29 Luglio 2024

La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trova il suo primo autorevole fondamento giuridico nella Costituzione, nella quale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non può divenire arbitraria, essendo sottoposta a precisi limiti, tra cui quello di non arrecare danno alla sicurezza e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.).

Inquadramento

La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trova il suo primo autorevole fondamento giuridico nella Costituzione, nella quale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non può divenire arbitraria, essendo sottoposta a precisi limiti, tra cui quello di non arrecare danno alla sicurezza e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.),

Pur non possedendo un'immediata efficacia precettiva e sanzionatoria, i principi costituzionali implicano che la libertà di impresa non possa sacrificare la tutela del lavoratore; ciò ha comportato che la giurisprudenza abbia interpretato in maniera rigorosa l'obbligo di sicurezza, sia generale sia specifico, che grava principalmente sul datore di lavoro.

In particolare, l'obbligo generale di sicurezza, dettato dalla norma contenuta nell'art. 2087 c.c., che impone all'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro mediante l'adozione anche di misure atipiche, così definite perché non sono indicate espressamente dal Legislatore, è affiancato da quello specifico, dettato dalla disciplina preventiva speciale, oggi contenuta nel “testo unico” di salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81).

Come si ricava dalla definizione di “prevenzione”, intesa come “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno” (art. 2, comma 1, lett. n), D. Lgs. n. 81/2008), l'apparato normativo vigente mira, innanzi tutto, ad eliminare e/o ridurre il rischio presente nei luoghi di lavoro, al fine di diminuire le cause degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali, che ancora colpiscono numerosi lavoratori.

La sicurezza sul lavoro nella Costituzione e nelle norme internazionali e comunitarie

La Costituzione rappresenta il primo consistente baluardo posto a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Infatti, nella Carta costituzionale si afferma che la salute rappresenta un diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l'iniziativa economica privata, seppur libera, non deve recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41, comma 2, Cost.).

La Corte costituzionale ha chiarito che “l'art. 41 deve essere interpretato nel senso che esso limita espressamente la tutela dell'iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore” (Corte cost. 29 ottobre 1999, n. 405), come anche che le norme di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongano ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, che devono operare in un ambiente esente da rischi (Corte cost. 20 dicembre 1996, n. 399).

In caso di conflitto tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare tra la salute (art. 32 Cost.) e il lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali, si deve procedere ad un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, senza consentire “l'illimitata espansione di uno dei due diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette”, poiché, prosegue la Corte, “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri” (Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85); ciò significa che il Legislatore non può consentire la prosecuzione dell'attività di impresa in presenza di impianti pericolosi per la vita o l'incolumità umana, vanificando gli effetti di una misura cautelare reale disposta dall'Autorità giudiziaria penale. Infatti, “rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumità e la vita dei lavoratori costituisce condizione minima e indispensabile perché l'attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona” (Corte cost. 23 marzo 2018, n. 58).

Con la L. 8 giugno 2023, n. 84, l'Italia ha ratificato le seguenti Convenzioni emesse dall'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL): a) Convenzione sulla salute e la sicurezza dei lavori, n. 155, adottata a Ginevra il 22 giugno 1981, e relativo Protocollo, adottato a Ginevra il 20 giugno 2002; b) Convenzione sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, n. 187, adottata a Ginevra il 15 giugno 2006, con l'obiettivo di aderire alle politiche di prevenzione degli infortuni derivati dal lavoro tramite la riduzione al minimo delle cause di rischio, in realtà già perseguite con la legislazione ordinaria (D. Lgs. n. 81/2008).

Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea si afferma il diritto all'integrità fisica e psichica della persona (art. 3, Carta di Nizza), come anche quello di ogni lavoratore “a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” (art. 31, Carta di Nizza). Per armonizzare e, nel contempo, spingere i Paesi membri a migliorare i livelli di sicurezza sul lavoro, gli organi comunitari si sono avvalsi di direttive contenenti prescrizioni minime di tutela con l'obbligo di recepimento nei singoli ordinamenti (vedi tabella infra ).

Al fine di salvaguardare al meglio la salute e sicurezza dei lavoratori, il sistema normativo agisce su due piani distinti, identificando preventivamente le regole di condotta che il datore di lavoro deve osservare onde prevenire danni a beni fondamentali della persona e, poi, nel caso in cui tali danni si verifichino, delineando la responsabilità, penale o civile, in chiave sanzionatoria o riparatoria.

Poiché la salute rappresenta un diritto fondamentale e indisponibile, la mancata adozione delle misure di sicurezza è sanzionata penalmente, sempre quando determina un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, anche al fine di incentivare il datore di lavoro al rispetto dell'obbligo generale di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. o della legislazione speciale in materia di sicurezza sul lavoro (Corte cost. 26 maggio 1981, n. 74).

L'obbligo generale di sicurezza: l'art. 2087 c.c.

L'art. 2087 c.c. rappresenta il fulcro del sistema prevenzionistico, imponendo un obbligo generale di sicurezza sul datore di lavoro, chiamato ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure più efficaci per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Si è detto in dottrina che la struttura della norma sia elastica, essendo aperta ai mutamenti economico-sociali e capace di adattarsi alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico, destinata, quindi, a sanare fratture del sistema, che non può prevedere ogni fattore di rischio, traendo dalla Costituzione nuova linfa e potenzialità espansive (anche Cass. 6 settembre 1988, n. 5048).

Sul datore di lavoro grava un obbligo a contenuto generico, tanto che la norma è stata definita “in bianco” o “di chiusura” (proprio perché impone uno standard minimale di sicurezza) del sistema prevenzionale, seppur circoscritto all'adozione di quelle misure ritenute indispensabili sulla base della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.

In evidenza: Art. 2087 c.c. - Tutela delle condizioni di lavoro

L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

  • Particolarità del lavoro: con tale criterio si fa riferimento a quella specifica organizzazione produttiva in cui si devono adottare le misure di sicurezza rispetto ai rischi e pericoli insiti nell'ambiente di lavoro e nel tipo di lavorazione eseguita;
  • Esperienza: con tale criterio si rimanda a quelle misure che si sono rivelate decisive nel passato per contrastare efficacemente i rischi presenti in quel determinato ambiente di lavoro o ritenute tali sulla base dell'esperienza personale maturata nel settore della sicurezza dal titolare della posizione di garanzia;
  • Tecnica: si tratta del criterio più rilevante perché impone al datore di lavoro di adottare le misure di sicurezza più evolute, quelle dettate dalle più recenti innovazioni tecnologiche.

Sulla base del criterio della “tecnica” la giurisprudenza ha elaborato il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, in base al quale il datore di lavoro deve adottare tutti i rimedi suggeriti dalla tecnica e dalla scienza più evolute, a prescindere da valutazioni sulla loro concreta fattibilità o dal loro costo, purché siano esigibili dal lavoratore secondo le regole di correttezza e buona fede (Cass. 16 maggio 2017, n. 12110).

In evidenza: Il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile

Corte cost. 27 aprile 1988, n. 475 ; Corte cost. 7 maggio 1991, n. 202

L'imprenditore deve rispettare i suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico, garantendo il miglior livello di tutela per i lavoratori.

Corte cost. 25 luglio 1996, n. 312

L'obbligazione in capo al datore di lavoro è stata circoscritta alle “misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive”, limitando, quindi, l'obbligo di sicurezza al rispetto di quanto generalmente acquisito e praticato sul piano delle misure tecniche (massima sicurezza generalmente praticata).

La Magistratura superiore applica il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, “in base al quale il datore deve adoperarsi per evitare o ridurre l'esposizione al rischio dei dipendenti al di là delle specifiche previsioni dettate dalla normativa prevenzionale, conformando il proprio operato ad una diligenza particolarmente qualificata, che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell'esperienza e della tecnica” (Cass. 21 settembre 2016, n. 18503; Cass. 30 giugno 2016, n. 13465), negando che il criterio della "sicurezza generalmente praticata" possa consentire un abbassamento della soglia di prevenzione, in ragione di standards eventualmente non adeguati, praticati in una determinata cerchia di imprenditori, rispetto a quelli che sarebbe stato necessario adottare in ragione dello sviluppo tecnico concretamente disponibile (Cass. pen. 17 settembre 2010, n. 43786).

Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è stato affrontato anche dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale i rischi professionali oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte ma si evolvono in funzione dello sviluppo, delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia (sentenza 15 novembre 2001, n. 49, nella causa C- 49/00).

Sebbene l'imprenditore non debba “eliminare, sempre e completamente, qualsiasi sorta di rischio alla salute connesso al rapporto di lavoro”, ha affermato la Suprema Corte, “è anche vero che il rischio - quando non può essere eliminato alla fonte - deve essere reso comunque insignificante per la salute, alla stregua delle misure di prevenzione in concreto attuabili e disponibili sul mercato in un determinato momento storico, secondo la migliore tecnica ed esperienza; ma senza alcun abbassamento della soglia di prevenzione rispetto agli standard eventualmente non adeguati praticati in una determinata cerchia di imprenditori” (Cass. 9 settembre 2021, n. 24408).

L'obbligo di sicurezza è assolto con l'adozione di misure di sicurezza cd. “nominate”, così definite perché espressamente e specificamente indicate nella legge (o da altra fonte ugualmente vincolante, come le regole d'esperienza o quelle tecniche preesistenti e collaudate), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici o di quelle definite “innominate”, ricavabili nel rispetto del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità.

L'obbligo generale di sicurezza, data la sua importanza, rientra automaticamente nel sinallagma contrattuale; cosicché la sua violazione rappresenta un inadempimento contrattuale, che consente al prestatore di lavoro di negare la prestazione lavorativa, sino a che permanga la situazione di pericolo che può mettere a repentaglio la sua incolumità.

In evidenza: Sul rifiuto del lavoratore ad adempiere la prestazione lavorativa in assenza delle misure di sicurezza

Cass. 12 gennaio 2023, n. 770; Cass. n. 28353/2021; Cass. n. 6631/2015

Con specifico riferimento alla violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., è considerato legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli ragione della condotta inadempiente del datore, posto che è in gioco il diritto alla salute di rilievo costituzionale.

Cass. 29 marzo 2019, n. 8911

Il dipendente può rifiutarsi di svolgere la prestazione se il datore di lavoro omette di applicare le misure di sicurezza. Deve però provare la gravità e la rilevanza di tale inadempimento, qualora la violazione non riguardi precauzioni espressamente previste dalla legge e attenga agli obblighi generali fissati dall'articolo 2087 del codice civile.

Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 9 maggio 2005, n. 9576

È ingiustificato il licenziamento intimato a causa dell'astensione del lavoratore dalla prestazione di specifiche attività, la cui esecuzione può rivelarsi pericolosa per la mancata adozione delle misure necessarie, sempre che la necessità di tale misura sia evidente e che il lavoratore abbia informato di tale carenza il datore di lavoro.

Sebbene in origine l'obbligo generale di sicurezza fosse imposto a tutela dei lavoratori subordinati (art. 2094 c.c.), la giurisprudenza di legittimità più recente ha esteso tale dovere anche a difesa di prestatori di lavoro assunti con tipologie contrattuali differenti, non potendosi negare le esigenze di protezione alle altre categorie per ragioni puramente formali, in presenza soprattutto di una medesima esposizione a rischio. È oramai consolidato che l'espressione "prestatori di lavoro", contenuto nell'art. 2087 c.c. abbia assunto una portata ampia; dunque, la categoria dei prestatori di lavoro non coincide solo con quella dei lavoratori subordinati ma include anche altri soggetti, sia normativamente equiparati ai lavoratori subordinati e sia comunque attratti nell'alveo di protezione della sicurezza e salute sul lavoro, anche se estranei al rapporto di lavoro (Cass. 16 dicembre 2022, n. 37019; in senso conformeCass. n. 21694/2011; Cass. n. 21894/2016).

Infatti, la normativa in tema di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è operante in relazione a tutte le forme di lavoro, anche nelle ipotesi in cui non sussista un formale rapporto di lavoro, fino ad ampliare l'ambito di esplicazione della posizione di garanzia a favore di terzi che frequentino le strutture aziendali (Cass. pen. 5 ottobre 2021, n. 38623).

La responsabilità penale e civile del datore di lavoro per violazione dell'obbligo generale di sicurezza, l'onere della prova e il concorso colposo del lavoratore

La violazione dell'obbligo generale di sicurezza viene sanzionata sul piano penale solo in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale. La norma contenuta nell'art. 2087 c.c., infatti, contiene un precetto privo di sanzione in caso di mancato adempimento

In ambito penale, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato la responsabilità del datore di lavoro per i delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), aggravati con la violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 589, comma 2, e art. 590, comma 3 e comma 6, c.p.), nel senso attribuito dalla Cassazione penale, tra cui rientra pure quella derivata dal mancato rispetto dell'art. 2087 c.c. e dell'obbligo generale di sicurezza.

In evidenza: Responsabilità penale per violazione dell'obbligo generale di sicurezza

Cass. pen. 12 novembre 2021, n.9745; Cass. pen. 10 novembre 2015, n. 46979; Cass. pen. 11 febbraio 2010, n. 8641; Cass. pen. 1° dicembre 2009, n. 4917; Cass. pen. 26 gennaio 2005, n. 6360; Cass. pen. 28 settembre 1999, n. 13377

“In tema di infortuni sul lavoro non occorre, per configurare la responsabilità del datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore”.

In evidenza: Aggravamento per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro

Cass. pen. 6 settembre 2021, n. 32899, ha chiarito che la locuzione “se il fatto è commesso … con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro vada interpretata come riferita ad eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati a tale tipo di rischio. Per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore”.

Cass. pen. 18 aprile 2023, n. 16305

Non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per l'addebito di colpa specifica, è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione del citato art. 2087, che fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

In presenza di un gravissimo infortunio mortale sul lavoro con numerose vittime, la Magistratura superiore, nel suo massimo consesso, ha escluso l'ipotesi delittuosa dell'omicidio volontario con dolo eventuale, derubricando il reato più grave, contestato dalla Procura della Repubblica, ad omicidio colposo con colpa cosciente o con previsione, poiché gli imputati ritenevano che gli eventi disastrosi non si sarebbero verificati.

In evidenza: L'elemento soggettivo nel delitto di omicidio: tra dolo eventuale e colpa cosciente

Cass. pen. s.u. 24 aprile 2014, n. 38343

“In tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.

In ambito civile, nonostante l'ampiezza dell'obbligo generale di sicurezza, dettato dall'art. 2087 c.c., la giurisprudenza esclude la responsabilità oggettiva del datore di lavoro, collegata alla semplice verificazione dell'infortunio sul lavoro o della malattia professionale, essendo indispensabile la dimostrazione della colpa del datore di lavoro (Cass. 26 febbraio 2024, n.5061; Cass. n. 24804/2023; Cass. n. 34968/2022; Cass. n. 33239/2022; Cass. 29 marzo 2019, n. 8911; Cass. 27 febbraio 2015, n. 3989; Cass. 13 gennaio 2015, n. 340).

La formulazione dell'art. 2087 c.c., come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, non implica un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a "rischio zero" quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un'attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (Cass. 25 ottobre 2021, n. 29909; Cass. 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1312).

In assenza della responsabilità civile del datore di lavoro, dunque, il lavoratore danneggiato dovrà accontentarsi delle prestazioni economiche erogate dall'INAIL, sempre che l'evento si sia verificato in occasione di lavoro, senza poter reclamare pure il risarcimento, sebbene nei limiti del danno differenziale (Cass. 27 marzo 2012, n. 6002).

In evidenza: Responsabilità civile e per rischio professionale

Cass. 27 marzo 2012, n. 6002

“Le condizioni per la tutela risarcitoria non possono essere eguali a quelle previste per la tutela assicurativa”; dunque, precisa la Corte, “tali condizioni se sono sufficienti per riconoscere l'indennizzabilità del sinistro, e, quindi, la responsabilità del datore di lavoro per rischio professionale, non appaiono certo sufficienti ad affermare la tutela risarcitoria del lavoratore, che presuppone la responsabilità per colpa del datore di lavoro”.

Pertanto, non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi dell'infortunio, l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 10 giugno 2016, n. 11981).

In evidenza: Sul riparto dell'onere della prova

Trattandosi di responsabilità colposa di natura contrattuale, la Magistratura superiore ha ritenuto che “il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di esso con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa non imputabile, e cioè deve avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno” (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184; Cass. 10 gennaio 2007, n. 238; Cass. 8 maggio 2007, n. 10441; Cass. 7 aprile 2008, n. 8973; Cass. n. 10529/2008; Cass. 14 aprile 2008, n. 9817); principio ancora ribadito più recentemente (Cass. 24 agosto 2023, n. 25217; Cass. 14 luglio 2023, n. 20384; Cass. 28 ottobre 2022, n. 31919; Cass. 28 ottobre 2022, n. 31957; Cass. 27 ottobre 2022, n. 31852; Cass. 20 ottobre 2022, n. 31048; Cass. 7 marzo 2022, n. 7390; Cass. 11 agosto 2020, n. 16869).

Accanto a tale orientamento, se ne segnala un altro che impone al lavoratore vittima di un infortunio di allegare e dimostrare la nocività dell'ambiente di lavoro, nel senso che “incombe al lavoratore che lamenti di avere subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” (Cass. 15 aprile 2024, n. 10043; Cass. 19 maggio 2023, n. 13806; Cass. 28 febbraio 2023, n. 6008; Cass. 17 gennaio 2022, n. 1269; Cass. n. 1509/2021; Cass. 29 ottobre 2020, n. 23921; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516; Cass. 19 ottobre 2018, 26495; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319). Nel medesimo solco si collocano alcune decisioni con cui la Cassazione ha affermato che “il lavoratore, il quale agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro, ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall'art. 1218 c.c.” (Cass. 2 dicembre 2022, n. 35575; Cass. 9 giugno 2017, n. 14468; Cass. 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 28 agosto 2013, n. 19826; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 27 giugno 2011, n. 14107; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21203; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003), con la precisazione che l'onere di allegazione del lavoratore non può estendersi fino a comprendere anche l'individuazione delle specifiche “norme di cautela violate”, “specie ove non si tratti di misure tipiche o nominate ma di casi in cui molteplici e differenti possono essere le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza. È, invece, necessario, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, ed il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l'onere di provare l'inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti” (Cass. 5 aprile 2024, n. 9120).

La giurisprudenza di legittimità, allora, impone alla vittima quanto meno l'onere di “allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Cass. 7 maggio 2015, n. 9209; Cass. 23 dicembre 2014, n. 27364; Cass. 10 giugno 2014, n. 13863; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 7 novembre 2000, n. 14469), a meno che “la concreta situazione di fatto descritta dal lavoratore, sulla base della quale questi assume la violazione dell'obbligo di sicurezza, si presenti priva di particolari profili di complessità e cioè tale da consentire in maniera agevole, la individuazione delle condotte che astrattamente potevano pretendersi dal soggetto datore di lavoro o anche, specularmente, di escludere in radice la sussistenza di un siffatto obbligo”, in tal caso, conclude la Cassazione, “non vi è ragione di gravare il lavoratore di un onere di allegazione che nel contesto descritto finirebbe per assumere un rilievo meramente formalistico, in contrasto con la esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti” (Cass. 25 ottobre 2021, n. 29909).

Qualora il lavoratore infortunato abbia allegato e dimostrato la violazione di una misura di sicurezza "innominata", ex art. 2087 c.c., “la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe” (Cass. 19 maggio 2023, n. 13806; Cass. 10 novembre 2022, n. 33239; Cass. 9 febbraio 2022, n. 4210; Cass. 7 dicembre 2021, n. 38835; Cass. 19 giugno 2020, n. 12041; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27964; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4084; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3033; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).

L'eventuale comportamento negligente, imprudente o imperito, commesso dalla vittima dell'infortunio, non esonera da responsabilità il datore di lavoro, proprio perché le norme prevenzionali servono ad evitare che si verifichino pure gli infortuni scaturiti da un comportamento colposo del lavoratore; tutt'al più il concorso colposo della vittima determina una riduzione, proporzionata al grado del concorso, della pena irrogabile in sede penale ovvero dell'ammontare del risarcimento del danno liquidato in ambito civilistico (Cass. 23 aprile 2012, n. 6337; Cass. 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. 17 aprile 2004, n. 7328).

In evidenza: Responsabilità civile e per rischio professionale

Cass. 27 marzo 2012, n. 6002

“Le condizioni per la tutela risarcitoria non possono essere eguali a quelle previste per la tutela assicurativa”; dunque, precisa la Corte, “tali condizioni se sono sufficienti per riconoscere l'indennizzabilità del sinistro, e, quindi, la responsabilità del datore di lavoro per rischio professionale, non appaiono certo sufficienti ad affermare la tutela risarcitoria del lavoratore, che presuppone la responsabilità per colpa del datore di lavoro”.

In evidenza: Sul comportamento colposo della vittima di un infortunio sul lavoro

Il comportamento colposo del lavoratore non può interrompere il nesso causale tra la violazione commessa dal datore di lavoro e l'infortunio sul lavoro. Si tratta di un principio che ha conservato la sua valenza anche dopo il passaggio da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori ad un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (art. 20, D. Lgs. n. 81/2008), chiamati ad attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e ad agire con diligenza, prudenza e perizia. In questo contesto, introdotto dapprima con il D. Lgs. n. 626/1994, poi confermato con il D. Lgs. n. 81/2008, si è passati dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (Cass. pen. 23 marzo 2007, n. 21587), che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.

In evidenza: Le fonti comunitarie della normativa in materia di sicurezza sul lavoro

La produzione normativa nazionale più recente è scaturita con il recepimento di direttive comunitarie. Dopo l'entrata in vigore dell'Atto Unico europeo del 1° luglio 1987, che aveva previsto una procedura più snella per favorire l'adozione delle direttive in materia di prevenzione, ne sono state adottate un rilevante numero al fine di introdurre nei singoli Stati membri misure generali volte a promuovere il miglioramento della sicurezza nei luoghi di lavoro. Alla fine degli anni '80, viene pubblicata la direttiva quadro 89/391/CEE del 12 giugno 1989, con la quale è imposta agli Stati membri l'adozione di prescrizione minime per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori in tutti i settori di attività, pubblici o privati, onde ottenere la riduzione sensibile degli infortuni sul lavoro. Successivamente vengono pubblicate le direttive nn. 89/654/CEE del 30 novembre 1989; 89/655/CEE del 30 novembre 1989; 89/656/CEE del 30 novembre 1989; 90/269/CEE del 29 maggio 1990; 90/270/CEE del 29 maggio 1990; 90/394/CEE del 28 giugno 1990; 90/679/CEE del 26 novembre 1990; 92/57/CEE del 24 giugno 1992; 92/58/CEE del 24 giugno 1992; 92/85/CEE del 19 ottobre 1992; 92/91/CEE del 3 novembre 1992; 92/104/CEE del 3 dicembre 1992, 93/104/CEE, 94/33/CEE, 1999/92/CEE, 2001/45/CEE, 2002/44/CE del 25 giugno 2002, 2003/10/CE del 6 febbraio 2003, 2003/18/CE del 27 marzo 2003, 2004/40/CE del 29 aprile 2004, 2006/25/CE del 5 aprile 2006, le cui prescrizioni minime sono state recepite dapprima nel D. Lgs. n. 626/94 e, poi, nel vigente D. Lgs. n. 81/2008.

Si tratta di un testo normativo di notevole mole, composto da 14 Titoli e 51 Allegati, nei quali, come detto, sono confluite quasi tutte le disposizioni applicabili ai luoghi di lavoro pubblici e privati in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Il Titolo I, diviso in 61 articoli, è dedicato alla disciplina comune contente i principi generali ed “esprime la logica dell'intervento legislativo contenendo le disposizioni generali necessariamente da applicare a tutte le imprese destinatarie delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro” (Relazione illustrativa al decreto legislativo), mentre i Titoli successivi contengono la disciplina tecnica. Il Titolo I è sempre applicabile, mentre i Titoli successivi concorrono con esso se ne ricorrono le condizioni di applicazione.

Il campo di applicazione oggettivo è ampio, abbracciando tutti i settori di attività, pubblici e privati, e tutte le tipologie di rischio (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), come anche quello soggettivo, che trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori e le lavoratrici, subordinati o autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati (art. 3, comma 4, D. Lgs. n. 81/2008), elencati nell'art. 2, comma 1, lett. a), D. Lgs. n. 81/2008. Nel testo dell'art. 3, inoltre, viene contemplata una disciplina specifica per alcune particolari tipologie di contratto di lavoro, come la somministrazione, oggi disciplinata con il D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il distacco, le collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro accessorio.

La gestione della prevenzione deve avvenire nel rispetto delle misure generali di tutela, elencate nell'art. 15, D. Lgs. n. 81/2008, che servono a specificare l'obbligo di sicurezza in capo al datore di lavoro, anche quello generale stabilito dall'art. 2087 c.c.

In evidenza: Le misure generali di tutela elencate nell'art. 15

  • a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza;
  • b) la programmazione della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive dell'azienda nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente e dell'organizzazione del lavoro;
  • c) l'eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;
  • d) il rispetto dei principi ergonomici nell'organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo;
  • e) la riduzione dei rischi alla fonte;
  • f) la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;
  • g) la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio;
  • h) l'utilizzo limitato degli agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
  • i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
  • l) il controllo sanitario dei lavoratori;
  • m) l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione;
  • n) l'informazione e formazione adeguate per i lavoratori;
  • o) l'informazione e formazione adeguate per dirigenti e i preposti;
  • p) l'informazione e formazione adeguate per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
  • q) l'istruzioni adeguate ai lavoratori;
  • r) la partecipazione e consultazione dei lavoratori;
  • s) la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
  • t) la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, anche attraverso l'adozione di codici di condotta e di buone prassi;
  • u) le misure di emergenza da attuare in caso di primo soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave e immediato;
  • v) l'uso di segnali di avvertimento e di sicurezza;
  • z) la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti.

La violazione degli obblighi imposti agli attori del sistema prevenzionale è sanzionata penalmente, soprattutto quando i comportamenti incriminati possano mettere a repentaglio l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Si tratta di reati propri di natura contravvenzionale, generalmente puniti con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda (artt. 55 – 60, D. Lgs. n. 81/2008), sebbene sia ancora incentivato il ricorso agli strumenti con cui il reato ravvisato si estingue dopo che il responsabile abbia ottemperato al precetto della norma violata (artt. 301 – 302, D. Lgs. n. 81/2008). Se un fatto è punito sia nel Titolo I sia in uno dei Titoli successivi trova applicazione la sanzione prevista dalla disposizione speciale (art. 298, D. Lgs. n. 81/2008). Viene contemplata anche la sanzione amministrativa per le violazioni di natura formale (art. 59, comma 1, lett. b) - art. 60, comma 1, lett. b) e comma 2, D. Lgs. n. 81/2008), con la previsione di uno strumento volto alla loro estinzione agevolata (art. 301/bis, D.Lgs. n. 81/2008).

Riferimenti

Normativa:

Per i recenti orientamenti sul tema, v.  DL 4 maggio 2023 n. 48, conv., con modif., in L. 3 luglio 2023 n. 85, con commento di A. Rossi, Decreto lavoro e sicurezza: le novità inserite con la legge di conversione in tema di sorveglianza sanitaria e di edifici scolastici

Artt. 32, 41, comma 2, Cost.

Art. 2088, c.c.

D. Lgs.  n.  81/2008

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v.  Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 2024, n. 4210, con commento di D. Piva, Infortuni sul lavoro: accertamento dell' “interesse o vantaggio” e della “colpa di organizzazione” tra “oggettivo” e “soggettivo” nella responsabilità della società; Tribunale Roma, sez. lav., 19 dicembre 2023, con commento di G. Guarini, L. Manunta, Licenziamento disciplinare del RLS: è nullo in quanto l'attivazione dei protocolli di sicurezza aziendali spetta esclusivamente al datore di lavoroCass., sez. lav., 24 agosto 2023, n. 25217, con commento di T. Zappia, Sicurezza sul lavoro: adeguatezza delle misure cautelari adottate e responsabilità del datore; Cass. Pen. sez. IV, 6 aprile 2023, n. 30167

Corte cost., 25 luglio 1996, n.  312

Cass.  pen.  su 24 aprile 2014, n.  38343

Corte cost.,  23 marzo 2018, n.  58

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