Controllare il cellulare del coniuge, quando è reato?
19 Luglio 2018
È legittimo controllare il contenuto delle comunicazioni e delle conversazioni del cellulare del coniuge?
La Costituzione tutela le libertà individuali quali diritti fondamentali e inviolabili di ogni essere umano. In particolare l'art. 15 tutela la libertà e segretezza della corrispondenza prevedendo che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». Per corrispondenza deve intendersi non solo la posta epistolare ma tutte le attuali forme di comunicazione come ad esempio sms, email, Whatsapp, Facebook. Nessun rapporto tra persone, nemmeno il rapporto matrimoniale tra i coniugi, quindi, può limitare tale diritto. Già nel 1974 la Suprema Corte aveva stabilito che gli artt. 143, 144 e 145 c.c., seppure in un contesto ordinamentale in cui la donna non aveva parità di diritti nel rapporto coniugale, non riconoscevano al marito, nè espressamente né implicitamente, un jus corrigendi sulla moglie, né il diritto di controllarne fraudolentemente le telefonate o la corrispondenza, neppure se l'attività fraudolenta fosse stata ispirata dal desiderio di accertare la sospetta infedeltà della moglie, di tentare di ricondurre la donna sulla via dell'onestà e di non far affidare nel giudizio di separazione l'educazione del figlio a madre non degna (Cass. pen., Sez. V, 24 maggio 1974, n. 8198). Tale principio è stato poi confermato dalla stessa Corte con la sentenza n. 6727 del 23 maggio 1994 che ha stabilito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi ma ne presuppongono anzi l'esistenza, dal momento che la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono di piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. Pertanto, quando ci si impadronisce del cellulare del coniuge con l'intento di spiarne il contenuto, bisogna essere consapevoli che tale semplice gesto può avere delle conseguenze più o meno gravi. A tal proposito, bisogna scindere ciò che è illecito in sede penale e ciò che è lecito, a seconda del fine, in sede civile. Analizzando il profilo penalistico della questione, la giurisprudenza di legittimità e di merito è giunta alla conclusione che leggere le email, i messaggi su Facebook e su Whatsapp, gli sms e tutto ciò che può essere contenuto in programmi tecnologici di messaggistica, senza avere ottenuto il preventivo consenso del coniuge, costituisce reato. Se ne riportano alcuni esempi. Per ciò che concerne l'email, la Suprema Corte si è più volte pronunciata sul punto affermando che integra il reato di cui all'art. 615-ter c.p., Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico la condotta di colui che accede abusivamente all'altrui casella di posta elettronica trattandosi di una spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell'esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio (Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 13057). Alla luce di tale principio, è agevole rilevare che anche leggere la chat altrui violando la password o prenderne visione quando il titolare dell'account sia momentaneamente assente, configura il suddetto reato. La Corte di appello di Taranto con la Sentenza n. 24/2016 ha ritenuto configurabile il reato previsto dall'art. 616, comma 1 c.p., Violazione della corrispondenza altrui, quando uno dei coniugi apre la posta elettronica dell'altro attraverso una password di accesso, il cui possesso non è stato frutto di una rivelazione di tale password, ma il risultato di una operazione di memorizzazione eseguita dal computer all'atto dell'utilizzo da parte di chi ne ha diritto ed avvenuta all'insaputa dello stesso. E ancora, la Suprema Corte ha ritenuto configurabile il reato di rapina ex art. 628 c.p. nel caso di un soggetto, che aveva sottratto mediante violenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo. La Corte ha ritenuto sussistente il dolo specifico richiesto quale elemento soggettivo del reato, in quanto il profitto può concretarsi in ogni utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Alla luce di ciò, ha statuito il seguente principio di diritto «nel diritto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da un altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane» (Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015, n. 11467; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2016, n. 24297). Qualora, invece, si proceda a installare apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche, si configurerà il reato previsto dall'art. 617-bis c.p. Per ciò che concerne il procedimento penale, è applicabile l'art. 191 c.p.p. che al comma 1 stabilisce che «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate». Alla luce di tale principio, quindi, tutti gli elementi acquisiti violando la privacy del coniuge, non possono essere utilizzati in un eventuale processo penale; in particolare, è stato affermato che sono inutilizzabili, in quanto acquisite in violazione della norma dell'art. 615-bisc.p., le prove ottenute attraverso una interferenza illecita nella vita privata (Cass. pen., Sez. V, n. 35681/2014). In sede civile, invece, la decisione sull'utilizzabilità della prova acquisita illegittimamente, è rimessa alla valutazione del Giudice ai sensi degli artt. 183 e 184 c.p.c.. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che in tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi degli artt. 7, 24, 46 e 47 del d.lgs. 196/2003 (codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all'autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benché anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy (Cass. pen., Sez, unite, 8 febbraio 2011, n. 3034). Inoltre, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il c.d. criterio di gerarchia mobile, dovendo il giudice procedere di volta in volta, e in considerazione dello specifico thema decidendum, all'individuazione dell'interesse da privilegiare a seguito di un'equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo a opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla privacy non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, essendo inviolabile in ogni stato e grado del procedimento ex art. 24, comma 2 Cost., non può incontrare nel suo esercizio ostacoli e impedimenti nell'accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile vulnus alla sua onorabilità e, talvolta, anche alla perdita di altri diritti fondamentali (Cass. pen., Sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18279). Proprio su tali presupposti si fonda la recente giurisprudenza di merito. Dapprima, il tribunale di Torino con Ordinanza dell'8 marzo 2013, ha ritenuto ammissibile la produzione della corrispondenza (consistente in messaggi telefonici e messaggi di posta elettronica), anche se acquisita in violazione della privacy, in quanto idonea a provare l'infedeltà del coniuge. Successivamente, il tribunale di Roma con la Sentenza n. 6432/2016, ha ritenuto che «in un contesto di coabitazione e di condivisione di spazi e strumenti di uso comune quale quello familiare, la possibilità di entrare in contatto con dati personali del coniuge sia evenienza non infrequente, che non si traduce necessariamente in una illecita acquisizione di dati. È la stessa natura del vincolo matrimoniale che implica un affievolimento della sfera di riservatezza di ciascun coniuge e la creazione di un ambito comune nel quale vi è una implicita manifestazione di consenso alla conoscenza di dati e comunicazioni di natura anche personale di cui il coniuge, in virtù della condivisione dei tempi e degli spazi di vita, viene di fatto costantemente a conoscenza a meno che non vi sia una attività specifica volta ad evitarlo. In un simile contesto, non può ritenersi illecita la scoperta casuale del contenuto di messaggi, per quanto personali, facilmente leggibili su di un telefono lasciato incustodito in uno spazio comune dell'abitazione familiare. Non occorre, dunque, addentrarsi nel dibattito non del tutto sopito sulla utilizzabilità a fini di prova nel giudizio civile di documenti acquisiti in violazione di normative pubblicistiche, dal momento che la produzione non può dirsi frutto di acquisizione illecita». |