Il figlio adulto non autosufficiente ha diritto di continuare ad abitare nella casa dei genitori?
23 Luglio 2018
Massima
Nell'ordinamento giuridico non esiste una norma che attribuisca al figlio maggiorenne il diritto incondizionato di permanere nell'abitazione di proprietà esclusiva dei genitori contro la loro volontà e in forza del solo vincolo familiare. I genitori hanno quindi il diritto di richiedere al figlio convivente il rilascio dell'immobile occupato con il solo limite, imposto dal principio di buona fede, che sia concesso all'altra parte un termine ragionevole, commisurato anche alla durata del rapporto. Il caso
Un'anziana madre, rappresentata dall'amministratore di sostegno, chiedeva al figlio, ultrasessantenne, l'immediato rilascio dell'immobile di sua esclusiva proprietà oltre al rimborso delle spese sostenute per il proprio mantenimento presso la casa di cura ove era stata ricoverata, anche in forza del deterioramento dei rapporti con il figlio, che poi aveva continuato ad occupare la casa a titolo di comodato precario, senza versare alcun canone o indennità. Costituitosi in giudizio, il convenuto rivendicava il diritto di continuare ad occupare l'immobile, sostenendo che non era intercorso alcun contratto di comodato bensì i genitori gli avevano concesso di permanere presso l'abitazione in adempimento spontaneo ad un obbligo di mantenimento o comunque di natura alimentare essendo egli privo di redditi e di mezzi di sostentamento. Il Tribunale accoglie la domanda della madre. La questione
L'interessante sentenza del Tribunale di Modena mette in evidenza due questioni giuridiche: da un lato, l'insussistenza di un obbligo di mantenimento sine die in capo ai genitori nei confronti del figlio, divenuto adulto, anche se non economicamente indipendente, e titolare, tutt'al più, di un diritto alimentare che i soggetti tenuti possono adempiere con modalità alternative; dall'altro la qualificazione giuridica del rapporto di godimento gratuito dell'abitazione da parte del figlio.
Le soluzioni giuridiche
Il giudice monocratico, all'esito dell'istruttoria, respinge la tesi, sostenuta dal resistente, secondo cui i genitori, consentendogli di abitare la casa di loro proprietà, avrebbero inteso adempiere spontaneamente a un obbligo di mantenimento nei suoi confronti in quanto privo di mezzi, statuendo, tra l'altro, che non fosse sufficiente che la madre avesse volontariamente ospitato il figlio in virtù del vincolo familiare, occorrendo «la prova della consapevolezza in capo alla stessa di adempiere a un'obbligazione giuridica e la volontà di fare fronte all'obbligo tenendo presso di sé il figlio e fornendogli i mezzi necessari», e accoglie quindi la domanda di rilascio avanzata dalla madre applicando alcuni principi già enunciati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. In particolare, viene condiviso l'orientamento espresso dal Trib. Milano, sez. IX, ord., 29 marzo 2016 v. M. Botton, Figli trentaquattrenni: il limite generale ed astratto dell'obbligo di mantenimento, in ilFamiliarista.it) secondo cui, oltre una certa età, il figlio maggiorenne, seppure non indipendente, raggiunge una “dimensione di vita autonoma” che gli fa perdere il diritto al mantenimento da parte dei genitori, in luogo, se del caso, di un diritto alimentare (in tal senso anche Cass. civ., 7 luglio 2004, n. 12477; Cass. civ., sez. IV, ord., 27 gennaio 2014, n. 1585; Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 2016 n. 1858). In particolare, il Tribunale invocava i doveri di responsabilità che incombono sui figli maggiorenni i quali non possono pretendere il protrarsi dell'obbligo di mantenimento oltre ragionevoli limiti sia temporali che di misura, poiché nel nostro ordinamento l'obbligo genitoriale di mantenere i figli è giustificato in quanto finalizzato alla realizzazione di un progetto educativo e di un percorso di formazione dei figli (si esprime in modo analogo Cass. civ.,sez. VI,ord., 26 aprile 2017, n. 10207) diversamente si risolverebbe in «forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani» (così anche App. Roma 29 maggio 1995; Cass. civ.,sez. I, 20 agosto 2014, n. 18076). Nel tentativo di individuare i “ragionevoli limiti di tempo”, il Tribunale di Milano aveva affermato che, in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee, oltre la soglia dei 34 anni lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non rileva più ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio può eventualmente rivendicare, al pari di ogni adulto, la somministrazione degli “alimenti”. Cessato quindi il diritto al mantenimento la tutela del figlio adulto non autosufficiente passa attraverso l'istituto degli alimenti, per loro natura avente un “peso” economico molto più contenuto, e che potranno essere chiesti ai genitori se sussistono i due presupposti previsti dalla legge (art. 438, comma 1, c.c.), ossia lo stato di bisogno, inteso come la mancanza di mezzi necessari a soddisfare i bisogni primari della persona, e non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento mediante l'esplicazione di un'attività lavorativa confacente alle proprie attitudini e condizioni sociali (Cass. civ., 12 aprile 2017, n. 9415). Ma anche laddove trovasse applicazione in concreto la normativa in materia di obbligazioni alimentari, tuttavia, il diritto del figlio a permanere nella casa dei genitori potrebbe dirsi incondizionato poiché l'onerato resta libero di scegliere il modo di somministrazione degli alimenti (art. 443 c.c.), ossia versando un assegno periodico o «mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto». Neppure il Giudice potrebbe imporre al debitore una delle due modalità contro la sua volontà (Trib. Prato 9 novembre 2010) In ogni caso, quand'anche sussista in astratto il diritto alimentare, perché venga affermato in concreto occorre venga formulata una domanda di parte come si deduce dall'art. 445 c.c. a norma del quale il diritto decorre dalla domanda giudiziale o dalla costituzione in mora dell'obbligato (Cass. civ., 16 marzo 1990, n. 2199; Trib. Genova, sez. IV, 14 gennaio 2008; Trib. Monza, sez. I, 8 gennaio 2007). Nella fattispecie, non era stata svolta dal resistente una richiesta di alimenti né risultava provato l'intento materno di adempiere spontaneamente all'obbligazione alimentare, sicché il Giudice nulla dispone in merito. Venendo alla qualificazione giuridica del rapporto di godimento gratuito dell'abitazione da parte del figlio, escluso che possa trattarsi di mera ospitalità stante la particolare connotazione del legame affettivo con la proprietaria, il Tribunale dà atto di alcune peculiarità del caso concreto, poiché il resistente non aveva mai avuto il godimento esclusivo della casa bensì l'aveva condivisa con la madre senza che fosse stato concluso un contratto in forma scritta. Su tali premesse, il Giudice perviene alla conclusione che la lunga convivenza con la madre nell'appartamento consenta di ricondurre il rapporto instauratosi a un negozio atipico di tipo familiare concluso per fatti concludenti, che avrebbe originato una forma di detenzione qualificata ma precaria equiparabile, ai fini della disciplina, al comodato senza determinazione di durata. Non quindi mera disponibilità dell'abitazione per ragioni di ospitalità, poiché il rapporto affettivo di natura familiare, connotato da solidarietà, fondato sugli artt. 2 e 29 Cost., giustifica il permanere dei figli adulti presso la casa natale unitamente ai genitori, seppure sia venuto ogni diritto al mantenimento, sicché essi divengono titolari di un vero e proprio diritto personale di godimento sull'abitazione, o comunque di un potere di gestione (cd. detenzione qualificata). Alla situazione del figlio adulto che convive con il genitore vengono estesi per analogia i principi elaborati in materia di convivenza more uxorio sul presupposto che la convivenza determina sulla casa di abitazione ove si svolge la vita in comune un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata (Cass. civ., 2 gennaio 2014, n. 7; Cass. civ., 21 marzo 2013, n. 7214; quanto ai figli maggiorenni autosufficienti dimoranti nella casa familiare la giurisprudenza più risalente, ad esempio Cass. 26 giugno 1991, n. 7162 li considera detentori a mero titolo di ospitalità, Pretura Genova 18 marzo 1992 in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1993, 1206). Il titolo per l'occupazione è costituito quindi dalla solidarietà familiare, dal legame affettivo e di assistenza definito dalla giurisprudenza affectio familiaris (Cass. civ., 11 settembre 2015, n. 17971), cosa ben diversa dalla mera ospitalità che è giuridicamente irrilevante Nonostante la rilevanza del rapporto che il figlio acquisisce con il bene, i genitori conservano il diritto di chiedere il rilascio dell'immobile occupato, pur a fronte di un termine congruo per la liberazione, poiché il solo vincolo familiare non attribuisce alcun diritto incondizionato al figlio di permanere presso la casa contro la volontà dei genitori. Nel caso di specie viene assegnato al figlio un termine di quattro mesi per il rilascio in considerazione del rapporto di filiazione nell'ambito del quale il canone della buona fede e correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al genitore (proprietario) che intende recuperare l'esclusiva disponibilità della casa, di avvisare il figlio e concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione, come non manca di rilevare il Giudice modenese.
Osservazioni
Il mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti non può proseguire “a vita” ma si estingue allorché questi raggiungano un'età e un'istruzione atte alla ricerca di un lavoro: ogni individuo dovrebbe avere un senso di autoresponsabilità che lo induca ad attivarsi per divenire autosufficiente, sganciandosi, per così dire, dalla famiglia d'origine. Invero, l'art. 337-septies c.c. stabilisce che il Giudice può disporre il pagamento di un assegno periodico in favore del figlio maggiorenne non economicamente indipendente: la scelta legislativa di individuare in capo al Giudice un potere discrezionale, da esercitare a seconda delle circostanze del caso concreto, ha originato una giurisprudenza molto vasta particolarmente in ordine ai limiti del mantenimento specie in correlazione al raggiungimento dell'autosufficienza economica. In quest'ambito si colloca la sentenza in commento allorché richiama la citata pronuncia del Tribunale meneghino: sussiste un generale dovere di autoresponsabilità in capo al figlio adulto, che funge da criterio ultimo per contenere il protrarsi dell'obbligo di mantenimento che grava sui figli entro ragionevoli limiti di tempo e di misura (questa lettura trova conferma anche nella giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., 20 agosto 2014, n. 18076; Cass. civ. 22 giugno 2016 n. 12952; Cass., S.U., 29 settembre 2014, n. 20448). Il vero problema è individuare il limite temporale concreto posto che non è prefissato il termine finale del mantenimento, come attesta la giurisprudenza che ribadisce l'onere a carico del genitore obbligato di dimostrare che ha posto il figlio nelle condizioni di raggiungere l'indipendenza economica, seppure questi non ne abbia profittato (anche se il Tribunale di Torino in tema di onere della prova ha affermato che «il decorso del tempo e l'avanzare dell'età del figlio incide sulla ripartizione dell'onere della prova tra le parti. Ciò in quanto nella valutazione circa la raggiunta autosufficienza economica il giudice potrà avvalersi di presunzioni di cui si avvantaggia il genitore richiedente la revoca. Ciò spostando così il carico probatorio sul figlio (o sul genitore convivente che resiste alla richiesta di azzeramento) il quale dovrà provare la non colpevolezza dell'inerzia o la giustezza, in quanto non confacente alle attitudini al percorso di studi o alle aspettative, del rifiuto di svolgere una qualche attività lavorativa»:Trib. Torino, VII sez. civ., sent., 26 settembre 2016). Chiaramente il momento esatto in cui il figlio maggiorenne diventa responsabile delle proprie scelte anche lavorative ed economiche varia caso per caso dipendendo da diversi fattori, e l'individuazione del limite temporale nei 34 anni sulla base delle statistiche nazionali può essere esclusivamente indicativa: tuttavia è assai lodevole, in quanto tenta di soddisfare la diffusa necessità di rinvenire un criterio oggettivo (vale a dire l'età) cui connettere la cessazione degli oneri economici inerenti alla responsabilità genitoriale. Figli si resta sempre ma il raggiungimento dell'età adulta non può non implicare un rinnovato senso di responsabilità, diversamente il figlio “fannullone” finirebbe per gravare a vita sui propri genitori, a discapito di quest'ultimi, magari divenuti anziani e a loro volta bisognosi di assistenza. Il provvedimento modenese è interessante anche perché attesta l'approdo cui il diritto di famiglia è pervenuto negli ultimi decenni laddove qualifica il rapporto che si è venuto a costituire tra le parti (madre e figlio) come negozio atipico di tipo familiare concluso per fatti concludenti. Per lungo tempo la materia familiare è stata considerata una sorte di diritto speciale separato dalle regole del diritto comune, e ciò in funzione della specifica natura degli interessi in gioco, ritenuti generali e sociali ancor prima che individuali. Progressivamente si è fatta strada l'operatività dell'autonomia privata anche nel settore del diritto di famiglia e con essa il ricorso a strumenti di regolamentazione atipici anche di natura negoziale: l'esame della casistica giurisprudenziale, di cui la sentenza in commento rappresenta un significativo esempio, mostra infatti che in sede applicativa è stato riconosciuto in via di principio un potere di autodeterminazione ai membri della relazione affettiva e l'elaborazione di regole riconducibili alla fonte negoziale che consentono di orientare l'interprete chiamato a risolvere le questioni spesso assai complicate che sorgono dalle relazioni personali e familiari. |