia causale solo a causa degli inadempimenti del datore di lavoro” (Cass. 19 aprile 2019, n. 11114).
In evidenza: Esclusione del concorso di colpa |
Cass. 21 settembre 2021, n. 25597; Cass. 15 maggio 2020, n. 8988; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538 “Non sussiste un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1 (al di fuori dei casi cd. di rischio elettivo), quando risulti che il datore di lavoro abbia omesso di adottare le prescritte misure di sicurezza, oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si è verificato l'infortunio, o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio ed e', pertanto, giuridicamente irrilevante”. |
Se il comportamento colposo del lavoratore non è idoneo ad interrompere il nesso causale tra inadempimento datoriale ed infortunio, lo stesso non può dirsi nel caso in cui il lavoratore abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile o anomalo oppure esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute, ponendosi come causa esclusiva dell'evento, idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva datoriale e l'evento (Cass. 21 settembre 2021, n. 25597; Cass. 12 febbraio 2021, n. 3763; Cass. 10 settembre 2019, n. 22539; Cass. 19 marzo 2019, n. 7649; Cass. 18 giugno 2018, n. 16026; Cass. 23 maggio 2018, n. 12807; Cass. 1 giugno 2017, n. 13885; Cass. 18 maggio 2017, n. 12561; Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 13 aprile 2016, n. 7313; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. 14 ottobre 2014, n. 21647; Cass. 23 luglio 2012, n. 12779; Cass. 20 ottobre 2011, n. 21694; Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4075).
La salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, oltre ad essere assicurata tramite l'adempimento dell'obbligo generale di cui all'art.2087 c.c., viene garantita con il sistema prevenzionale, avente fonte nel diritto comunitario, predisposto con il D. Lgs. 2 agosto 2008, n. 81, definito Testo unico della sicurezza, perché in esso sono confluite le principali normative fino ad allora vigenti: i decreti presidenziali degli anni '50 del secolo scorso (D.P.R.n. 547/55; D.P.R. n. 303/56; D.P.R. n. 302/56) e il D.Lgs. n. 626/1994, oramai abrogati (art. 304, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008). Emanato in attuazione della legge di delega inserita nell'art. 1, L. 3 agosto 2007, n.123, il testo del decreto delegato è stato successivamente rivisitato con il D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 (art. 1, comma 6, L. n. 123/2007).
In evidenza: Le fonti comunitarie della normativa in materia di sicurezza sul lavoro |
La produzione normativa nazionale più recente è scaturita con il recepimento di direttive comunitarie. Dopo l'entrata in vigore dell'Atto Unico europeo dell'1 luglio 1987, che aveva previsto una procedura più snella per favorire l'adozione delle direttive in materia di prevenzione, ne sono state adottate un rilevante numero al fine di introdurre nei singoli Stati membri misure generali volte a promuovere il miglioramento della sicurezza nei luoghi di lavoro. Alla fine degli anni '80, viene pubblicata la direttiva quadro 89/391/CEE del 12 giugno 1989, con la quale è imposta agli Stati membri l'adozione di prescrizione minime per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori in tutti i settori di attività, pubblici o privati, onde ottenere la riduzione sensibile degli infortuni sul lavoro. Successivamente vengono pubblicate le direttive nn. 89/654/CEE del 30 novembre 1989; 89/655/CEE del 30 novembre 1989; 89/656/CEE del 30 novembre 1989; 90/269/CEE del 29 maggio 1990; 90/270/CEE del 29 maggio 1990; 90/394/CEE del 28 giugno 1990; 90/679/CEE del 26 novembre 1990; 92/57/CEE del 24 giugno 1992; 92/58/CEE del 24 giugno 1992; 92/85/CEE del 19 ottobre 1992; 92/91/CEE del 3 novembre 1992; 92/104/CEE del 3 dicembre 1992, 93/104/CEE, 94/33/CEE, 1999/92/CEE, 2001/45/CEE, 2002/44/CE del 25 giugno 2002, 2003/10/CE del 6 febbraio 2003, 2003/18/CE del 27 marzo 2003, 2004/40/CE del 29 aprile 2004, 2006/25/CE del 5 aprile 2006, le cui prescrizioni minime sono state recepite dapprima nel D. Lgs. n. 626/94 e, poi, nel vigente D. Lgs. n. 81/2008. |
Si tratta di un testo normativo di notevole mole, composto da 14 Titoli e 51 Allegati, nei quali, come detto, sono confluite quasi tutte le disposizioni applicabili ai luoghi di lavoro pubblici e privati in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Il Titolo I, diviso in 61 articoli, è dedicato alla disciplina comune contente i principi generali ed “esprime la logica dell'intervento legislativo contenendo le disposizioni generali necessariamente da applicare a tutte le imprese destinatarie delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro” (Relazione illustrativa al decreto legislativo), mentre i Titoli successivi contengono la disciplina tecnica. Il Titolo I è sempre applicabile, mentre i Titoli successivi concorrono con esso se ne ricorrono le condizioni di applicazione.
Il campo di applicazione oggettivo è ampio, abbracciando tutti i settori di attività, pubblici e privati, e tutte le tipologie di rischio (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), come anche quello soggettivo, che trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori e le lavoratrici, subordinati o autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati (art. 3, comma 4, D. Lgs. n. 81/2008), elencati nell'art. 2, comma 1, lett. a), D. Lgs. n. 81/2008. Nel testo dell'art. 3, inoltre, viene contemplata una disciplina specifica per alcune particolari tipologie di contratto di lavoro, come la somministrazione, oggi disciplinata con il D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il distacco, il lavoro a progetto, il lavoro accessorio.
La gestione della prevenzione deve avvenire nel rispetto delle misure generali di tutela, elencate nell'art. 15, D. Lgs. n. 81/2008, che servono a specificare l'obbligo di sicurezza in capo al datore di lavoro, anche quello generale stabilito dall'art. 2087 c.c.
In evidenza: Le misure generali di tutela elencate nell'art. 15 |
|
La violazione degli obblighi imposti agli attori del sistema prevenzionale è sanzionata penalmente, soprattutto quando i comportamenti incriminati possano mettere a repentaglio l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Si tratta di reati propri di natura contravvenzionale, generalmente puniti con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda (artt. 55 – 60, D. Lgs. n. 81/2008), sebbene sia ancora incentivato il ricorso agli strumenti con cui il reato ravvisato si estingue dopo che il responsabile abbia ottemperato al precetto della norma violata (artt. 301 – 302, D. Lgs. n. 81/2008). Se un fatto è punito sia nel Titolo I sia in uno dei Titoli successivi trova applicazione la sanzione prevista dalla disposizione speciale (art. 298, D. Lgs. n. 81/2008). Viene contemplata anche la sanzione amministrativa per le violazione di natura formale (art. 59, comma 1, lett. b) - art. 60, comma 1, lett. b) e comma 2, D. Lgs. n. 81/2008), con la previsione di uno strumento volto alla loro estinzione agevolata (art. 301/bis, D.Lgs. n. 81/2008).
Siamo in presenza di un sistema prevenzionale collaborativo, simile a quello disegnato con il D. Lgs. n. 626/94, nel quale il datore di lavoro, sul quale gravano i principali obblighi di sicurezza, è affiancato da alcuni professionisti, il Medico competente e il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che collaborano con il medesimo per l'identificazione dei rischi presenti nel luogo di lavoro e nella individuazione delle misure più idonee per eliminarli o ridurli, e da una figura individuata dai lavoratori, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con compiti di segnalazione e proposta in materia di sicurezza sul lavoro.
Il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che si può considerare come un consulente tecnico sulle decisioni aziendali in materia di sicurezza privo di poteri di spesa e gestionali, svolge compiti di studio e progettazione, senza essere obbligato ad attuare le misure di sicurezza, tanto che nel T.U. 2008 non sono previste a suo carico sanzioni penali e/o amministrative. La giurisprudenza, come anche la dottrina, sono concordi nel ritenere, pertanto, che al R.S.P.P. non sono contestabili i reati omissivi propri in materia di prevenzione imputabili ai soggetti titolari di posizioni di garanzia; pur tuttavia è configurabile una sua cooperazione colposa nel delitto di omicidio colposo o lesioni personali colpose contestati al datore di lavoro per la mancata adozione di misure di prevenzione (Cass. 9 gennaio 2002, n. 1978), se, ad esempio, abbia fornito un suggerimento palesemente errato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio che ha indotto il datore di lavoro alla violazione della normativa di sicurezza (Cass. pen. 21 dicembre 2006, n. 41947; Cass. pen. 10 febbraio 2015, n. 5983; Cass. pen. 4 maggio 2015, n. 18444; Cass. pen. 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. 19 settembre 2013, n. 38643).
I compiti del R.S.P.P., che provvede (art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008): |
|
Il Medico competente svolge compiti che la legge gli attribuisce in via esclusiva, come l'attività di sorveglianza sanitaria e la tenuta delle cartelle sanitarie e di rischio dei singoli lavoratori, essendo l'unico legittimato a trattare in piena autonomia e competenza tecnica i dati personali di natura sanitaria indispensabili per lo svolgimento della funzione di protezione della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro.
Il medico competente, essendo titolare di una propria sfera di competenza, assume il ruolo di garante a titolo originario e non derivato; cosicché, al fine di evitare la sua responsabilità penale in caso di malattia professionale, “non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un'attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale” (Cass. pen. 9 febbraio 2021, n. 21521; Cass. pen. 27 aprile 2018, n. 38402).
Il medico competente può essere punito con la sanzione penale alternativa dell'arresto o dell'ammenda o con la sanzione amministrativa pecuniaria (art. 58, D. Lgs. n. 81/2008).
Tramite la sorveglianza sanitaria si adempie ad una funzione di prevenzione primaria, diretta a contenere la diffusione degli agenti nocivi, e di prevenzione secondaria, diretta ad evitare la progressione della malattia professionale contratta dal lavoratore individuandone e neutralizzandone i sintomi.
La sorveglianza sanitaria (art. 41, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008) prevede: |
|
Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, eletto o designato per rappresentare i lavoratori in materia di salute e sicurezza sul lavoro a livello aziendale (art. 47, D. Lgs. n. 81/2008) o in ambito territoriale o di comparto produttivo (art. 48, D. Lgs. n. 81/2008), svolge una serie di compiti e funzioni, tra cui quelli di accedere ai luoghi di lavoro, di essere consultato preventivamente e tempestivamente per la valutazione dei rischi, di avanzare proposte in merito all'attività di prevenzione, di ricevere informazioni e documentazioni aziendali inerenti alla valutazione dei rischi e alle relative misure di prevenzione. Non esercitando attività gestionale, nel T.U. 2008 non sono contemplate sanzioni, penali o amministrative, a suo carico.
Le attribuzioni del RLS (art. 50, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008): |
|
Il datore di lavoro, perno dell'obbligo antinfortunistico, è “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” (nozione in senso formale) o, comunque, “il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” (nozione in senso sostanziale), come stabilito dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008.
Accanto ad esso, si pone il dirigente, la longa manus del datore di lavoro, del quale ne ricopre le medesime funzioni, definito come “persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa” (art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008).
Dunque, trattandosi di figure che possono ricoprire la medesima posizione di garanzia, la legge ne individua per entrambe gli obblighi (art. 18, D.Lgs. n. 81/2008):
Il datore di lavoro non può delegare né la nomina del RSPP, né la valutazione dei rischi, né la redazione del documento della valutazione dei rischi (art. 17, D.Lgs. n. 81/2008); l'inadempimento è sanzionato penalmente (art. 55, comma 1, lett. a) e lett. b), D.Lgs. n. 81/2008).
Il preposto, che svolge un ruolo volto a sovraintendere all'attuazione della normativa antinfortunistica, è definito come “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa” (art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008).
Gli obblighi che gravano su tale figura sono elencati nell'art. 19:
Gli obblighi del preposto (art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008) |
|
Il sistema prevenzionistico, dunque, si fonda da sempre su tre figure cardine: il datore di lavoro, il dirigente, il preposto.
Tali figure, come precisa la Magistratura superiore, “incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità e sono tenute ad adottare, nell'ambito dei rispettivi ruoli, le iniziative necessarie ai fini dell'attuazione delle misure di sicurezza appropriate; nonché ad assicurarsi che esse siano costantemente applicate.
In particolare il datore di lavoro è colui che esercita l'attività, ha la responsabilità della gestione aziendale e pieni poteri decisionali e di spesa. In connessione con tale ruolo di vertice, l'ordinamento prevede numerosi obblighi specifici penalmente sanzionati.
Tali norme individuano altresì un livello di responsabilità intermedio, incarnato dalla figura del dirigente, che dirige appunto, ad un qualche livello, l'attività lavorativa, un suo settore o una sua articolazione.
Tale soggetto non porta le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali; ma ha poteri posti ad un livello inferiore.
Il terzo livello di responsabilità riguarda la figura del preposto, che sovrintende alle attività e che quindi svolge funzioni di supervisione e controllo sulle attività lavorative concretamente svolte” (Cass. pen. sez. IV, 7 aprile 2011, n. 22334).
Nel modello di sicurezza partecipato il lavoratore ha assunto un ruolo di soggetto attivo e responsabile della propria e dell'altrui incolumità, riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui “nel sistema della normativa antinfortunistica, che si è lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, a un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori, il datore di lavoro non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, ma – una volta che abbia effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, abbia fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione e abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia – non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore” (Cass. pen. sez. IV, 21 febbraio 2018, n. 17392; Cass. pen. sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883; Cass. pen. sez. IV, 5 maggio 2015, n. 41486).
Il lavoratore deve (art. 20, D.Lgs. n. 81/2008): |
|
Il datore di lavoro, perno dell'obbligo antinfortunistico, è “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” (nozione in senso formale) o, comunque, “il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” (nozione in senso sostanziale), come stabilito dall'art. 2, comma 1, lett. b), D. Lgs. n. 81/2008.
Accanto ad esso, si pone il dirigente, la longa manus del datore di lavoro, del quale ne ricopre le medesime funzioni, definito come “persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa” (art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008).
Dunque, trattandosi di figure che possono ricoprire la medesima posizione di garanzia, la legge ne individua per entrambe gli obblighi (art. 18, D. Lgs. n. 81/2008):
Il datore di lavoro, senza possibilità di delegarne l'adempimento, deve nominare il R.S.P.P., operare la valutazione dei rischi e redigere il documento della valutazione dei rischi (art. 17, D.Lgs. n. 81/2008); l'inadempimento viene sanzionato penalmente (art. 55, comma 1, lett. a) e lett. b), D.Lgs. n. 81/2008).
Il preposto, che svolge un ruolo volto a sovraintendere all'attuazione della normativa antinfortunistica, è definito come “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa” (art. 2, comma 1, lett. d), D. Lgs. n. 81/2008). Si tratta di figura individuata dal datore di lavoro o dal dirigente con l'obbligo di intervenire per far cessare comportamenti irregolari non conformi alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dai dirigenti anche tramite l'interruzione dell'attività lavorativa, che viene ordinata, altresì, in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e di ogni condizione di pericolo riscontrata durante la vigilanza.
In particolare, gli obblighi che gravano su tale figura sono elencati nell'art. 19.
Gli obblighi del preposto (art. 19, comma 1, D. Lgs. n. 81/2008) |
|
Le sanzioni penali previste a carico del preposto sono stabilite nell'art. 56, D. Lgs. n. 81/2008 che, ad esempio, prevede la pena dell'arresto o dell'ammenda per la violazione dell'obbligo di sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione.
Il sistema prevenzionistico, dunque, si fonda da sempre su tre figure cardine: il datore di lavoro, il dirigente, il preposto. Tali figure, come precisa la Magistratura superiore, “incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità e sono tenute ad adottare, nell'ambito dei rispettivi ruoli, le iniziative necessarie ai fini dell'attuazione delle misure di sicurezza appropriate; nonché ad assicurarsi che esse siano costantemente applicate. In particolare …… il datore di lavoro è colui che esercita l'attività, ha la responsabilità della gestione aziendale e pieni poteri decisionali e di spesa. In connessione con tale ruolo di vertice, l'ordinamento prevede numerosi obblighi specifici penalmente sanzionati. Tali norme individuano altresì un livello di responsabilità intermedio, incarnato dalla figura del dirigente, che dirige appunto, ad un qualche livello, l'attività lavorativa, un suo settore o una sua articolazione. Tale soggetto non porta le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali; ma ha poteri posti ad un livello inferiore. Il terzo livello di responsabilità riguarda la figura del preposto, che sovrintende alle attività ……. e che quindi svolge funzioni di supervisione e controllo sulle attività lavorative concretamente svolte” (Cass. pen. 7 aprile 2011, n. 22334).
Nel modello di sicurezza partecipato il lavoratore ha assunto un ruolo di soggetto attivo e responsabile della propria e dell'altrui incolumità, riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione, secondo cui “nel sistema della normativa antinfortunistica, che si è lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, a un modello “collaborativo”, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori, il datore di lavoro non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, ma – una volta che abbia effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, abbia fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione e abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia – non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore” (Cass. pen. 21 febbraio 2018, n. 17392; Cass. pen. 10 febbraio 2016, n. 8883; Cass. pen. 5 maggio 2015, n. 41486).
Per il ruolo attivo richiesto dal sistema prevenzionale vigente anche il lavoratore può essere punito penalmente con l'arresto o l'ammenda (art. 59, D. Lgs. n. 81/2008) in caso di mancato rispetto degli obblighi ad esso imposti.
Gli obblighi del lavoratore (art. 20, D.Lgs. n. 81/2008): |
|
Normativa:
−
Artt
.
t
.
32,
41, comma 2, Cost.
−
Artt.
20
87 cc
;
−
D. Lgs.
n.
81/2008
.
Giurisprudenza:
−
C
costo orte.
25 luglio 1996,
n.
312
;
−
Costo Corte.
23 marzo 2018, n.
58
;
−
Cass.
penna.
su 24 aprile 2014, n.
38343
:
−
Cass.
27 marzo 2012, n.
6002
.