Un anno di Riforma Orlando. Tra prime applicazioni e qualche ripensamento

03 Agosto 2018

A un anno circa dall'entrata in vigore della riforma Orlando è certamente ancora difficile formulare dei giudizi definitivi su una legge in corso di “prima applicazione”.
Abstract

A un anno circa dall'entrata in vigore della c.d. riforma Orlando è certamente ancora difficile formulare dei giudizi “definitivi” su una legge in corso di “prima applicazione”, considerate le possibili “variabili” alle quali può andare incontro.

Un tale compito è, peraltro, ancor più difficile, se si tiene conto del fatto che i due provvedimenti immediatamente operativi – l. 103 del 2017 e d.lgs. 11 del 2018 – non appaiono similari: se il primo tocca “a macchia di leopardo” i profili sostanziali, processuali e penitenziari, il secondo novella, in parte, il giudizio d'appello.

Limitando la riflessione al primo provvedimento, la questione, se possibile, è aggravata dal fatto che, a fianco di norme che già operative, sono state – per il momento – accantonate altre norme, non secondarie, contenute nei provvedimenti di attuazione delle direttive previste dalla legge del 2017. Nel giudizio valutativo si dovrebbe, infatti, tener conto delle contrapposte istanze che si sono (e si stanno) confrontando tanto sul provvedimento in materia di intercettazioni, quanto su quello penitenziario o, più precisamente, di ciò che si ipotizza di fare (o di ciò che risulterà dei testi già predisposti).

Le prime prassi: fra interpretazioni restrittive (ed eccessivi malintesi)

Indubbiamente, pur nella sua eterogeneità, la l. 103 del 2017 attua una riforma che intende operare un cambio di passo nella materia processuale: il provvedimento tende, in un'ottica adeguata ai tempi, da un lato a una maggiore responsabilizzazione delle parti, dall'altro lato, in una visione progressiva del procedimento penale, ad assicurare una sua maggiore funzionalità, al fine di evitare indebite regressioni o interruzioni o sviluppi non lineari (si pensi alle modifiche relative al controllo del provvedimento d'archiviazione o della sentenza di non luogo a procedere o al nuovo art. 620, lett. l) c.p.p.).

A ogni buon conto e in estrema sintesi, sicuramente, re melius perpensa, una prima censura pare proponibile contro la scelta, poco funzionale rispetto alla ratio e al ruolo della procedura “incidentale” (legata al pericolo di dispersione della prova), di modulare entro 10 giorni il diritto del difensore di proporre riserva di incidente probatorio. Tenuto conto delle finalità della legge e, in particolare, del rischio sotteso all'intero sviluppo procedurale legato alla conduzione degli accertamenti non ripetibili e all'incidente probatorio, troppo lato appare lo spazio concesso per la formulazione della richiesta: più che agire sulla sanzione, forse sarebbe più opportuno ridurre il tempo a disposizione per la difesa o il P.M. (ex art. 391-diecies c.p.p).

Interessante appare la prospettiva coltivata dalla disciplina introdotta dall'art. 1, comma 53, l. 23 giugno 2017, n. 103, che consente al giudice di determinare la sanzione sostitutiva della pena detentiva non più nei termini fissi stabiliti dall'art. 135 c.p. ma in misura variabile (tenendo conto della condizione economica dell'imputato e del suo nucleo familiare). Si ritiene, infatti, che in tema di decreto penale di condanna, nel caso di sostituzione di una pena pecuniaria ad una pena detentiva, l'art. 459, comma 1-bis, c.p.p., consente al Gip, modulando l'entità della pena giornaliera in considerazione della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare, di modificare l'importo ragguagliato dal P.M., ferma restando l'intangibilità della pena detentiva da quest'ultimo indicata. In altri termini, in base al combinato disposto degli art. 459, comma 1-bis c.p.p., che consente al giudice di "determinare" la pena sostituita, e dell'art. 460, comma 2, c.p.p., laddove si vincola il giudice ad "applicare" la pena nella misura richiesta, deve ritenersi che la "misura della pena" che vincola il giudice quando emette il decreto è solo quella detentiva indicata dal pubblico ministero richiedente, utilizzata come moltiplicatore per il ragguaglio che il giudice, appunto, "applica"; mentre la pena "irrogata" cui si riferisce l'art. 459, comma 1-bis c.p.p. è quella sostituita all'esito del calcolo, con la conseguenza che il giudice resta libero di rideterminare il tasso giornaliero che, moltiplicato per i giorni di pena detentiva indicati dal pubblico ministero, individua l'ammontare della pena pecuniaria sostitutiva (v., da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, 23 maggio 2018, n. 33472).

Alcune critiche sembrano, invece, prospettabili rispetto ai nuovi modelli, forme e condizioni di controllo dei provvedimenti: le interpretazioni, al riguardo, appaiono oltremodo “rigide” e non sempre conformi allo spirito della legge.

Con riferimento alle modifiche che hanno investito il controllo della sentenza di non luogo a procedere, reintrodotto il giudizio d'appello e prevista la formazione del fascicolo per il dibattimento da parte della stessa Corte d'appello, è stato eliminato il ricorso della persona offesa costituita parte civile, e previsto l'appello della persona offesa non citata per l'udienza preliminare ma, per dimenticanza o per scelta, non è stata prevista la successiva ricorribilità della decisione di conferma.

Peraltro, per effetto della riforma, contro la sentenza di non luogo a procedere, non è più possibile il ricorso per saltum ovvero direttamente in Corte di cassazione senza passare per l'appello. Secondo la giurisprudenza di legittimità l'interdizione muoverebbe dal nuovo testo dell'articolo 428 c.p.p., con cui si è provveduto alla sostituzione del ricorso per cassazione con l'appello, tornando quindi a estendere l'area del giudizio di secondo grado (v. Cass. pen.,Sez. IV, 9 maggio 2018, n. 27526; Cass. V, 17 gennaio 2018, n. 10142) senza, tuttavia, replicare la proposizione del ricorso omissio medio, stabilita, invece, nel succedersi delle differenti novelle che hanno investito la materia. Tuttavia, la limitazione esegetica non appare del tutto fondata.

Come si è avuto modo di indicare (MARANDOLA, Ricorso per saltum avverso la sentenza di non luogo a procedere. È realmente inammissibile?) lo strumento del ricorso per saltum opera solo per le sentenze (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 1991, Bruno, in Cass. pen., 1991, II, 490), cosicché non si possono trarre conclusioni dalle espresse previsioni di cui agli artt. 311, comma 2 e 325, comma 2 c.p.p. Invero, proprio le disposizioni espresse e “derogatorie” consentono di ritenere che nei confronti delle sentenze una esplicita previsione non sia necessaria. Del resto, l'art. 569 c.p.p. è collocato tra le disposizioni generali delle impugnazioni. Al riguardo non appare irrilevante il fatto che proprio la giurisprudenza abbia ammesso il ricorso omissio medio avverso la sentenza di non doversi procedere emessa dal giudice di pace, accanto al rimedio dell'appello espressamente previsto dall'art. 36 d.lgs. 274/2000, in ragione del mezzo disciplinato dall'art. 569 c.p.p. e, si badi, data la sua portata generale (Cass. pen., Sez. IV, 4 dicembre 2004, Fabris, in Cass. pen. 2004, 2267; C). Né può assumere valore decisivo il fatto che il legislatore non abbia riformato l'art. 608 comma 4 c.p.p.: stante la generalità del riferimento ai ricorsi in Cassazione, la previsione è sicuramente operante anche per il ricorso nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere. D'altro canto, la natura, la funzione, i contenuti della sentenza de qua, non sembrano mutati, nei loro profili caratterizzanti, dalla loro configurazione originaria. In conclusione, se il legislatore aveva, infatti, previsto l'operatività dell'art. 569 c.p.p., ciò significava che non apparivano (e non appaiono) sussistenti condizioni ostative all'operatività del saltum.

Analoghi dubbi circondano le interpretazioni fornite in ordine all'applicazione della pena su richiesta delle parti: il rinvio va alla possibilità di ricorrere per cassazione deducendo, ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis c.p.p., l'erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza nei limiti dell'errore manifesto, con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato (Cass. pen., Sez. I, 20 marzo 2018, n. 15553). Forti critiche si evidenziano per quanto attiene al re-introdotto concordato in appello. Al di là delle censure formulabili in ordine alla poliedricità delle linee-guida varate sul punto dalle diverse Procure Generali, del tutto legittime ai sensi dell'art. 599-bis c.p.p. ma poco compatibili con quanto preteso dall'art. 3 Cost., dubbi solleva quell'orientamento che ritiene che il giudice di secondo grado, nell'accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599-bis c.p.p., non deve motivare sul mancato proscioglimento dell'imputato per una delle cause previste dall'art. 129 c.p.p., né sull'insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove, in quanto, a causa dell'effetto devolutivo proprio dell'impugnazione, una volta che l'imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Cass. pen., Sez. V, 19 marzo 2018, n. 15505).

Ebbene, quest'ultime conclusioni palesano come la riforma abbia aperto il varco a letture eccessivamente restrittive capaci di andare, talvolta, oltre le intenzioni a essa sottesa. Chiara è la confusione che “aleggia” fra l'istituto del c.d. patteggiamento, rito premiale, e il concordato in appello, che si fonda sul diverso principio dell'effetto devolutivo e dispositivo, a cui non consegue alcun beneficio sul piano della pena: é sulla base dell'errata omologazione dei differenti riti che si giunge a conclusioni altrettanto errate ed estranee al tenore dell'art. 599-bis c.p.p. che, non casualmente, non fa alcuna menzione della capacità del concordato di sanare le invalidità degli atti. Un tale effetto, assente in quella disciplina, opera, invece, nell'ambito del giudizio abbreviato: dunque, ancora una volta la giurisprudenza effettua una “commistione” tra i riti e gli effetti che ne conseguono, del tutto irragionevole (MARANDOLA SPANGHER, Concordato in appello: basta equivoci).

In quest'ottica si collocano, peraltro, le interpretazioni riguardanti l'abolizione del potere di proporre direttamente ricorso per cassazione da parte dell'imputato che, in ragione del principio della rappresentanza tecnica nel giudizio di legittimità è stata intesa quale previsione dal valore generale che opera in riferimento alla ipotesi codicistiche ed extra-codicistiche di ricorso per cassazione, applicabile a tutti i procedimenti penali.

Sotto tale aspetto, le Sezioni unite hanno, infatti, definito, innanzitutto, la scelta normativa pienamente conforme agli artt. 24, 111, comma 7, Cost. e 6 Cedu, posto che l'elevato livello di qualificazione professionale richiesto dall'esercizio del diritto di difesa in Cassazione rende ragionevole l'esclusione della difesa personale, tanto più in un sistema che ammette il patrocinio a spese dello Stato; in secondo luogo, muovendo da quell'assunto, hanno dichiarato che la norma opera per qualsiasi tipo di provvedimento, compresi quelli in materia cautelare, in materia di mandato d'arresto, mentre ne rimane problematica l'applicazione nell'ambito penitenziario.

Piena espressione della c.d. giurisprudenza creatrice, una tale esegesi superare il dato formale: l'art. 311, comma 1 c.p.p. continua ad attribuire la facoltà di ricorso per cassazione contro le decisione emesse a norma degli articoli 309 e 310 c.p.p. anche all'imputato e al suo difensore, al pari dell'art. 325 c.p.p. V'è da domandarsi se, richiamandosi alla finalità dell'intervento di riforma che mira a garantire maggiore efficienza al controllo di legittimità e alla funzione nomofilattica della Cassazione ed a evitare la proposizione di ricorsi per cassazione destinati con grande frequenza alla declaratoria di inammissibilità per mancanza di requisiti di forma e contenuto, sia effettivamente ammessa tale opera estensiva dovuta alla obiettiva incapacità del ricorrente di individuare e censurare personalmente i vizi di legittimità del provvedimento impugnato.

Il Collegio Riunito ha, da subito, fornito una chiara lettura dell'art. 620, comma 1 lett. l) c.p.p. (Cass. pen., Sez. unite, 24 gennaio 2018, n. 3464), quale norma dalla forte potenzialità deflattiva. La previsione è stata intesa quale via praticabile quando le decisioni possono essere prese, in sede di legittimità, in base agli accertamenti in fatto esposti nel provvedimento di merito, vale a dire allorché non risultino necessarie ulteriori indagini o verifiche. Abbracciando lo spirito della riforma si è detto, infatti, che i criteri indicati dall'art. 620, comma 1, lett. l) c.p.p., nella sua nuova formulazione, esprimono l'unitarietà delle ipotesi residuali di annullamento senza rinvio, nel senso della superfluità del rinvio, superfluità associata alla situazione nella quale la completezza degli accertamenti raccolti nel giudizio di merito, non consentirebbe, con il rinvio, di giungere ad una decisione differente da quella che il giudice di legittimità avrebbe potuto pronunciare. Correttamente si è affermato che, per l'applicazione dei suddetti criteri, la Cassazione deve disporre di elementi sufficienti per poter decidere il ricorso senza rinvio, assumendo le determinazioni necessarie e conseguenti all'annullamento della pronuncia impugnata. Detti elementi dovranno essere desumibili dalla motivazione del provvedimento impugnato ed eventualmente da quello di primo grado, ponendo a carico dei giudici di merito un onere di chiarezza e completezza delle motivazioni dei provvedimenti, dovendo provvedere a un'indicazione precisa di tutti gli elementi su cui essi si fondano.

La conclusione rinvia a quanto è ora stabilito dagli artt. 546 c.p.p. e art. 581 c.p.p.: come premesso, in un'ottica di generale responsabilizzazione delle parti del processo (giudice, P.M. e imputato) la riforma Orlando impone una maggiore schematizzazione e capacità argomentativa negli atti che costituiscono la base da cui muove l'impegno devolutivo delle parti impugnanti.

Ebbene, ad un anno dall'entrata in vigore delle previsioni che rappresentano, certamente, il nucleo centrale della riforma, occorre, sul punto, diversificare il discorso.

Non pone certamente problemi l'assunto secondo il quale é inammissibile per difetto di specificità dei motivi l'atto di appello proposto dal pubblico ministero a richiesta della parte civile, ai sensi dell'art. 572 c.p.p., in cui lo stesso si limiti ad esprimere condivisione per le censure contenute nella predetta richiesta, senza indicare le ragioni del proprio dissenso dalla sentenza impugnata; è valido, invece, l'atto nel quale siano trascritte, testualmente e per esteso, le doglianze contenute nell'istanza della parte civile. Del pari, sono del tutto condivisibili quelle pronunce per le quali alla luce della recente riforma delle impugnazioni, la specificità dei motivi – con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto – è divenuta elemento essenziale ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione, che non può limitarsi alla rivalutazione di argomentazioni sulle quali il giudice di prime cure si sia già espresso, ovvero tendere alla prospettazione della mera ricostruzione alternativa dei fatti, senza l'indicazione delle fonti di prova da cui si deduce la differente ricostruzione. Analogamente deve dirsi per gli approdi che, in conformità ai nuovi oneri motivazionali imposti all'impugnante, censurano di a-specificità le censure che non solo, nella sostanza, ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice di gravame (v., da ultimo, Cass. pen., Sez. V, 25 maggio 2018, n. 34504). Tali risultano anche quelle generiche, per indeterminatezza, vale a dire, secondo quanto preteso dalla novella del 2017, carenti di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, non potendo, quest'ultima, ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel “nuovo” vizio conducente a mente dell'art. 591, comma 1, lett. c) c.p.p. all'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. pen., Sez. VII, ord. 30 maggio 2018, n. 28927).

L'assunto, com'è noto, riprende quanto già prospettato prima della novella dalle Sezioni Unite Galtelli, a sua volta, tuttavia, superata sul piano dell'equiparazione, quanto al concetto di specificità (allora) dei motivi, tra giudizio d'appello e ricorso per cassazione, dalle Sezioni unite civili (Cass. civ, Sez. unite, 10 ottobre 2017, n. 27199) che mantengono – doverosamente – ferma la diversa efficacia che quell'elemento comporta.

Ciò premesso, tuttavia, si segnalano delle decisioni meno apprezzabili che, al di là di quella qualità, tendono, dopo la riforma, a richiedere, altresì, la coerenza interna tra i motivi e le richieste, anch'esse doverosamente specifiche, a pena di inammissibilità dell'atto di gravame.

Ora se è vero che la modifica normativa ha esteso la sanzione de qua a tutti gli elementi previsti all'art. 581 c.p.p., è altrettanto vero che ponendo lo sguardo all'impugnazione di merito il tema incrocia quanto stabilisce, sul piano della cognizione del giudice di seconde cure, l'art. 597 c.p.p., a mente del quale nel giudizio d'appello il giudice estende la sua cognizione “ai punti della decisione” a cui si riferiscono i motivi. In altri termini, a seguito della riforma, anche nell'appello il combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1, lett. c) c.p.p. comporta l'inammissibilità dell'impugnazione in caso di genericità dei relativi motivi: per escludere tale patologia è necessario che l'atto individui il punto che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con puntuale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata e specificando tanto i motivi di dissenso alla decisione appellata, quanto l'oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame (Cass. pen., Sez. V, 25 maggio 2018, n. 34504).

Se così è, in ogni caso, non persuade quella giurisprudenza che sanziona con l'inammissibilità, non solo l'impugnazione “oltremodo sintetica” - posto che la legge non richiede una critica estesa o approfondita - bensì quella sì “specifica” ma nella quale si sia incorsi in un errore (materiale), chiedendo l'assoluzione con una formula piuttosto che un'altra (“perché il fatto non sussiste”, mentre si sarebbe dovuto chiedere l'assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”). Trattasi, in tal caso, di rilievi eccessivamente rigorosi che, senza confrontarsi con il nuovo testo dell'art. 581 c.p.p. e, lo ribadiamo, con l'art. 597 c.p.p. pretendono dall'appellante uno “schema di sentenza” del tutto estraneo alla materia.

Così facendo, s'invertono metodologicamente i termini della questione: la novella, com'è noto, ha inteso certo rafforzare l'obbligo motivazionale del giudice proprio allo scopo di “agevolare” la più impegnativa prospettazione spettante all'impugnante, ma al di là di tale aspetto rimangono significativamente diverse le ricadute dei due atti e le conseguenze a cui gli stessi sono diretti. Con la riforma Orlando si richiede, più semplicemente, che l'atto d'appello sia conforme alle sopravvenute e più gravose condizioni normative, affinché esso, oggi come nel passato, consenta di “aprire” il giudizio sul punto della decisione devoluto, prospettando richieste sì specifiche, ma non necessariamente fondate. Ad ogni buon conto quella imposta è solo una conclusione “possibile” che non vincola il giudice sul versante decisorio (ma sul piano motivazionale).

Una diversa opzione - fortemente criticabile - finisce per far coincidere l'ambito di operatività degli artt. 581, 597 e 606 c.p.p.: nonostante le interpolazioni subite dagli artt. 546 e 581 c.p.p., la legge, opportunamente, ha lasciato invariato il perimetro decisorio spettante al giudice d'appello che rimane un giudizio modellato su motivi non tassativi e dunque non a critica vincolata. Se così è vanno banditi indirizzi tesi a statuire con la gravosa sanzione dell'inammissibilità patologie dell'atto su aspetto non stabiliti legalmente.

Ulteriori perplessità sono prospettabili per quanto riguarda la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di impugnazione del pubblico ministero della sentenza di proscioglimento di primo grado, relativamente alla richiesta di una prova dichiarativa suscettibile di determinare la condanna dell'imputato (art. 603, comma 3 bis, c.p.p.). Non solo è ancora incerta la ratio sottesa alla norma che, secondo quanto previsto dalle Sezioni unite Dasgupta e Patalano, prima, e Troise, poi, soddisferebbe ora il principio di immediatezza ora quello di non colpevolezza ora l'art. 533 c.p.p. che impone il superamento del ragionevole dubbio, ma anche il suo effettivo ambito di applicazione.

Dunque, innanzitutto, occorre far definitiva chiarezza su quale regola effettivamente si regga l'obbligo de quo (anche al fine di comprendere la sua estensibilità o meno alle diversificate ipotesi che il giudice si troverà di fronte), qualche perplessità residua, pur dopo la decisione Troise, circa la capacità sistematica di ritenere nell'ipotesi inversa -superamento della condanna con l'assoluzione- rispettati quei principi in ragione del semplice obbligo di motivazione rafforzata (v., in maniera da ultimo, nel senso che presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell'epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l'assoluzione, Cass. pen., Sez. II, 27 giugno 2018, n. 33088).

In secondo luogo, va ancora approfondito il rapporto che intercorre fra rinnovazione (o meno) e l'obbligo de quo atteso il carattere poliedrico delle soluzioni prospettate anche dalle Sezioni unite. Infine, la riforma, unitamente alle modifiche introdotte dal d.lgs. 11 del 2018, pone in luce il vulnus legato al mancato coordinamento della previsione de qua con l'appello del P.M. nel rito abbreviato: ferma restando la proponibilità dell'appello incidentale nei confronti degli appelli del P.M. nel caso di condanna, forti criticità, alla luce del d. lgs. citato che completa la riforma Orlando, si prospettano nel caso dell'appello del P.M. nei confronti della sentenza di proscioglimento in relazione alle quali potrebbe trovare operatività l'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., con tensioni in caso di abbreviato secco, rinnovazione camerale, mancata obbligatoria presenza del difensore ed impossibilità di appello incidentale dell'imputato ( salvo intendere, come prospetta parte della dottrina, quel “che non ha proposto impugnazione”, riferito alla parte che non ha presentato appello perché non legittimato) al quale sarebbe consentito solo la presentazione di memorie e richieste (art. 595 c.p.p.), con le ulteriori negative implicazioni della sanatoria della invalidità conseguente alla richiesta del rito.

Del pari, v'è da chiedersi se sia compatibile con il sistema e con gli artt. 3, 24, 27 e 111 Cost. il limite che l'imputato, invece, attualmente incontra ad ottenere una rinnovazione dibattimentale, ancora subordinata alle condizioni stabilite all'art. 603 c.p.p.

Le altre riforme: solo un rinvio o un pieno ripensamento?

Come si è detto, trova qualche difficoltà l'approvazione della riforma del sistema penitenziario che, in ossequio alle direttive contenute nella l. 103/2017, attua non solo un rinnovamento della materia ma un suo adeguamento agli orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e delle Corti europee.

Con la sua attuazione sarebbe ridotto il ricorso al carcere in favore di soluzioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riporta(va)no al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall'art. 27 Cost., assegnando priorità alle misure alternative (al carcere), potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva, razionalizzando il sistema, i tempi procedimentali e le attività degli uffici preposti alla gestione del settore penitenziario, fra cui il ruolo della polizia penitenziaria. In data 2 agosto 2018, il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare, il testo che introduce disposizioni volte a modificare l'ordinamento penitenziario in attuazione dell'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della menzionata legge. Il Governo, in seguito al parere negativo espresso dalle Commissioni parlamentari competenti su alcuni articoli del testo redatto dall'apposita Commissione ministeriale, varato in esame preliminare da ultimo lo scorso 16 marzo, ha ritenuto opportuno intervenire con una revisione e riscrittura del testo, in modo da tenere conto delle indicazioni espresse dal Parlamento.

Quanto alle intercettazioni telefoniche, in attesa della definitiva applicazione delle direttive tradotte nel d.lgs. 216/2017, la cui entrata in vigore è stata prorogata con il recente d. l. n. 91 del 2018 (c.d. milleproroghe), non si possono apprezzare le mancate precisazioni che quel testo in tema di virus informatico. Oltre all'eliminazione del riferimento all'ipotesi associativa di cui al recente pronunciamento delle Sezioni unite Scurato, restano, ancora, da definire e soprattutto da attuare la tutela del segreto, la conoscenza degli atti da parte della difesa, l'effettività della tutela dei dati sensibili e degli elementi favorevoli alla difesa.

Tenuto conto del dibattito che si è già avviato sul testo forse occorrerebbe cogliere l'occasione della sua mancata entrata in vigore per rimediare a questi ed altri aspetti della disciplina (sopravvenuta ri-qualificazione del fatto che non rientrerebbe fra i reati previsti all'art. 266 c.p.p.; uso dei risultati in altro diverso procedimento, ecc.).

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