Condominio e locazione

Azienda (affitto di)

06 Luglio 2018

L'affitto di azienda è un contratto regolamentato espressamente dal codice civile che consente al proprietario della stessa di perseguire numerose finalità (dall'ottenimento di un corrispettivo, alla gestione del passaggio generazionale). Secondo la concezione adottata dalla legge, l'azienda consiste in un'universalità di beni mobili e immobili organizzati unitariamente allo scopo della produzione e dello scambio da parte dell'imprenditore. La relativa normativa regolamenta specificamente numerosi aspetti della fattispecie quali la forma del contratto, il divieto di concorrenza, il subentro nei contratti in essere...
Inquadramento

Il contratto di affitto d'azienda è un contratto tipico, previsto dagli artt. 2561 e 2562 c.c., con il quale il proprietario di un'azienda trasferisce ad un terzo la utilizzazione (gestione) della stessa, mantenendone la proprietà. L'istituto, specie negli ultimi tempi, è frequentemente utilizzato, in quanto, oltre a consentire al concedente di ricevere un corrispettivo da parte di altro soggetto utilizzatore, si rivela particolarmente utile anche ad altre finalità. L'affitto d'azienda può essere utilizzato, ad esempio, allo scopo di agevolare il passaggio generazionale nella titolarità dell'azienda stessa, e quale strumento idoneo ad affrontare le crisi d'impresa e permettere soluzioni-ponte mantenendo la continuità aziendale, e ciò nella prospettiva di procedimenti concorsuali o di un possibile acquirente dell'intero complesso aziendale e a tale scopo l'articolo 3, comma 4, della legge n. 223/1991 prevede un diritto di prelazione dell'affittuario all'acquisto dell'azienda nel caso in cui il concedente fosse stato assoggettato a determinate procedure concorsuali (liquidazione coatta amministrativa, di amministrazione straordinaria, di concordato preventivo con cessione dei beni, oltre che nel caso di dichiarazione di fallimento). Pertanto concedere la gestione dietro corrispettivo dell'azienda in crisi, consente di mantenere in vita l'impresa almeno temporaneamente, di non azzerarne il giro d'affari e di mantenere il valore dell'avviamento, non facendo gravare sul nuovo gestore le passività della precedente gestio.

L'oggetto del contratto è, appunto, “l'azienda” descritta nell'articolo 2555 c.c. e che, secondo principi assolutamente consolidati, è costituita da quel complesso unitario o universalità (art. 816 c.c.) di beni mobili e immobili, materiali e immateriali, organizzati unitariamente allo scopo della produzione e dello scambio da parte dell'imprenditore di beni e servizi (articoli 2082 e 2555 c.c.). Dunque l'azienda è lo strumento mediante il quale l'imprenditore esercita l'attività di impresa (Cass. civ., sez. III, 7 novembre 1983, n. 6572) e ne fanno parte tutti i beni e rapporti giuridici dei quali imprenditore dispone legittimamente per l'esercizio della sua attività e quindi per acquisire e mantenere la sua presenza nel mercato di riferimento, e mantenere ed incrementare tutti i rapporti con fornitori di beni e di servizi e con i clienti, strumentali all'esercizio della impresa e il suo avviamento, comprendente le competenze professionali e l'affectio dei clienti e del personale dipendente Quest'ultimo elemento dell'azienda, di regola acquisibile con il suo esercizio effettivo, non ha valore essenziale avendo più volte chiarito la giurisprudenza di legittimità che il requisito dell'azienda è rappresentato dalla organizzazione dei suoi componenti ma non dalla effettiva sua produttività, la quale può variare nel tempo per i motivi più diversi, essendo sufficiente la potenziale attitudine produttiva del complesso dei beni organizzati (cfr., da ultimo Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2016, n. 10154). Pertanto il contratto di affitto d'azienda non richiede necessariamente la presenza di tutti i possibili elementi costitutivi, ben potendo alcuni di essi – specie quelli immateriali quale l'avviamento – non essere presenti al momento del contratto.

In evidenza

L'oggetto del contratto può essere costituito anche da una parte o ramo della azienda (così definito nella prassi), autonomo sotto il profilo funzionale e organizzativo e quindi in grado di mantenere, anche potenzialmente, la sua collocazione nel mercato. L'art. 2112, comma 5, c.c. definisce detto “ramo” come «parte dell'azienda... funzionalmente autonoma», rimandando al contempo all'autonomia delle parti per una più specifica identificazione dello stesso.

La disciplina dell'affitto d'azienda è integrata dalla disciplina dell'usufrutto di azienda (artt. 2561 e 2562 c.c.) quanto agli obblighi dell'affittuario di mantenimento del principale segno distintivo dell'azienda (la ditta,ovvero la sua denominazione commerciale: articolo 2563 c.c.), della sua destinazione e della sua struttura organizzativa in modo da mantenerne l'efficienza. Detta disciplina si completa con l'art. 2556 c.c., relativo alla forma dei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell'azienda, e con gli artt. 2557 e 2558 c.c. che regolano rispettivamente il divieto di concorrenza e la successione nei contratti; con l'art. 2112 c.c. concernente il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda e infine con l'art. 36 della legge n. 392/1978 che disciplina le condizioni per il trasferimento del rapporto di locazione di immobile strumentale.

Come detto, l'affitto così come la cessione in proprietà ed in usufrutto, può avere per oggetto non l'intera azienda ma un ramo di questa, dotato della necessaria autonomia funzionale ed organizzativa.

La disciplina dell'affitto

Forma ad probationem. L'art. 2556, comma 1, c.c., prevede la forma scritta per la dimostrazione della esistenza o della modificazione dei contratti (esempio, per la loro proroga o risoluzione), che hanno quale effetto il trasferimento della proprietà (compravendita) o il godimento (affitto o usufrutto) della azienda; e più specificamente il comma 2 di tale norma prevede per i contratti di cui al comma 1, la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, nonché il loro deposito per l'iscrizione nel registro delle imprese a cura e responsabilità del notaio che ha redatto l'atto pubblico o autenticato le firme.

Tuttavia se la legge prevede forme contrattuali particolari per singoli beni ricompresi nel complesso aziendale ai fini della validità del loro trasferimento con riferimento alla natura dei beni (forma scritta ad substantiam per i beni immobili: cfr. art. 1350 c.c.) o alla natura del contratto (donazione ex art. 782 c.c.), allora per il trasferimento dell'intera azienda o limitatamente a tali beni, è necessario che il contratto osservi le stesse forme previste per questi. Pertanto se della azienda fanno parte beni immobili il contratto di affitto d'azienda richiederà la forma scritta e in particolare quella dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, oltre al deposito del contratto per l'iscrizione nel registro delle imprese (articolo 2556, comma 2, c.c.).

Il divieto di concorrenza. L'art. 2557, comma 4, c.c. comma 4° pone al locatore della azienda o al proprietario concedente l'usufrutto, il divieto di concorrenza nei confronti dell'affittuario e dell'usufruttuario per tutta la durata del contratto del rapporto di affitto o usufrutto. La giustificazione di questa limitazione legale, apparentemente in contrasto con il principio della libertà di iniziativa economica previsto dall'art. 41 Cost., risiede nella necessità di tutelare uno degli elementi di maggior rilievo della azienda quale l'avviamento, che potrebbe essere pregiudicato da una attività concorrenziale del precedente titolare. Il tenore letterale dell'art. 2557 c.c. limita il divieto di concorrenza alla durata del rapporto di affitto di usufrutto, quindi con cessazione alla sua scadenza, ma è stato affermato dalla giurisprudenza che le disposizioni dell'art. 2557 c.c. trovano applicazione non soltanto nel caso di alienazione o affitto di azienda, ma anche in ogni caso di sostituzione di un imprenditore all'altro nell'esercizio dell'impresa, come può accadere anche in favore dell'affittuario che abbia ritrasferito azienda al proprietario-locatore alla scadenza dell'affitto o per altra causa negozialmente prevista (Cass. civ., sez., I, 20 dicembre 1991 n. 13762). La ragione di questa estensione interpretativa del divieto, abbastanza criticabile sta, verosimilmente, nella considerazione che l'affittuario, nel corso della sua gestione, potrebbe avere incrementato e caratterizzato l'avviamento che ora può necessitare di analoga tutela; senza tuttavia considerare che, cessato l'affitto, l'ex affittuario non dovrebbe poter vantare alcun diritto poiché la retrocessione al locatore era prevista dall'inizio del rapporto, e pertanto nemmeno sotto il profilo di un arricchimento senza causa di questo (art. 2041 c.c.). Resta tuttavia l'interpretazione estensiva della Suprema Corte secondo la quale tale divieto «oltre che a carico del locatore dell'azienda, sussiste anche a carico dell'affittuario dopo la scadenza del contratto di affitto» (Cass. civ., sez. I, 23 settembre 1995, n. 10105; orientamento recentemente confermato anche nel merito: cfr. App. Milano, 21 dicembre 2015, n. 4921).

Il problema, quanto al divieto a carico del cedente, si pone nel caso di cessione di ramo d'azienda, pure consentito, così come nel caso in cui il cedente (in proprietà, in affitto, in usufrutto) svolga fin da prima della cessione, altra attività imprenditoriale simile e vi sia questione su possibili interferenze tra mercati di riferimento dell'una e dell'altra azienda. Il divieto è naturalmente derogabile per parte o per l'intera durata del rapporto di affitto.

La successione nei contratti. Il comma 1 dell'art. 2558 c.c. prevede che l'acquirente dell'azienda, salvo patto contrario, subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale, e il comma 3 dispone l'applicabilità di questa disposizione anche al caso dell'usufruttuario e dell'affittuario, a conferma della ordinaria stretta integrazione tra tutti gli elementi dell'azienda, compresi i rapporti giuridici strumentali alla sua gestione. Si tratta pertanto di un effetto legale ed automatico del trasferimento di proprietà o dell'affitto di azienda, che tuttavia le parti possono escludere o limitare. Questa successione nei contratti disposta dall'art. 2558 c.c. fa eccezione alla necessità del consenso del contraente ceduto prevista, in generale quale condizione necessaria, dall'art. 1406 c.c., anche se nel caso di cessione di azienda il terzo contraente ceduto ha facoltà di recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia dell'avvenuto trasferimento dell'azienda, ma in presenza di una giusta causa. Saranno quindi necessarie ragioni oggettive e non una semplice condizione di sfiducia nei confronti del successore nella gestione aziendale. Tuttavia il principio affermato dall'art. 2558 c.c. si applica nel caso in cui si verifichi nel corso dell'esercizio dell'impresa la sostituzione di un imprenditore ad un altro per un fatto voluto o previsto dalle parti, ed in relazione al quale queste abbiano potuto disporre della sorte dei contratti a prestazioni corrispettive e di durata, funzionali all'esercizio dell'azienda, non ancora non completamente eseguiti (Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2003, n. 16724), mentre quando il contratto di affitto d'azienda dovesse risolversi per inadempimento dell'affittuario, allora varrebbe il principio secondo il quale la restituzione aziendale a seguito di risoluzione del contratto di affitto per inadempimento dell'affittuario non essendo da ascrivere a causa negoziale, non determina la successione del proprietario-locatore ex art. 2558 c.c. nei contratti pendenti conclusi dall'affittuario (Cass. civ., sez. III, 23 settembre 2015, n. 18805). Dunque in questo caso, la natura non pattizia o negoziale, del ritrasferimento aziendale, vale ad escludere l'applicazione dell'art. 2558, comma 3, c.c., escludendo che il proprietario dell'azienda succeda nei contratti conclusi dall'affittuario. È esclusa anche l'applicazione degli artt. 2559 e 2560 c.c. relativi alla sorte dei debiti e dei crediti dell'azienda ceduta. Spetterà alle parti stabilire, con espressa pattuizione, la sorte di tali rapporti obbligatori con l'eccezione che nel caso di trasferimento di un'azienda commerciale, l'acquirente quindi non l'affittuario, risponde dei debiti se questi risultano dai libri contabili obbligatori, ma non di quelli di origine extracontrattuale (Cass. civ., sez. I, 25 febbraio 1987, n. 1990). Pertanto in difetto di espressa pattuizione e fatta eccezione dei rapporti di lavoro subordinato, i rapporti obbligatori resteranno a carico ed a vantaggio delle parti dalla cui volontà sono sorti.

Va fatta eccezione per i rapporti di lavoro subordinato, per i quali l'art. 2112 c.c. in caso di trasferimento d'azienda prevede la loro continuazione con il cessionario e la conservazione da parte del lavoratore di tutti i diritti che ne derivano, mentre il comma 2 prevede la responsabilità solidale del cedente e del cessionario per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Dunque l'art. 2112 c.c. si applica in tutte le ipotesi in cui il cedente sostituisca a sé il cessionario senza soluzione di continuità e, pertanto, sia nel caso di restituzione dell'azienda da parte del cessionario all'originario cedente per cessazione del rapporto di affitto, sia nel caso di nuova azienda costituita dal conduttore di bene immobile con pertinenze, in quanto la norma regola ogni ipotesi di trasferimento e ritrasferimento dell'azienda, e in applicazione del comma 2 il concedente è corresponsabile per tutti i debiti dell'affittuario verso i dipendenti, compresi quelli conseguenti al mancato versamento dei contributi assicurativi o al risarcimento del danno per omessa o irregolare contribuzione (Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2016, n. 4423). È pacifico dunque che «ferma restando la facoltà dell'alienante di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento» (art. 47, comma 4, legge n. 428/1990), e il subentro nei rapporti di lavoro da parte dell'acquirente, o del cessionario o affittuario, rappresenta un effetto necessario e non eliminabile in caso di trasferimento nella titolarità dell'azienda, in funzione della maggior tutela dei dipendenti. Tanto che a questo proposito si afferma, condivisibilmente, che essendo la successione nei contratti di lavoro elemento insopprimibile dell'operazione trasferimento d'azienda, questa rappresenta non solo insieme di beni materiali, ma anche di beni e rapporti giuridici, compresi quelli di lavoro.

Dunque anche la retrocessione da parte dell'affittuario al proprietario dell'azienda al termine del contratto di affitto, può costituire un'ipotesi di trasferimento d'azienda da disciplinare secondo l'art. 2112 c.c., considerato che il comma 5 dello stesso articolo chiarisce che per trasferimento dell'azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata anche per effetto di usufrutto e di affitto, ed anche limitatamente ad una frazione o ramo di azienda, inteso come «articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata».

Si evidenzia dunque che consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene irrilevante la modalità del trasferimento da un soggetto ad un altro della titolarità dell'azienda (Cass. civ., sez. lav. 26 luglio 2011, n. 16255: Cass. civ., sez. III, 16 aprile 2009, n. 9012; Cass. civ., sez. lav., 23 luglio 2002, n. 10761), tant'è che il “trasferimento di azienda” di cui all'art. 2112 c.c. ricorre pure in caso di restituzione dell'azienda dall'affittuario della stessa al suo concedente,«ove rimanga immutata l'organizzazione dei beni aziendali, con lo svolgimento della medesima attività – in tutte le ipotesi in cui il cedente sostituisca a sé il cessionario senza soluzione di continuità»(cfr. Cass. civ., sez. lav., 21 maggio 2002, n. 7458). L'elemento della continuità quale presupposto per l'applicazione dell'art. 2112 c.c. sulla responsabilità solidale del cedente (affittuario) e retro-cessionario (proprietario) è un punto su cui vi è pacifico consenso in giurisprudenza. Tuttavia occorre chiedersi anche se questo principio possa valere nel caso di cessazione dell'attività da parte del retro-cessionario, oppure nell'ipotesi in cui il proprietario interrompa temporaneamente l'attività o continui ad utilizzare il complesso di beni produttivi per un'attività diversa dalla precedente. Una deroga alla applicazione dell'art. 2112 c.c. è contenuta nell'art. 104 della legge fallimentare in caso di retrocessione al curatore fallimentare dell'azienda del fallito data in affitto dalla procedura, nel qual caso la procedura fallimentare non risponde in solido con l'affittuario dei debiti sorti durante l'affitto, poiché la procedura fallimentare svolge la funzione di pagare i creditori ammessi al passivo e di estinguere per quanto possibile i debiti del fallito, non certo di farne di nuovi.

Il rapporto di locazione in caso di cessione o affitto d'azienda. Secondo l'art. 36 della legge n. 392/1978 (c.d. “equo canone”), il venditore o locatore dell'azienda può sublocare, contestualmente, l'immobile in favore dell'acquirente o dell'affittuario, dandone comunicazione al proprietario-locatore il quale può opporsi per gravi motivi il termine di trenta giorni dalla comunicazione, e ciò nonostante qualunque patto contrario previsto nel contratto di locazione. In proposito sono possibili alcuni rilievi. In primo luogo la prima parte comma 1 dell'art. 36 parla di sublocazione, mentre l'ultima parte dello stesso comma sembra distinguere tra sublocazione e cessione, anche se nella prassi e negli usi contrattuali correnti i contratti di cessione di affitto dell'azienda prevedono la cessione del rapporto di locazione e non la sublocazione, e nella prassi e nella corrente attuazione dell'istituto, si parla esclusivamente di successione nel rapporto di locazione (Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2007, n. 9486).

I principi applicativi di questa disposizione sono i seguenti: il trasferimento del rapporto di locazione deve essere contestuale all'atto dispositivo dell'azienda poiché la legge non consente di trasferimento successivo se non con il consenso (del locatore), e neppure consente la cessione del contratto di locazione se non viene contestualmente ceduta o affittata l'azienda; il trasferimento richiede una espressa previsione contrattuale in quanto non è effetto automatico della cessione dell'azienda o del suo affitto (Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2010, n. 15700; Cass. civ. , sez. III, 21 marzo 2008, n. 7686); il trasferimento del rapporto locativo non ne varia in alcun modo le condizioni ed in particolare la scadenza ed il canone; il nuovo conduttore-cessionario del rapporto subentra in tutti i diritti e gli obblighi del conduttore cedente e quindi nell'obbligo di pagamento di eventuali canoni arretrati, nella responsabilità per la utilizzazione dell'immobile e degli eventuali danneggiamenti, nel diritto alla restituzione del deposito cauzionale costituito all'inizio del rapporto dal primo conduttore (Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2008, n. 7686); il cessionario ha diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento ex art. 36, ultimo comma, della legge n. 392/1978 e al diritto di prelazione ai sensi del successivo art. 38; il cedente risponde in caso di inadempimento del cessionario, delle obbligazioni assunte con il contratto di locazione, se non è stato espressamente liberato.

Le differenze inventariali. Il mantenimento, ovviamente per un periodo di tempo limitato, della attività economica aziendale in vista di una procedura concorsuale nel caso di crisi d'azienda, è certamente finalità di rilevante dell'affitto d'azienda, tenuto conto che l'art. 2561, comma 2, c.c. (che detta disposizioni in tema di usufrutto di azienda applicabili anche all'affitto) pone tra gli obblighi dell'usufruttuario quello di “conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte”, prevedendo dunque il dovere dell'affittuario di non lasciare improduttivi i beni del complesso aziendale, come potrebbe accadere nel caso di crisi gestionale. Comunque, a prescindere dalle condizioni di crisi, le esigenze della produzione e di disponibilità di materie prime, l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e quindi le ordinarie esigenze della gestione, richiedono che l'affittuario provveda ad acquistare materie prime, beni strumentali, ad operare migliorie. L'ultimo comma dell'art. 2561 c.c. prevede allora che al termine del contratto di affitto la differenza tra le consistenze, negative o positive, dell'inventario iniziale rispetto all'inventario finale, debbano essere regolate in denaro, e pertanto ognuna delle parti del contratto dovrà effettuare verso l'altra un conguaglio in denaro pari alla differenza di valore dei beni oggetto di inventario al termine del rapporto di affitto. Non si tratta quindi di una valutazione di stima delle due aziende ma dei beni inventariati. La regola vale anche nell'ipotesi di apertura di un procedimento concorsuale, tuttavia tenendo presente le limitazioni che in tal caso la legge pone alla liquidazione dell'attivo ed al pagamento, sia pure in prededuzione, dei debiti funzionali alle finalità della procedura.

Distinzione tra locazione ad uso commerciale ed affitto d'azienda

Le due tipologie di contratto possono, in relazione alla fattispecie concrete, non essere agevolmente distinguibili. La disciplina della locazione ad uso diverso da quello abitativo è dettata dagli artt. 27 e seguenti della legge n. 392/1978 ed è rimasta, nella sostanza, invariata. Gli usi diversi da quello abitativo sono tipizzati, per quanto possibile e per quanto di interesse generale. Si tratta pertanto delle locazioni immobiliari, finalizzate all'esercizio di una delle attività di cui al primo comma dell'art. 27 ed, in particolare, delle attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico, di lavoro autonomo e professionale ovvero di una delle attività di cui all'art. 42, quali attività ricreative, assistenziali, culturali e politiche, sindacali e scolastiche. Per queste locazioni la durata minima legale è sei anni (o nove anni nel caso di attività alberghiere o attività assimilate ai sensi dell'articolo 1786 c.c.) e, ai sensi dell'art. 79 tuttora in vigore limitatamente a questa categoria di locazioni, è nulla ogni clausola che preveda una durata inferiore così come ogni pattuizione contrattuale di maggior favore per il locatore che sia contraria alla legge. Si tratta dunque di disciplina imperativa ed inderogabile, se non in favore dei conduttori.

Occorre anche considerare che stabilire, in concreto e specie in taluni settori imprenditoriali, quando si tratti di un contratto di locazione di immobile ad uso dell'esercizio di impresa (locazione di immobile con pertinenze), o quando si sia invece in presenza di un contratto di affitto d'azienda della quale l'immobile ove l'azienda ha sede sia uno dei componenti, risulta rilevante in ragione delle differenze di disciplina fra questi due contratti. Infatti, quanto alle difformità di maggior rilievo, la disciplina dell'affitto d'azienda non prevede una durata minima legale ed all'affittuario non sono riconosciuti i diritti che caratterizzano la locazione di immobile per uso diverso da quello abitativo così come, sussistendone i presupposti, l'indennità per la perdita dell'avviamento, il diritto di prelazione e di successione nel contratto previsti dagli articoli 34, 37 e 38 della citata legge n. 392/1978, limitati, i primi due diritti, ai rapporti di locazione finalizzati allo svolgimento di attività che comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori ed esclusi, comunque, i locali destinati allo svolgimento di attività professionali o di carattere transitorio ovvero compresi in aree caratterizzate da forti presenze di pubblico (stazioni ferroviarie, aeroporti e spazi assimilabili). Inoltre il curatore fallimentare dispone di diversi poteri nel caso di locazione e di affitto d'azienda, in quanto l'art. 79 della legge fallimentare consente sia all'affittuario ed al curatore la facoltà di sciogliersi dal contratto di affitto d'azienda nel termine di sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo. Invece quanto ai rapporti di locazioni ad uso non abitativo, l'art. 29 della legge n. 392/1978 consente al locatore la facoltà di negare la rinnovazione del contratto alla prima scadenza, solo in presenza di motivi tassativamente indicati dalla legge e fuori da questa ipotesi, la regola (arti. 80 della legge fallimentare) è che il fallimento del locatore non scioglie contratto di locazione ed il curatore subentra nel contratto, ma se la durata residua del contratto è superiore a quattro anni dalla dichiarazione di fallimento, allora il curatore può recedere dal contratto entro un anno dalla detrazione di fallimento corrispondendo al conduttore un equo indennizzo per l'anticipato recesso. In caso di fallimento del conduttore, il curatore può recedere dal contratto in qualunque momento, corrispondendo al locatore un indennizzo.

Proprio in considerazione di possibili confusioni, l'art. 1, comma septies, d.l. n. 12/1985 (convertito con legge n. 118/1985), all'evidente scopo di fissare i presupposti della distinzione tra locazione di immobile con pertinenze ed accessori ed affitto di azienda e con particolare riferimento alle locazioni ad uso alberghiero, e quindi di contrastare possibili elusioni delle norme imperative in tema di locazioni immobiliari, ha disposto, per i motivi sopra svolti a vantaggio del conduttore in termini di durata minima e di altri diritti conseguenti, la presunzione assoluta di locazione d'immobile e non di affitto d'azienda, in tutti i casi nei quali l'attività alberghiera sia stata effettivamente iniziata dal conduttore e quindi sia preesistente rispetto alla locazione di eventuali arredi e attrezzature. In proposito si osserva che lo stesso principio dovrebbe condurre a conclusioni opposte laddove l'azienda fosse già presente al momento della conclusione del contratto di locazione e le parti avessero tenuto distinti i due contratti di affitto d'azienda e di locazione dell'immobile, nel qual caso il problemi attuativi sorgerebbero in caso di pattuizione di scadenze diverse (Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2006, n. 20817, Cass. civ., sez. III, sentenza 19 dicembre 2005, n. 27934).

Peraltro, detto art. 1, comma septies, si pone in contrasto con il citato orientamento giurisprudenziale che ravvisa l'affitto d'azienda anche laddove gli elementi dedotti nel contratto siano solo potenzialmente idonei allo svolgimento dell'attività aziendale.

Il caso del contratto misto o dei contratti collegati - Se il contratto di affitto di un'azienda presuppone l'utilizzo di un determinato immobile anche se appartenente all'imprenditore, essi potrebbero essere indotti a stipulare due contratti separati, uno per la locazione ad uso commerciale, ed uno per l'affitto dell'azienda, anche nelle diverse forme previste in relazione all'oggetto (l'affitto di azienda, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, mentre il contratto di locazione, con scrittura privata non autenticata). Si tratterebbe in tal caso di contratto misto, relativamente al quale la giurisprudenza afferma che “il criterio distintivo tra contratto unico e contratto collegato… non è dato da elementi formali, quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi; un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni, ma da quello sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti” (Cass. civ., sez. III, 27 aprile 1995, n. 4645).Dunque l'unicità dell'interesse e delle finalità produttive aziendali, rappresenta un elemento chiave al fine di ricondurre ad un unico negozio l'unico accordo tra le parti, anche se frazionato in più documenti contrattuali. Agli effetti di stabilire quale sia la disciplina da applicare a questo negozio giuridico misto ovvero a questo collegamento di contratti, la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2005, n. 28233) ha elaborato la c.d. teoria dell'assorbimento, secondo la quale, in ipotesi di contratto misto in cui ricorrono elementi di diverse tipologie contrattuali, si deve valutare quale sia la causa prevalente del contratto ed applicare alla fattispecie le norme proprie in relazione a tale prevalenza. Pertanto, quando con riferimento alle intenzione delle parti, ai loro interessi concreti ed alle caratteristiche della fattispecie, l'oggetto principale del contratto sia l'immobile ove ha sede l'azienda che rappresenta solo uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili e immobili organizzati per la gestione dell'impresa, allora la disciplina dell'unico negozio giuridico sarà quella dell'affitto d'azienda. Peraltro non ci sono parametri netti in base ai quali valutare il ruolo principale o complementare dell'immobile, ed anzi viene riconosciuto talvolta l'affitto d'azienda anche quando l'immobile riveste un ruolo non secondario. Ciò che sembra rilevare in questi casi, per qualificare il contratto come affitto di azienda, è la relazione di interdipendenza e di complementarietà essenziale dell'immobile con l'esercizio dell'attività aziendale e ciò nel senso che, considerati separatamente, nessuno dei due contratti potrebbe avere concreta attuazione.

Casistica

CASISTICA -

La distinzione tra locazione ad uso commerciale e affitto d'azienda

Da verificare l'oggetto del contratto

Ai fini della verifica sulla inquadrabilità di una fattispecie come locazione commerciale o affitto, è necessario valutare se oggetto del contratto sia unicamente il godimento dell'immobile ovvero anche l'affidamento di un'attività commerciale. (Trib. Pisa, 8 marzo 2018, n. 214)

Rilevante se sussiste una “entità organica”

La concessione in godimento di un locale adibito ad esercizio commerciale può integrare affitto di azienda, ovvero locazione di immobile munito di pertinenze, a seconda che, considerata la effettiva e comune intenzione delle parti, in relazione alla consistenza, alle caratteristiche del bene immobile ed a ogni altra circostanza del caso concreto, risulti che l'oggetto del contratto risultante dall'aggregazione dei diversi documenti contrattuali è un entità organica, non frazionabile e capace di vita economica propria, della quale l'immobile configura una essenziale componente in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali. (Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16138)

L'immobile oggetto principale del contratto

La differenza tra locazione di immobile con pertinenze ed affitto di azienda, sta nella considerazione del bilanciamento degli interessi delle parti nell'economia del contratto, e se l'immobile rappresenti o meno l'oggetto principale del negozio, con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi del contratto, i quali (siano essi connessi materialmente o meno all'immobile) assumono così carattere di accessorietà, rimanendo collegati all'immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione. Nell'affitto di azienda, invece, l'immobile rappresenta uno degli elementi costitutivi del complesso unitario di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo. (Cass. civ., sez. III, 27 giugno 2002, n. 9354).

Guida all'approfondimento

P. S. Monfredini, Il contratto di affitto d'azienda nelle procedure concorsuali, in Fallimento, 2017, fasc. 4, p. 481

F. Fimmanò, Affitto di azienda preesistente, recesso dal contratto e determinazione dell'equo indennizzo, in Fallimento, 2012, fasc. 11, p. 1349

G. Loretta, Affitto di azienda e locazione di immobile, in Contratti, 2011, fasc. 5, p. 469

P. Pisoni - E. Pistone - R. Santini, Cessione di azienda e di rami aziendali, Giuffrè, Milano, 2009

M. Ventricini, Locazione di immobile o affitto d'azienda ed importanza dell'inadempimento, in Giust. civ., 2006, fasc. 12, p. 2921

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